Viaggio nell’Armenia lacerata tra Mosca e Bruxelles (Lettera43.it 17.04.17)

trano Paese quello che va a dormire pronto a festeggiare l’ingresso nell’Unione europea e si sveglia alleato della Russia; che venera un monte fuori dal suo territorio; che vanta una storia millenaria ma si trova intrappolato nel passato più recente. Strano Paese l’Armenia, nel mezzo di un cambiamento politico che potrebbe consolidarla o farla sprofondare nei meccanismi autarchici che contraddistinguono molti dei suoi vicini caucasici. «Siamo seduti sulle ginocchia della Russia e le tiriamo la barba. Ci piace definirci europei ma abbiamo paura che le loro politiche sociali distruggano i nostri valori. Almeno siamo flessibili e non chiudiamo le porte a niente e nessuno», si schernisce Maria Titizian, armena della diaspora che vive fra il Canada e Yerevan, dove ha fondato il portale d’informazione indipendente EVNreport.

METAMORFOSI DI UNA REPUBBLICA. Due settimane fa in Armenia si sono tenute le elezioni parlamentari. È stato il primo test nel passaggio da repubblica semi-presidenziale a parlamentare pura. Il 6 aprile 2015 un referendum voluto e vinto dal Presidente in carica Serzh Sargsyan ha stabilito che dal 2018 il Parlamento e il primo ministro saranno più importanti del capo dello Stato. Le opposizioni accusano Sargsyan di aver messo mano alla Costituzione per mantenere il potere anche dopo la fine del suo mandato, nell’aprile del prossimo anno, ripresentandosi come primo ministro. I filo-governativi forniscono la spiegazione opposta: «Abbiamo cambiato per avere maggiore democrazia: il vice presidente del Consiglio spetterà alle opposizioni, le decisioni vitali avranno bisogno del voto di due terzi del Parlamento e le minoranze avranno i loro rappresentanti. Abbiamo cambiato per avvicinarci all’Europa», spiega la portavoce del Parlamento.

BROGLI E CONDIZIONAMENTI. Gli osservatori internazionali delle Nazioni Unite hanno monitorato lo svolgimento delle elezioni, dopo che numerosi brogli e condizionamenti erano stati segnalati in occasione del referendum. E non molto è cambiato: «Sfortunatamente il processo elettorale è stato minato dalla compravendita di voti e atti intimidatori nei confronti degli elettori», hanno scritto nel comunicato successivo alle elezioni. «Uno dei problemi dell’Armena è la qualità dell’informazione. Ci sono solo cinque canali televisivi, di cui uno è di proprietà del governo e due di altri leader politici», ha ammonito Jan Petersen, coordinatore della missione Ocse ed ex ministro norvegese.

Politica, business e informazione sono concentrati nelle mani di pochi oligarchi. Gagik Tsarukyan, leader di Armenia Prospera, partito che fino al referendum era al governo con i repubblicani di Sargsyan e poi è passato all’opposizione, è fra i più ricchi del Paese. Campione mondiale ed europeo di lotta libera negli anni ’90, Tsarukyan vive in una villa appena fuori Yerevan con tanto di zoo privato. Sua è la fabbrica di cognac più antica del Paese, l’Ararat Factory che dopo essere stata spacchettata e venduta in parte ai francesi si chiama Noy (Noè, ndr); suo è il birrificio Kotayk Abovyan, a completare il monopolio sugli alcolici; e sua è Kentron Channel, quarto polo televisivo per ascolti. «Noi siamo la voce dell’opposizione, ma siamo pronti a fare accordi con i repubblicani per governare insieme», spiega Naira Zohrabyan, allo stesso tempo portavoce di Armenia Prospera e direttrice di Kentron Tv, di cui però rivendica la «totale indipendenza».

UNO SGUARDO AL 2018. Non da meno è Karen Karapetyan, primo ministro in carica, repubblicano: «In campagna elettorale Karapetyan ha presentato al mondo il suo club degli investitori, un circolo di oligarchi russi e armeni che hanno promesso di investire tre miliardi di dollari in tre anni se il loro protetto venisse riconfermato», dice Artak Aleksanyan, direttore di ArmNews, la più diffusa tivù privata – e non politica – locale. Nulla di strano, considerando che lo stesso Karapetyan è stato per quasi dieci anni amministratore delegato della ArmRosGazprom, la compagnia petrolifera che impersonifica la joint-venture politica ed economica con la Russia. Ambizioso e carismatico, Karapetyan ha conquistato l’elettorato con messaggi ottimisti impregnati di fiducia e promesse di crescita, che hanno garantito al partito repubblicano oltre il 49% dei voti. Molto probabilmente Karapetyan sarà confermato primo ministro, ma resta da capire se nel 2018 Sargsyan avrà voglia di sfidarlo o gli lascerà le redini del partito e del Paese.

LA DISAFFEZIONE DEI CITTADINI. Le elezioni non hanno risolto la disaffezione degli armeni nei confronti della classe politica, come testimonia l’affluenza sotto al 60%: «Nessuno vuole veramente cambiare questo Paese, se non i giovani. Ma non ce ne danno la possibilità», lamenta Vanuhi, psicologa trentenne di Yerevan. La città non riesce a nascondere le origini sovietiche e alle spalle della rossissima Piazza della Repubblica spuntano gli oltre 5 mila metri del monte Ararat. La montagna su cui Noè salvò quel che rimaneva dal diluvio universale è il simbolo delle frustrazioni armene. A pochi passi dal confine turco, l’Ararat e molte città simbolo dell’impero armeno sono su terra nemica: «Per noi l’Anatolia è l’Armenia occidentale e quel confine chiuso impedisce di riunirci con i nostri parenti», spiega Vanuhi.

Il genocidio armeno di 100 anni fa mai riconosciuto da Ankara è un ostacolo ancora insormontabile fra i due Paesi, nonostante i prodotti turchi affollino il mercato armeno. Anche l’altro confine, quello con l’Azerbaijan, è chiuso e la guerra per il Nagorno Karabakh non aiuta le relazioni: «È l’ultimo pezzo di terra che l’Armenia ha perso dopo il genocidio», sottolinea Maria Titizian. «Rappresenta una questione identitaria molto forte che chiunque governi l’Armenia deve tenere in considerazione».

IL CONFLITTO CON GLI AZERI. Il territorio a maggioranza armena al confine fra i due Paesi si è dichiarato autonomo nel 1992 e da allora armeni e azeri se lo contendono in un conflitto a intensità variabile, che anche un anno fa ha avuto un’escalation di quattro giorni con diverse centinaia di morti. «Riusciamo a combattere l’Azerbaijan grazie alle armi che ci vendono i russi. A proteggerci al confine con la Turchia ci sono 5 mila soldati di Mosca. Certo che non siamo un Paese del tutto indipendente. Ma chi lo è?», sorride sornione Aleksanyan. Nel 2012 l’Armenia aveva iniziato le trattative per l’ingresso nell’Unione europea, come le vicine Georgia e Ucraina, che avrebbero dovuto finalizzarsi nel settembre 2014. Quando tutto sembrava ormai fatto, il presidente Sargsyan annunciò l’adesione dell’Armenia alla comunità economica Eurasiatica, una sorta di Ceca con Bielorussia, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan creata tre anni fa da Putin per unire i Paesi dalla Turchia alla Cina.

I COLLOQUI CON L’EUROPA. «Nessuno sapeva chi aveva deciso questo cambio di rotta e perché», ricorda Aleksanyan. «Col senno di poi, visto quello che è successo in Georgia e Ucraina, è andata meglio così». Indipendente da 25 anni, ancora pregna della cultura russa – nelle scuole pubbliche si insegna il russo e i più anziani si fidano solo di Russia Today, per dire – in questi mesi l’Armenia ha ricominciato la discussione con l’Europa per un’unione almeno commerciale. Il cervello a Mosca e il cuore a Bruxelles, stando ben attenta a non intaccare quell’equilibrio che tanto bene fa agli oligarchi e tanto odiano i giovani.

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