“Vi racconto il genocidio degli armeni con le storie di tre donne” (Lastampa.it 17.11.16)
Ricordare è una grazia e una condanna, raccontano i sopravvissuti all’Olocausto. È lo stesso per chiunque sia stato braccato dallo sterminio e ne abbia avuto ragione. Per la scrittrice Antonia Arslan è il genocidio armeno, la Storia, la memoria della madre, gioie, pene, aspettative frustrate di un popolo che nell’ostinarsi a testimoniare la propria epopea ha seminato sulle piaghe la speranza. Classe 1938, un passato da accademica confluito nella critica letteraria prima e poi nella narrativa con il felice La masseria delle allodole, la Arslan ricorda per professione di fede. Scrivo dunque sono. Il suo ultimo Lettera a una ragazza in Turchia (Rizzoli) è un dialogo in tre storie con il presente, l’hic et nunc in cui la violenza del passato può sottrarsi all’oblio e trovare la catarsi.
Il libro inizia sull’aereo dove decide di rivolgersi a un’interlocutrice immaginaria. Ha bisogno di un non-luogo per parlare dell’identità armena a una turca?
«In aereo non riesco a leggere, specie nei viaggi lunghi. Preferisco guardare un film o scrivere. Ero lì, sospesa, né sopra né sotto, né con i fantasmi del genocidio armeno né con le loro appendici moderne, le storie che avevo in testa, tutte vere, sono uscite fuori così».
Scrive a una ragazza, la quintessenza della modernità turca, che si declini nell’emancipazione di segno occidentale o nel risveglio religioso. Pensa a un’attivista stile Gezi Park o a un’assertiva militante di Erdogan?
«Penso a Gezi Park e alle tante ragazze turche di quel genere che ho incontrato negli anni. Alcune hanno lasciato il Paese, altre ci stanno pensando per sfuggire alla nuova persecuzione di accademici e intellettuali. Penso a quelle che vedono il loro orizzonte oscurarsi».
Eppure le religiose, non sono meno determinate nel rivendicare la propria indipendenza.
«La donna è il fulcro della Turchia contemporanea, non per forza progressista. Ci sono donne fanatiche, nel cui caso pesa forse la paura di gettarsi in una modernità più apparente che di sostanza dove sembra non ci siano limiti. Ci sono donne tenere ma ce ne sono di assai più dure degli uomini. Le armene che sopravvissero al genocidio, quando sparirono tutti i maschi tra 15 e 65 anni, erano tostissime. La seconda protagonista del mio libro testimonia l’impegno nell’alfabetizzazione delle bambine armene già nell’800».
La prima delle sue protagoniste, Hannah, ha 15 anni nel 1915, quando Istanbul si chiama Costantinopoli. Ma il suo esodo verso l’America ricorda la marea odierna dei profughi siriani. Dopo un secolo siamo ancora lì?
«In un certo senso 100 anni sono passati per niente, la storia non è mai maestra di vita ma procede per andate e ritorni. I video con le decapitazioni filmate oggi nel Califfato mi ricordano una foto dell’800 in cui il Sultano tiene le teste di 7 armeni su un elegante tavolinetto liberty circondato da impettiti soldati: anche allora si tagliava la testa per simboleggiare l’azzeramento del nemico. E’ un terribile déjà-vu. Abbiamo già visto anche la fuga dei disperati dai non-luoghi di morte, la marcia in cui si perdono pezzi, i figli, le madri condannate a sopravvivere. Cento anni fa però, l’America aprì le porte, c’era Ellis Island ma funzionava: l’Europa adesso è così malata da non saper fare neppure i controlli. Ho paura che non ci siano più neppure filantropi tipo l’ex ambasciatore Usa nell’impero ottomano Henry Morgenthau, un ebreo che tra il 1916 e il 1920 salvò migliaia di armeni spendendo oltre 20 milioni di dollari».
Nella seconda storia, ambientata nel 1862, Khayel respira l’indipendenza greca e pensa a quella armena. Sarà deluso.
«Contro gli armeni hanno giocato in primis motivi geografici. Essendo una penisola, la Grecia riuscì a staccarsi più facilmente dall’impero. Il cuore degli armeni invece è dentro, nell’est dell’Anatolia. Si può dire che abbiamo scontato il nostro posizionamento perché in quell’800 in cui la Grecia e gli Stati balcanici forzavano l’indipendenza gli ottomani strinsero ancor più la morsa su di noi. Poi ci sono motivi politici. La lotta dei greci fiorisce all’alba del romanticismo, Byron, Santorre di Santarosa, l’utopia: la Grecia ha beneficiato del fatto che la sua causa divenne allora la causa della libertà».
Khayel s’innamora di Iskuhi, vera suffragetta ante litteram. È reale anche il padre di lei, che la sostiene al punto di ridere del suo disprezzo per il cucito?
«I padri armeni sono così, assecondano le figlie, è una loro caratteristica. Spesso consegnano alle mogli il proprio salario perché lo amministrino».
Noemi, l’ultima tragica protagonista, ci riporta al 1915, i Giovani Turchi, la caccia agli armeni. È lei più della realizzata Hannah l’eco della Storia?
«Noemi è la piena metafora del genocidio armeno. Ho scoperto la sua storia da poco tra le pagine del grande storico Raymond Kévorkian, uno che ha incrociato milioni di dati ritrovando tutti i nomi. Nessuno ormai può più negare che si sia trattato di sterminio».
Per la Turchia resta un tabù.
«La classe dirigente turca è attestata su un negazionismo pervicace. Fino al 2014 c’erano delle aperture, ora zero. La folla viene caricata contro i gulenisti ma quando si scatena se la prende con gli ebrei, gli armeni, una spirale che prelude sempre a saccheggi, pogrom».
Per gli armeni sono peggio i kemalisti o il partito di Erdogan?
« Uguali. L’ex presidente Gul era andato in Armenia per una partita di calcio, poi è arrivato Erdogan e oggi siamo fermi. In sé sarebbero peggio i kemalisti perché, se è vero che non perseguitò direttamente gli armeni, Atatürk nel 1930 fece la stessa cosa ai curdi a Dersim. Erdogan aveva fatto ben sperare. Il 24 aprile di due anni fa si era detto dispiaciuto per gli armeni ma ora è cambiato tutto. Anche la società civile che aveva raccolto 40 mila firme online per scusarsi con i connazionali armeni è silenziata. Oggi capita che per screditare qualcuno Erdogan gli attribuisca la mamma armena…».
Dove sta andando la Turchia?
«Dipende da tante cose. Quale idea di sviluppo ha Erdogan che con la moglie accanto parla dell’inferiorità delle donne? La questione armena è la cartina di tornasole del rapporto tra Turchia e modernità».
E l’occidente, dove va?
«Cento anni fa l’occidente ci accolse. Certo noi armeni rispettavamo alla lettera le leggi dei Paesi in cui emigravamo, ma oggi l’occidente è timido. Le democrazie più compiute paiono in soggezione con i dittatori. C’è molta cecità politica, conta il domani e non il dopodomani. In più abbiamo tutti meno fiducia in noi stessi, vige un nichilismo d’accatto. Ma l’Europa è in pace da 70 anni».
Antonia Arslan, «Lettera a una ragazza in Turchia», Rizzoli, pp. 144, €15