Ventitreesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Non possiamo permettere che l’Artsakh viene dimenticato (Korazym 03.01.23)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 03.01.2023 – Vik van Brantegem] – Per coloro che non seguono la crisi in quel luogo lontano – geograficamente e nel pensiero degli Europei – chiamato Artsakh/Nagorno-Karabakh: la regione ha un solo ingresso/uscita, il Corridoio di Berdzor (Lachin). Tutto il traffico (di persone e merce) da e per l’Armenia (e il resto del mondo) rimane interrotto dal 12 dicembre 2022. La #StradaDellaVita, lungo il segmento di Shushi dell’autostrada interstatale Stepanakert-Goris, è chiuso con il blocco di sedicenti “eco-attivisti” organizzati dal regime autoritario dell’Azerbajgian, sostenuti dalla polizia azera e sotto l’occhio vigile delle forze armate azere. Ciò significa che i 120.000 cittadini Armeni Cristiani (tra cui 30.000 bambini e 20.000 anziani) dell’Artsakh vengono tenuti in ostaggi, con mancanza di cibo, carburante e medicine. Non possiamo permettere che l’Artsakh viene dimenticato.
Il 23 dicembre 2020, il Presidente della Repubblica dell’Azerbajgian, Ilham Aliyev, e la sua moglie, Mehriban Aliyeva, Primo Vice Presidente dell’Azerbajgian, hanno visitato Qubadli e Zangilan, distretti della regione di Kashatag (Lachin), dal 29 ottobre 1993 una delle 8 regioni della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh (storicamente faceva parte della provincia di Syunik del Regno di Armenia), dal 20 ottobre 2020 occupato dall’Azerbajgian. La capitale di Kashatag è Berdzor (Lachin), nell’omonimo Corridoio, attualmente chiuso dall’Azerbajgian.
Il Ministero della Difesa dell’Azerbajgian ha diffuso via YouTube il filmato della visita della prima coppia azera [QUI], da cui abbiamo tratto le foto che seguono.
Il Centro di Studi Sociale di Baku pubblicando le foto, ha commentato: «Durante la sua visita nel distretto di Gubadli l’altro giorno, il capo dello stato ha visto il cartello con il nome del villaggio di Gazyan scritto in armeno e l’ha divelto. Ilham Aliyev è salito su quel cartello. Questo è stato un episodio piuttosto interessante. E questo episodio mi ha ricordato le riprese dei soldati sovietici che calpestano le bandiere tedesche in una parata alla fine della seconda guerra mondiale. Sì, calpestare i simboli ei segni del nemico sconfitto è una componente, un frammento della guerra. Questi sono un must. Questi sono così che il nemico subirà un trauma psicologico e il suo orgoglio sarà distrutto»
Il sito Report.az ha commentato: «Proprio quando le impronte dei piedi del nemico cominciarono a essere cancellate dalle terre dell’Azerbajgian, i brutti nomi che diedero alle terre storiche dell’Azerbajgian furono mandati nel bidone della spazzatura della storia».
[1] Qubadlı, in armeno Sanasar e anche Vorotan (dal nome dell’omonimo fiume), è il capoluogo dell’omonimo distretto all’interno della regione di Kashatagh (Lachin).
Zangilan, in armeno Kovsakan, capoluogo dell’omonimo distretto all’interno della regione di Kashatag (Lachin).
L’International Crisis Group ha commentato ieri, 1° gennaio 2023, che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha provocato ondate di shock in tutto il mondo, ma, come mostra lo sguardo al 2023, si profilano anche molte altre crisi. Ecco la Top 10 dei conflitti da tenere d’occhio nel 2023 secondo l’International Crisis Group: 1. Ucraina. 2. Armenia and Azerbajgian. 3. Iran. 4. Yemen. 5. Ethiopia. 6. Repubblica Democratica del Congo e i Grandi Laghi. 7. Il Sahel. 8. Haiti. 9. Pakistan. 10. Taiwan.
In riferimento ad Armenia and Azerbajgian, l’International Crisis Group scrive:
«Se la guerra in Ucraina si è riverberata nelle crisi mondiali, il suo impatto è stato particolarmente acuto nel Caucaso meridionale. Due anni dopo la loro ultima guerra per il Nagorno-Karabakh, l’Armenia e l’Azerbajgian sembrano avviati verso un altro scontro. I travagli della Russia in Ucraina hanno sconvolto i calcoli nella regione.
Una nuova guerra sarebbe più breve ma non meno drammatica del conflitto di sei settimane nel 2020. Quella guerra, che ha ucciso più di 7.000 soldati, ha visto le forze azere sbaragliare gli Armeni da parti dell’enclave del Nagorno-Karabakh e dalle aree vicine, che era state detenute dalle forze armene dall’inizio degli anni ’90. Mosca alla fine ha mediato un cessate il fuoco.
Da allora, l’equilibrio si è ulteriormente spostato a favore dell’Azerbajgian. L’esercito armeno non ha rifornito le sue truppe o le sue armi, poiché la Russia, il suo tradizionale fornitore di armi, ne è a corto. L’Azerbajgian, al contrario, si è rafforzato. Il suo esercito supera più volte quello dell’Armenia, è molto meglio equipaggiato ed è sostenuto dalla Turchia. Anche l’accresciuta domanda europea di gas azero ha incoraggiato Baku.
I travagli della Russia in Ucraina contano anche in altri modi. Come parte del cessate il fuoco del 2020, le forze di pace russe si sono schierate nelle aree del Nagorno-Karabakh ancora abitate dagli Armeni. La Russia ha rafforzato le sue guardie di frontiera e il personale militare lungo parti del confine tra Armenia e Azerbajgian che, dopo la guerra, sono diventate nuove linee del fronte. L’idea era che il contingente, sebbene piccolo, avrebbe scoraggiato gli attacchi perché Baku sarebbe stato cauto nel pungere Mosca.
Ma le forze russe non hanno fermato diverse fiammate lo scorso anno. Le truppe azere a marzo e agosto hanno conquistato più territorio nel Nagorno-Karabakh, comprese posizioni strategiche di montagna. A settembre, le forze azere hanno conquistato del territorio all’interno dell’Armenia vera e propria. Ogni attacco era progressivamente più sanguinoso.
Anche la guerra in Ucraina ha messo in ombra i colloqui di pace. Mosca ha storicamente avuto la tendenza a guidare gli sforzi di pace sul Nagorno-Karabakh. Il cessate il fuoco del 2020 avrebbe dovuto aprire il commercio nella regione, anche ristabilendo una rotta diretta attraverso l’Armenia dall’Azerbajgian alla sua exclave Nakhchivan al confine iraniano. Il miglioramento del commercio aprirebbe la strada al compromesso sulla spinosa questione del futuro del Nagorno-Karabakh. (Dopo la guerra del 2020, Yerevan ha abbandonato la sua decennale richiesta di uno status speciale per il Nagorno-Karabakh, ma vuole ancora diritti speciali e garanzie di sicurezza per gli Armeni che vivono lì; Baku sostiene che gli armeni locali possono godere di diritti come qualsiasi cittadino Azero [che più come una promessa, suona come una minaccia]).
Alla fine del 2021, Mosca ha accettato una nuova mediazione guidata dall’Unione Europea tra Armenia e Azerbajgian, sperando che avrebbe rafforzato il processo di pace della Russia, che aveva fatto pochi progressi. Dall’inizio della guerra in Ucraina, tuttavia, Mosca vede la diplomazia dell’Unione Europea come parte di un più ampio sforzo per frenare l’influenza della Russia. Nonostante i tentativi delle capitali occidentali, il Cremlino si rifiuta di impegnarsi.
Di conseguenza, ci sono delle bozze di accordi in circolazione – una preparata dalla Russia e altre dall’Armenia e Azerbajgian stessi, sviluppate con il sostegno occidentale (molte sezioni delle quali hanno testi contrastanti proposti dalle due parti). Ogni bozza affronta il commercio e la stabilizzazione del confine armeno-azerbajgiano, con il destino degli Armeni nel Nagorno-Karabakh lasciato a un processo separato e finora non iniziato. La pista bilaterale sostenuta dall’Occidente è probabilmente più promettente, in parte perché è di produzione interna, anche se non è chiaro come risponderebbe Mosca se dovessero raggiungere un accordo. In ogni caso, le due parti sono molto distanti. Baku ha tutte le carte in regola e da un accordo guadagnerebbe di più, sia in particolare in termini di commercio e relazioni estere, che militarmente.
Il pericolo è che i colloqui non vadano da nessuna parte o che un’altra fiammata affondi sia i binari guidati da Mosca che quelli sostenuti dall’Occidente, e l’Azerbajgian prende ciò che vuole con la forza».
Ulteriori tensioni tra Iran e Azerbajgian in arrivo
Il post del 31 dicembre 2022 di Ilham Aliyev (riprendendo quanto detto nel suo discorso in occasione della Giornata di Solidarietà degli Azeri del Mondo e del nuovo anno): «L’apertura del Corridoio di Zangezur è obbligatoria [averrà], che l’Armenia lo voglia o no. Abbiamo dimostrato una forte volontà, e tutto sta andando secondo i piani».
Fine novembre 2022, parlando con i giornalisti stranieri Aliyev ha affermato che il cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, diventerà una realtà, nonostante le affermazioni di Yerevan che un tale piano non è stato discusso [e, quindi, certamente non concordato]. Ha aggiunto inoltre che Yerevan non può bloccare le sue richieste, il che tradotto in parole semplici vuol dire che si prenderà ciò che vuole con le buone o con le cattive, quindi, con la forza, come ha sempre fatto.
Il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran ha pubblicato sui social media un video realizzati dalla Forza Quds iraniana, che mostra ragazzini iraniani che corrono verso il distretto di Jabrail (in armeno Jrakan o Mekhakavan, nella regione di Hadrut dell’Artsakh/Nagorno-Karabakh, dal 9 ottobre 2020 occupato dalle forze armate dell’Azerbajgian), vicino ai ponti di Khodaafarin, con bandiere iraniane e la bandiera con il parola Quds (Gerusalemme).
I ponti di Khodaafarin sono due ponti ad arco, che si trovano al confine tra Artsakh/Nagorno-Karabakh e Iran (oggi sotto controllo dell’Azerbajgian) che collegano la sponda settentrionale e meridionale del fiume Aras. Situato sulla storica Via della Seta, il ponte a 11 arcate fu costruito nel XIII secolo (si sono conservate solo tre campate centrali) e il ponte a 15 arcate nel XII secolo (funzionante).
Circola sui social media anche un secondo video, apparentemente correlato al primo.
La Forza Quds (letteralmente “Forza di Gerusalemme”) è uno dei cinque rami del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran specializzato in guerra non convenzionale e operazioni di intelligence militare. Il generale americano Stanley McChrystal descrive la Quds Force come un’organizzazione analoga a una combinazione della CIA e del Joint Special Operations Command negli Stati Uniti. Responsabile delle operazioni extraterritoriali, la Forza Quds supporta attori non statali in molti paesi, tra cui Hezbollah, Hamas, Jihad islamica palestinese, Houthi yemeniti e milizie sciite in Iraq, Siria e Afghanistan. La Forza Quds riferisce direttamente al Leader Supremo dell’Iran, l’Ayatollah Khamenei. Dopo che Qassem Soleimani fu ucciso, il suo vice, Esmail Ghaani, lo sostituì. Nel 2019 il Segretario di Stato americano ha designato il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche e la Forza Quds come Organizzazione terroristica straniera sulla base del “continuo sostegno e impegno del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche dell’Iran in attività terroristiche in tutto il mondo”.
L’Iran è contrario al cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, attraverso la regione meridionale di Syunik dell’Armenia, che collegherebbe l’Azerbajgian con l’exclave di Nakhichevan. A tale scopo Baku vuole la cessione di una striscia di territorio sovrano lungo il confine armeno-iraniano, che l’Armenia dovrebbe cedere all’Azerbajgian, con tutte le conseguenze del caso, tra cui l’isolamento dell’Armenia dall’Iran. A tal fine, l’Iran ha aperto un consolato generale nella città armena meridionale di Kapan, creando una zona di influenza, poiché gli sforzi dell’attuale leadership armena sembrano essere in ritardo per quanto riguarda le misure di sicurezza per difendere i suoi confini.
Data la posizione filo-israeliana dell’Azerbajgian (cooperazione militar, importazioni di armi tra cui droni, ecc.) e il suo tacito sostegno ai movimenti nazionali azeri in Iran negli ultimi mesi, i video della Forza Quds racchiudono le due principali minacce che l’Iran percepisce lungo il suo confine settentrionale: Azerbajgian e Israele.
Caucaso, Repubblica dell’Artsakh sotto assedio
L’appello degli armeni: “È pulizia etnica, il mondo fermi l’Azerbaigian”
di Roberto Travan
La Stampa, 2 gennaio 2023
Non c’è pace per gli armeni nel Caucaso. L’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh è isolata, sull’orlo di una grave crisi umanitaria: dal 12 dicembre l’Azerbaijan ha chiuso il Corridoio di Lachin, l’unica via di accesso, la strada su cui transitavano tutte le forniture di beni essenziali, 400 tonnellate di merci al giorno. Baku, la capitale azera, ha inoltre tagliato l’erogazione del gas e dell’acqua potabile. Per i 120.000 abitanti dell’Artsakh – così è stato ribattezzato il Nagorno Karabakh nel 2017 – superare l’inverno sarà difficile, forse servirà un miracolo. Perché il cibo inizia a scarseggiare; gli ospedali sono a corto di medicine; le scuole e gli uffici pubblici chiusi, privi di riscaldamento. Impossibile anche fuggire perché i civili – quasi la metà sono anziani e bambini – sono letteralmente bloccati, in trappola. Quello che si sta consumando è solamente l’ultimo atto del conflitto che si trascina da oltre trent’anni tra Azerbaijan e Armenia per il dominio di una terra le cui radici armene e cristiane sono autentiche, profonde, inestirpabili. Nel 2020 uno degli scontri più duri di sempre, la Guerra dei 44 giorni: gli azeri fiancheggiati della Turchia – Ankara fornì droni e mercenari jihadisti arruolati in Siria – non lasciarono scampo alle deboli e impreparate difese dell’Artsakh. Furono oltre settemila i morti e centomila gli sfollati, vittime che allungarono la drammatica contabilità del conflitto portandola a quasi quarantamila caduti e più di un milione di profughi. L’accordo di cessate il fuoco firmato il 9 novembre 2020 da Russia, Armenia e Azerbaijan prevedeva, oltre a nuove e dolorose concessioni territoriali a Baku, anche il dispiegamento di un contingente russo a protezione di ciò che restava dell’Artsakh, ridotto in meno di un terzo dei suoi precedenti confini. Da oltre venti giorni l’Azerbaijan, disattendendo quel patto, tiene in ostaggio la pacifica enclave armena per completarne, secondo molti osservatori, l’occupazione.
RISCHIO PULIZIA ETNICA. «Gli azeri stanno violando tutte le leggi internazionali che dovrebbero proteggere i civili nelle zone di guerra» denunciano i Difensori dei Diritti umani di Armenia e Artsakh. Secondo le informazioni raccolte nel loro dossier, le proteste ambientaliste che da settimane stanno bloccando il corridoio di Lachin e l’Artsakh sarebbero «inscenate da attivisti appartenenti ad organizzazioni finanziate dal governo dell’Azerbaijan o direttamente riconducibili a fondazioni della famiglia del premier Aliyev». Provocatori, insomma, tra cui «numerosi appartenenti ai servizi speciali di sicurezza azeri e simpatizzanti dei Lupi grigi, formazione terroristica dell’estrema destra turca» spiegano. E non si tratterebbe di un fatto isolato, ma «di una vera e propria strategia per provocare la fuga della popolazione armena e lo spopolamento del Paese». Il rapporto elenca «gli attacchi alle infrastrutture civili; l’interruzione sistematica di gasdotti e acquedotti; le incursioni nei villaggi pacifici per mettere in ginocchio l’agricoltura e l’economia; le campagne di propaganda e disinformazione per terrorizzare la popolazione». Infine il drammatico allarme: «È in corso un’autentica pulizia etnica, il mondo deve intervenire».
LE AMBIGUITÀ DELLA RUSSIA. Neanche la forza di interposizione russa è riuscita fino ad ora a rompere l’isolamento dell’enclave armena. «Non ci ha neppure provato, ha lasciato fare, è stata complice degli azeri e dei turchi», accusa con fermezza Karen Ohanjanyan, attivista e fondatore del locale Comitato Helsinky 92, organizzazione non governativa per i diritti umani. «Putin si è voltato dall’altra parte ignorando anche il patto militare con alcuni Paesi dell’ex Unione Sovietica (il CSTO, ndr): perché non è intervenuto quando l’Azerbaijan ha ripetutamente attaccato l’Armenia negli ultimi due anni?» spiega Ohanjanyan dal suo ufficio a Stepanakert, la capitale della Repubblica de facto. Spera di ottenere maggiori attenzioni da Mosca il nuovo premier dell’Artsakh Ruben Vardanyan, noto filantropo e oligarca russo (con cittadinanza armena) di cui sono altrettanto note le entrature nell’entourage del Cremlino. «L’Azerbaijan non è interessato ad offrire alcuna protezione al nostro popolo» ha dichiarato recentemente senza troppi giri di parole. Laconica la risposta incassata dal portavoce russo Dmitry Peskov: «Sono preoccupato per il blocco dell’unica strada che collega l’Artsakh separatista all’Armenia. E spero i colloqui tra le due parti proseguano». Un legame certamente opaco quello tra Mosca e Yerevan perché la Russia – da anni in Armenia con un forte presidio militare – è da sempre anche uno dei principali fornitori di armi dell’Azerbaijan, il nemico fino a prova contraria. E fino a marzo 2023 fornirà a Baku anche un miliardo di metri cubi di gas, risorsa di cui l’Azerbaijan abbonda essendo la sua principale fonte di ricchezza. Ma di cui ora ha grande bisogno per fronteggiare le maggiori forniture promesse all’Europa; con buona pace delle sanzioni a Mosca per aver invaso l’Ucraina.
L’APPELLO AL MONDO. L’Armenia ha le mani legate dopo la sconfitta del 2020. E il suo premier Nikol Pashinyan sa perfettamente di essere in un vicolo cieco. È immobilizzato in primis dall’ingombrante alleato russo che – in grave difficoltà sul suolo ucraino – certo non può permettersi di aprire un nuovo fronte nel Caucaso; intimorito dalla Turchia che minaccia di portare a termine il genocidio iniziato un secolo fa dall’Impero Ottomano, ecatombe per un milione e mezzo di armeni; attaccato sul campo dall’Azerbaijan, apparentemente intoccabile per i suoi grassi affari con l’Europa affamata di gas; indebolito dalle frequenti proteste popolari contro la grave situazione di isolamento e di crisi in cui langue il Paese. I ministri degli Esteri di Armenia e Artsakh una settimana fa avevano ammonito con chiarezza la comunità internazionale: «L’assenza di una reazione adeguata all’aggressione azera potrebbe causare nuovi tragici sviluppi». Ne ha discusso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 20 dicembre. E l’indomani, dopo la morte di uomo rimasto senza cure per il blocco in corso a Lachin, la Corte europea dei Diritti umani ha intimato all’Azerbaijan di consentire l’evacuazione dei pazienti più gravi. Appello che nei giorni scorsi ha permesso alla Croce Rossa Internazionale di mettere in salvo un neonato e consegnare un convoglio di aiuti umanitari. Ma il giorno di Natale è stato l’intero Artsakh ad appellarsi al mondo: quasi ottantamila persone hanno marciato pacificamente a Stepanakert chiedendo la rimozione dell’assedio che giorno dopo giorno sta inesorabilmente soffocando il Paese. «Siamo le nostre montagne!» hanno gridato scandendo il nome del monumento simbolo dell’intera comunità che sorveglia, possente, l’ingresso della capitale. Montagne aspre, intrise di storia, memoria e dolore: il Caucaso degli armeni che ancora una volta implorano aiuto.
Indice – #ArtsakhBlockade [QUI].