Vittime dei genocidi trasmettono il trauma ai figli, lo dicono studi compiuti su armeni ed ebrei sopravvissuti (Ilmessaggero 03.02.20)

Roma – Per decenni chi è sopravvissuto all’Olocausto ha taciuto. C’è chi si sentiva in colpa per essere uscito vivo dall’abisso, chi aveva paura di non essere creduto. Schiacciati dal peso dei ricordi i sopravvissuti hanno evitato di parlare della propria esperienza. Persino in famiglia. Un silenzio obbligato. Eppure la «congiura del silenzio» ha trasmesso ugualmente, di generazione in generazione, il trauma attraverso la potenza del linguaggio emotivo. Lo shock è passato da padre in figlio. Oggi c’è chi studia sistematicamente queste lesioni collettive che hanno accomunato i sopravvissuti al genocidio armeno (1915-1919) avvenuto sotto il dominio ottomano in Turchia, per un totale di 1 milione e mezzo di morti, sia i sopravvissuti alla Shoah, oltre 6 milioni di persone sterminate da Hitler. In Francia sono famosi i lavori di Janine Altounian mentre in Italia è Alberto Sonnino, uno degli psichiatri che lavora attorno a questo buco nero con un team focalizzato a studiare gli effetti generazionali del genocidio.

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Alcuni giorni fa, al Quirinale per la Giornata della Memoria, lei ha spiegato perchè i sopravvissuti non sono riusciti a parlare subito. Lo hanno fatto solo dopo decenni. Perché?
«C’è una lunga letteratura ormai. Se riascoltiamo le testimonianze si avverte un dato di sottofondo: queste persone non si sentivano ascoltate o credute, altre si sentivano in colpa per essersi salvate rispetto a chi non ce l’aveva fatta. Parlare significava riprendere contatti con una vicenda traumatica. Forse non avevano nemmeno interlocutori disponibili; a volte è difficoltoso affrontare i ricordi persino con medici specializzati. E’ un vissuto incandescente che necessita di empatia. Dori Laubn, un neuropsichiatra israeliano, anch’egli scampato alle camere a gas ha lasciato importanti studi a riguardo. In particolare su alcuni sopravvissuti ricoverati in istituti psichiatrici che avevano iniziato a parlare dopo trent’anni. Alla domanda: guardi che dalla sua cartella clinica questo non risulta, perché non ne ha parlato prima, i pazienti rispondevano la stessa cosa. Perché nessuno ce lo ha mai chiesto».
Sembra paradossale, visto che la Shoah è stata la più grande ferita del Novecento…
«Se in genere è difficile liberarsi di uno shock in una situazione normale, figuriamoci in una realtà abnorme e crudele come quella. Gente sradicata dalle proprie case, spogliata dell’identità, deportata in luoghi di morte, tutti testimoni dell’uccisione dei fratelli, dei nonni, dei genitori. Gente che quando è tornata libera, salvandosi, dopo il 1945, ha dovuto scontrarsi con un’altra emarginazione. Nessuno li voleva ascoltare. Era così deforme il loro racconto che venivano presi quasi per matti. Questo ci fa capire che ascoltare e recepire un vissuto del genere non è facile. Ricordo Shlomo Venezia che diceva che quando cercava di parlare del suo vissuto gli sembrava di non essere creduto, vedeva con la coda dell’occhio la diffidenza».

C’era un mondo esterno che non voleva saperne?
«Ora le cose sono cambiate ma per lungo tempo non si era pronti. Basti pensare che il primo incontro formale, pubblico, organizzato tra la comunità ebraica di Roma e i sopravvissuti alla Sinagoga, è avvenuto solo nel 2010. Come se si dovessero incontrare dei vecchi amici che non avevano avuto la possibilità di farlo prima. Così come il primo viaggio organizzato dalla Comunità in nei campi di sterminio che risale solo al 2008».
La congiura del silenzio però fu rotta da Primo Levi…
«Lui fu una eccezione anche se inizialmente l’editore Einaudi gli restituì una prima bozza perché affermava che quel testo fosse troppo forte. La maggior parte dei sopravvissuti è rimasta nel silenzio per decenni».
Il trauma si trasmette da padre in figlio?
«Ciò che ha un effetto patogeno è quello che viene espresso segretamente. Il silenzio procura più danni che non un contenuto verbalizzato senza censure, senza dinieghi. Esiste un contenuto trasmesso inconsciamente. Rimangono tracce. Le emozioni si trasmettono. Le emozioni non riconosciute sono quelle che veicolano più profondamente. Anche la biologia è di sostegno a questo aspetto. Sono stati fatti studi sui figli dei sopravvissuti all’Olocausto: davano risposte avanti gli stessi picchi nei livelli di cortisolo mostrando un meccanismo biologico alterato. Come se fossero loro i portatori primari degli effetti traumatici».
Il fatto che nel dopoguerra non ci sia stato un vero processo storico sulle responsabilità a vari livelli delle persecuzioni ebraiche in Italia, ha inciso sul silenzio di tanti sopravvissuti?
«Discorso lungo e difficile. Solo oggi ci si comincia a rendere conto di quanto i colpi di spugna del passato, la mancanza di processi e le amnistie – in Italia penso a quella che porta il nome di Togliatti del 1946 – abbiano portato a non maturare quella consapevolezza collettiva sul senso di colpa. E’ sicuramente mancata una spinta catartica che non ha aiutato le vittime».
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