Viaggio ad Ani e sul lago Çıldır, nell’est della Turchia, tra straordinari paesaggi di neve e ghiaccio (Touringclub 15.12.23)

La Turchia nord orientale, alle pendici del Caucaso meridionale, può riservare vere sorprese a chi la visita, soprattutto in inverno. Che si ami la storia e l’archeologia, o che si preferiscano le attività nella natura, questi luoghi lontani offrono la possibilità di esperienze uniche, inattese. Pochi lo sanno, ma non lontano dalla città di Kars (che abbiamo raccontato in un precedente reportage) si può vagare fra le rovine di un’antica capitale armena che teneva testa a Costantinopoli e a Baghdad. Oppure si può sfrecciare su slitte trainate da cavalli su un grande lago ghiacciato, dove i pescatori emulano gli eschimesi pescando le carpe attraverso grossi buchi nel ghiaccio. Esperienze forti ed entusiasmanti, soprattutto quando la temperatura, come spesso accade in gennaio e febbraio, scende anche a 30 gradi sotto zero.
ANI, LA CITTÀ DALLE 1001 CHIESE
Una meraviglia. Oltrepassata la doppia cinta delle mura magistrali e varcata la Aslan Kapısı, la Porta del Leone, si resta senza fiato, e non a causa del gelo. Sepolto sotto metri di neve, su una scarpata triangolare che precipita su due lati in gole profonde, il sito archeologico di Ani appare un luogo fiabesco, dall’atmosfera magica. Non fosse per le cupole a tamburo di alcune chiese in rovina, sparse qui e là, quasi tutte sui bordi del dirupo, si potrebbe pensare che su questa piana a 1500 metri di quota nessuno abbia mai potuto vivere, per lo meno d’inverno. La coltre bianca, in realtà, concorre a occultare ancor più le poche tracce rimaste di una città fantasma, dimenticata per secoli ma che mille anni fa fu ricca e potente, ben difesa com’era e strategicamente collocata lungo la via della seta.

San Gregorio di Gagik, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Sarà che i miti facilmente si alimentano di cifre tonde, ma è stato tramandato che nel X secolo Ani contasse 100mila abitanti, 10mila case e, appunto, mille chiese più una, la cattedrale, capolavoro del grande architetto armeno Trdat (Tiridate). A rendere Ani potente era stato un ramo della nobile dinastia armena dei Bagratidi, che dicevano di discendere dal biblico re David (un altro ramo governò l’Artsakh, più noto alle cronache odierne come il Nagorno-Karabakh che di recente l’Azerbaigian ha strappato all’Armenia). Un re bagratide, Ashot III, nel 961 spostò la capitale da Kars ad Ani, attirato dalla posizione apparentemente imprendibile: la città era naturalmente difesa da ripidi canyon, tranne che sul lato nord dove suo figlio Smbat II avrebbe poi fatto costruire doppie mura con sette porte e tante torri rotonde. Quindi con il re Gagik I (989-1020) Ani toccò i vertici del suo splendore, tanto che il katholikòs, ovvero il patriarca di tutti gli armeni, vi spostò la sua sede.

Fu quello il periodo d’oro le cui tracce oggi si vengono a ricercare e ad ammirare, con la curiosità del viaggiatore e la passione dell’archeologo. Sì, perché la storia successiva vide Ani decadere in fretta, fin quasi a scomparire del tutto: conquistata via via dai georgiani, dai bizantini, dai selgiuchidi, devastata dai mongoli nel 1250, rasa al suolo da un terremoto nel 1319, Ani fu cancellata da ogni carta geografica. Le sue rovine tornarono alla luce solo fra il XIX e il XX secolo grazie a un famoso archeologo e linguista georgiano, Nikolai Marr (più noto come l’ideatore della cosiddetta teoria iafetica, popolare nell’Urss prima che Stalin la sconfessasse nel 1950, secondo la quale le lingue caucasiche e semitiche avevano radici comuni).

Le mura di Ani sopra la gola del fiume Arpaçayche fa da confine fra Turchia e Armenia – foto di Roberto Copello

Con il Trattato di Kars del 1921 Ani passò alla Repubblica di Turchia. Il governo ordinò che “fosse cancellata dalla faccia della terra”, ma per fortuna il comandante del fronte orientale, il generale Kâzım Karabekir, rifiutò di eseguire l’ordine. Per tutto il XX secolo visitare le rovine di Ani restò difficile, anche perché si trovavano in zona militare, sopra la gola e il fiume che prima segnavano il confine con l’Urss, ora quello (ermeticamente chiuso) con l’Armenia. Così fino a qualche tempo fa per visitare Ani occorreva un permesso della polizia e si veniva scortati sul sito da un soldato, il quale controllava che non venissero scattate foto, fatti schizzi e neppure presi appunti! Dal 2004, con la gestione passata dal ministero della Difesa a quello della Cultura e del Turismo, Ani è diventata accessibile a tutti, e i primi ad approfittare dei diminuiti controlli non furono i turisti ma i tombaroli, pronti ad approfittare dei minori controlli. Purtroppo, vuoi per le attività umane (pastorizia, cave di pietra, vandalismo, furti, ma anche restauri affrettati e senza senso) vuoi per la sismicità della zona, non c’è monumento di Ani che non abbia problemi di stabilità. Per questo l’antica capitale armena è stata spesso inserita nelle liste dei siti più a rischio del mondo. Sembra però che il ministero turco della Cultura e del Turismo negli ultimi anni si sia impegnato nell’opera di tutela e nella visitabilità, soprattutto dal 2016, anno in cui Ani è stata iscritta nel Patrimonio dell’Unesco, che ha riconosciuto come “il sito presenta una panoramica completa dell’evoluzione dell’architettura medievale attraverso esempi di quasi tutte le diverse innovazioni architettoniche della regione tra il VII e il XIII secolo”.

Peraltro, l’abbandono secolare e la posizione remota sono stati anche la fortuna di Ani, perché hanno consentito di preservare l’autenticità dei suoi edifici religiosi, militari e civili (in gran parte ancora da riportare alla luce). Quanto rimane, insomma, per quanto rovinato, non è stato contaminato da interventi successivi. Costituisce così una finestra su quello che fu per sei secoli, dal VII al XIII, un luogo di incontro fra le culture armena, georgiana e islamica, fucina di nuovi stili architettonici e decorativi (la cosiddetta “scuola di Ani”) che sarebbero stati copiati un po’ ovunque, fra l’Anatolia e il Caucaso.

San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello
I MONUMENTI DA NON PERDERE AD ANI
Per tutto questo, varcando la Porta del Leone si accede a una “città morta”, certamente, ma anche a un mondo che non vuole scomparire. Una volta sulla spianata, voltandosi indietro le torri rotonde delle mura di Smbat (restaurate troppo e male negli anni 90) ricordano quelle che i bambini fanno al mare, rovesciando secchielli pieni di sabbia bagnata. In effetti, si avanza affondando nella neve un po’ come accade camminando su una spiaggia. Ogni edificio, poi, riserva sorprese differenti (attenzione perché ognuno può avere tre o quattro nomi diversi). Quelli da non perdere sono questi.

Porta del Leone, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più spettacolare: la chiesa di San Gregorio di Tigran Honenz, in bilico sull’orlo della scarpata, protesa verso il sottostante fiume Arpaçay (Akhourian per gli armeni) come un deltaplano pronto al decollo. Secondo un’iscrizione sul muro orientale, a farla erigere, nel 1215, fu un ricco mercante di nome Tigran Honenz. La volle dedicare al grande santo Gregorio Illuminatore, che nel IV secolo convertì il re Trdat III (Tiridate) facendo dell’Armenia il primo stato cristiano al mondo. La grande basilica a croce inscritta e con la cupola sulla crociera è la chiesa meglio conservata di Ani. Artisti georgiani realizzarono i due cicli di affreschi che ricoprivano interamente le pareti e il tamburo: riescono ancora a “parlarci”, nonostante i molti volti cancellati, le ampie zone imbiancate e i numerosi graffiti di recente data. Un ciclo è dedicato alla vita di san Gregorio, l’altro a quella di Gesù (si indovinano la morte di Maria e il primo bagnetto di Gesù Bambino). I pennacchi tra le arcate sono riempiti di bassorilievi con forme di animali, reali e immaginari, che rimandano alla celebre scuola di miniatura armena. Suggestivo è poi quanto rimane in piedi del nartece esterno e delle sue arcate, con brandelli di affreschi che da secoli eroicamente resistono alle intemperie caucasiche.


San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


San Gregorio di Tigran Honenz, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più iconico: San Gregorio di Gagik. Una cartolina. Visto da lontano, isolato nella neve e sullo sfondo di dolci pendii, questo edificio a pianta rotonda coincide con l’idea più diffusa e comune di “chiesa armena sperduta fra le montagne”. Commissionata da re Gagik I nel 1001 all’architetto Trdat, fu pensata sul modello della famosa chiesa di Zvartnots, eretta nel luogo dove si pensava fosse avvenuto l’incontro fra Trdat III e san Gregorio Illuminatore (le rovine di quella chiesa, oggi nella Repubblica d’Armenia, sono anch’esse nel Patrimonio Unesco). Vari e raffinati sono qui i motivi decorativi: finestre incorniciate da modanature, doppie serie di arcate cieche, elaborate cornici, nicchie profonde e finti portali ne fanno la più “barocca” delle chiese di Ani.

San Gregorio di Gagik, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più a rischio: la chiesa del Redentore. Nikolai Marr vide ancora in piedi la bella, imponente costruzione voluta da un principe nel 1036 per accogliere una reliquia della croce di Cristo. Aveva pianta rotonda e ben otto absidi, ma poi nel XX secolo è venuto giù quasi tutto, fino alla mazzata finale del tremendo terremoto del 1988. Tuttavia la chiesa si ostina a restare in piedi, sia pur spaccata verticalmente a metà. Sostenuta da impalcature che la rendono off limits, è oggetto di delicati interventi di consolidamento e ricostruzione: pietre e frammenti di affreschi sono scansionati con un laser 3D in vista della loro ricollocazione.


Chiesa del Redentore, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il più maestoso: la Cattedrale. Trasformato in moschea dai selgiuchidi nel 1064, tornato  chiesa con i georgiani, questo grande edificio a tre navate era stato eretto, tra il 989 e il 1001, dal più grande architetto del suo tempo, Trdat, colui che aveva restaurato la cupola di Santa Sofia a Costantinopoli. Le guide, sottolineando la verticalità dell’interno, enfatizzata dagli archi a sesto acuto e dai pilastri e lesene raggruppati attorno a una colonna centrale, con i costoloni che salgono verso l’alto, vi diranno che Trdat seppe anticipare le soluzioni dell’architettura gotica. Tuttavia, non vi sono prove di contatti tra architetti armeni ed europei in quei secoli medievali. Guardando verso l’alto, vien da pensare alla toscana San Galgano, non fosse che perché si vede il cielo: l’enorme cupola alta 20 metri crollò già con il terremoto del 1319, l’alto tamburo che la reggeva venne giù nel 1832. Poi nel 2001 nuove grandi fessure sono state aperte dallo spostamento d’aria delle forti esplosioni fatte brillare nella cava, al di là del canyon e del confine, dove gli armeni estraevano la pietra per la nuova cattedrale di Erevan. La facciata allora iniziò a inclinarsi: se oggi la Cattedrale si sorregge è solo grazie a enormi impalcature, interne ed esterne, che impediscono il collasso totale.


La Cattedrale, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


La Cattedrale, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Il meno cristiano: il complesso di Manuçehr, dal nome dell’emiro selgiuchide che l’avrebbe eretto nel 1071-1072, ricavandovi quella che secondo gli studiosi turchi sarebbe la prima moschea in Anatolia (gli studiosi armeni ritengono invece che fosse un più antico palazzo bagratide, convertito più tardi in moschea). La moschea all’inizio del XX secolo fu usata come museo per gli oggetti rinvenuti da Nikolai Marr nei primi scavi. Poi nel 1916 almeno seimila reperti furono trasferiti al Museo storico dell’Armenia, a Erevan, salvandoli dalle devastazioni belliche. Tornata moschea, ora ha una sala di preghiera con grandi e spettacolari vetrate aperte sulla gola del fiume Arpaçay. Il minareto, ottagonale secondo lo stile dell’Asia Centrale e curiosamente separato dalla moschea, è la parte più antica del complesso: sul versante nord porta una policroma iscrizione “Bismillah” (In nome di Allah) in geometrici caratteri cufici. All’interno, i suoi gradini sono “solo” 93, e non 99 come in genere raccontano le guide turche.


La Moschea di Manuçehr, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello


La Moschea di Manuçehr, Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

Sui 78 ettari del sito di Ani sono poi disseminati altri antichi edifici (chiese, cappelle, monasteri, case, caravanserragli e tombe), più o meno in rovina e non sempre accessibili: impossibile qui dar conto di tutti. Resta generalmente off limits (siamo in una “sensibile” zona militare, praticamente a tu per tu con le guardie di frontiera e i reticolati della Repubblica d’Armenia) la possente cittadella fortificata che all’estremità meridionale della scarpata include il palazzo reale dei Bagratidi e parecchie chiese. Neanche a parlarne, poi, di esplorare le centinaia di grotte ricavate sui fianchi del burrone e utilizzate un tempo come abitazioni o come chiese rupestri (lo studio più accurato è di un archeologo genovese, Roberto Bixio). E, tuttavia, quanto resta visitabile è sufficiente a trasmettere un’emozione fortissima a chi, lungo il sentiero ad anello, fa il giro del perimetro della scarpata. Chi poi abbia a disposizione qualche giorno di tempo può avventurarsi a cercare quanto resta di tanti altri edifici medievali armeni, sparsi nel raggio di poche decine di chilometri: i monasteri di Horomos, Khtzkonk e Bagnayr, le basiliche di Taylar, Karmirvank, Oğuzlu, Mren, Digor…

Attorno a Ani, Turchia – foto di Roberto Copello

IN SLITTA E A PESCA SUL LAGO ÇILDIR

Come detto all’inizio, il Caucaso meridionale turco non offre solo storia, cultura e archeologia. Una delle attrattive invernali più elettrizzanti è il grande lago Çıldır (Çıldır Gölü), il secondo lago più grande dell’Anatolia orientale e uno dei più importanti laghi d’acqua dolce della Turchia, con un perimetro di 60 km e una superficie di 123 kmq (poco meno del nostro lago Trasimeno). Di origine vulcanica, situato a cavallo tra le province di Kars e di Ardahan, a quasi 2.000 metri di altitudine, il lago Çıldır è una delle ragioni per cui in gennaio e febbraio migliaia di turisti lasciano Istanbul e Ankara per passare qualche giorno nel Caucaso meridionale turco.


Il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello


Il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

La ragione è presto detta. In pieno inverno, con temperature che scendono anche a meno di 30 gradi sotto zero, la superficie del lago Çıldır gela completamente. Lo spessore del ghiaccio raggiunge i 70 cm, a volte il metro: dunque, non solo vi si può camminare o pattinare in tutta sicurezza, ma addirittura si può percorrerlo su slitte trainate da uno o due focosi cavalli, ingentiliti da qualche pon pon colorato sulla bardatura. Chi guida questa specie di troike, spesso anche senza guanti, sembra trovare il massimo divertimento nel lanciare i cavalli al galoppo verso la bianca distesa infinita, sfidando i colleghi in corse forsennate. La meta è costituita, di solito, dalle bandierine di due coppie di paletti, fra i quali, invisibile sotto il ghiaccio, è stata tirata una rete da pesca. Con pala e piccone i cocchieri-pescatori scavano un buco nella calotta, emulando gli eschimesi. Poi iniziano a recuperare la rete e, in pochi attimi, ecco emergere i primi pesci, sottratti alle gelide acque dove, sotto lo strato di ghiaccio, pensavano di essere al sicuro dai cormorani. Si tratta di carpe, gialle e tozze carpe a specchio (Cyprinus carpio) localmente ritenute una prelibatezza: il basaltico fondo del lago è privo di limo e dunque la loro carne non ha l’abituale e sgradevole sapore di fango proprio di questi ciprinidi.

Pesca nel lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello


Pesca nel lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

Pochi minuti dopo, al caldo di una semplice coperta, ogni cavallo affonderà il muso nel fieno della greppia che porta scritto con la vernice il suo nome (il nostro si chiama Cennedin Ruzbari, “Vento del Paradiso”). Quelle carpe appena pescate, invece, faranno la fortuna dei ristoranti locali, che d’inverno si riempiono di clienti. Le si gusta fritte, senza essere infastiditi dalle enormi spine della loro carne. Semmai, preoccupa di più il fatto che negli ultimi anni gli stock ittici del lago Çıldır si siano fortemente ridotti. Colpa dello sfruttamento eccessivo e incontrollato: qui si pesca quattro stagioni su quattro, persino durante il periodo di riproduzione, tra maggio e giugno, quando una carpa rilascia anche un milione di uova.


Il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello


Il ristorante Atalay’ın Yeri presso il lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

Il lago Çıldır, in ogni caso, attrae anche nelle altre stagioni. Lo fa in primavera, quando è una meta entusiasmante per i birdwatcher. E lo fa d’estate, quando oltre che a pescare “normalmente” si viene per attraversarlo in barca, magari sbarcando sull’isola di Akçakale, l’unica sulla sua superficie. Si tratta della zona archeologica più importante della provincia di Ardahan. Alla luce sono stati riportati ruderi di una cappella medievale georgiana del X secolo e molti reperti datati tra l’età del bronzo medio e la prima età del ferro: le abitazioni di una città che copriva metà dell’isola, una tomba monumentale a forma di kurgan (un tipo di tumulo funerario presente nel Caucaso e nell’Asia centrale nel secondo millennio a.C.), almeno quattro misteriosi cromlech (cerchi rituali di pietre conficcate nel terreno), una fortezza, una torre.

L’isola si trova appena a cento metri dall’omonimo villaggio costiero di Akçakale, abitato da non più di duecento Karapapakh (o Tarakama), popolazione di origine turcomanna giunta nel Caucaso sin dal Medioevo. Perseguitati dagli ottomani e dai russi (Stalin li assimilò agli azeri e li deportò in massa nell’Asia centrale), oggi sono ridotti a una minoranza di poche migliaia di persone, sparse fra la Turchia, la Georgia, l’Azerbaigian e l’Iran. Dediti da sempre alla pastorizia, i Karapapakh (significa “cappello nero” ) da decenni non parlano più la loro lingua oghuz ma continuano a praticare l’Alì-Illahismo, misteriosa religione sincretica che deifica Alì, il genero di Maometto, unendo elementi dell’Islam sciita con lo zoroastrismo e con altre antiche credenze orientali.

Al galoppo nel lago Çıldır, in Turchia – foto di Roberto Copello

INFORMAZIONI PRATICHE

– Un reportage di Roberto Copello su Kars è pubblicato a questa pagina; rimandiamo a questo reportage per indicazioni su dove dormire in città.
Come arrivare a Kars
– In aereo: Turkish Airlines vola ogni mattina da Istanbul a Kars in circa due ore (www.turkishairlines.com)
– In treno: Il Doğu Ekspresi “classico” copre i 1310 km di linea ferroviaria da Ankara e Kars in 26 ore. Il lussuoso Doğu Express turistico, che viaggia solo da dicembre a marzo, tre volte la settimana, ha cabine per due con comodi letti e impiega 34 ore, dato che effettua due fermate di tre ore per consentire escursioni ai passeggeri (www.tcddtasimacillik.gov.tr)
Come raggiungere e visitare Ani
Ani si raggiunge in un’ora di auto da Kars, da cui dista 45 km. Il sito archeologico è aperto tutti i giorni dell’anno, dalle 8 alle 19 in estate e dalle 9 alle 17 in inverno. L’ingresso costa 180 TL. Si può entrare anche con il Museum Pass Türkiye, la tessera che consente di accedere a 300 musei nazionali: costa 4000 TL ed è valida per 15 giorni dal primo ingresso (muze.gov.tr/MuseumPass).
Una visita accurata alle rovine di Ani richiede dalle due alle quattro ore. D’estate è consigliabile portare con sé molta acqua. È possibile fare picnic dentro al sito. D’inverno è necessario essere attrezzati per camminare sulla neve, stando attenti alle zone ghiacciate. Per la vicinanza al confine armeno, non tutte le aree sono sempre visitabili. Un sito ricchissimo di informazioni su Ani e su tutti i monumenti armeni della zona, purtroppo non più aggiornato da anni ma ancora utilissimo, è virtualani.org.
Sul lago Çıldır
L’unico ristorante affacciato sulle rive del lago Çıldır e per questo assai popolare (offre anche il giro sulle slitte) è Atalay’ın Yeri (atalayn-yeri-restorant.business.site).
Siti web utili
Punti di partenza per scoprire il territorio sono www.turchia.it e kars.goturkiye.com