Ventidue anni in trincea. Reportage dal Nagorno Karabakh (Tempi.it 10.09.16)
Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Nagorno Karabakh. Sferragliano impercettibilmente i barattoli nel vento. Più ruggine che latta, conficcati a migliaia nel filo di ferro, ben distanziati fra loro in file ordinate che si perdono lontano. Lontano come i 180 chilometri di trincee della linea del fronte che separa i soldati armeni del Nagorno Karabakh da quelli azeri dell’Azerbaijan. È così che i primi si difendono dalle incursioni notturne dei secondi: non col filo spinato, se non per brevi tratti, ma col filo barattolato, che diffonde il suo clangore d’allarme se qualcuno cerca di passarci attraverso o strisciarci sotto. Come fanno spesso di notte gli incursori azeri, per saggiare le difese del nemico, da 22 lunghi anni. I 22 anni trascorsi dal cessate il fuoco del 5 maggio 1994, quando le due parti firmarono l’armistizio che poneva fine a sei anni e tre mesi di conflitto che aveva causato 30 mila vittime.
Il responso del terreno diceva che in quel momento i 150 mila armeni del Nagorno Karabakh erano riusciti nell’impresa miracolosa di respingere le truppe azere – cioè di un paese con 9 milioni di abitanti – dal loro territorio, 11 mila chilometri quadrati di altopiani e montagne (tanto quanto l’Abruzzo, per capirci) che da quel momento poterono considerarsi indipendenti di fatto, dopo che l’assemblea legislativa locale li aveva dichiarati tali il 2 settembre 1991. C’erano riusciti grazie all’aiuto in uomini e in armi della vicina Repubblica di Armenia, anch’essa un nano demografico nel confronto con l’Azerbaijan (3 milioni di abitanti la prima, e una superficie di 30 mila chilometri quadrati scarsi, contro i 9 milioni di azeri che rivendicavano la sovranità su 86.600 chilometri quadrati).
Ma ad un prezzo molto alto: delle 30 mila vittime del conflitto, la metà sarebbe rappresentata da armeni karabaki, sia combattenti che civili, in una guerra dove la linea di separazione fra i primi e i secondi è stata tenue fino, in alcuni casi, all’inesistenza. Un armeno del Karabakh su dieci è morto per la libertà di questa regione, per un’indipendenza statuale fino ad oggi non riconosciuta da nessun paese al mondo. Le principali località che hanno subìto distruzioni sono state ricostruite e migliorate, ma quelle prossime alla linea del fronte (conosciuta a livello internazionale come Linea di contatto) sono una successione di ruderi spettrali e campi incolti. Oggi però tutti questi sacrifici sono messi a repentaglio dagli sviluppi militari e geopolitici di questa inquieta regione del mondo.
La notte fra l’1 e il 2 aprile scorsi la danza dei barattoli non è servita a proteggere le linee armene dagli attacchi azeri, perché quella notte sui soldati karabaki sono piovuti obici di artiglieria, cannonate di carri armati, razzi sparati da lanciatori multipli, granate da mortai e altro ancora. «Questa postazione che adesso vedete ricostruita è andata in pezzi per la cannonata di un tank», dice il soldato Ari, mentre la pioggia ha cominciato a cadere fredda e rada, tichettando sul suo elmetto. «Non abbiamo avuto nemmeno un ferito, perché parte di noi era protetta da un bunker e le sentinelle erano in punti della trincea distanti da quello dell’esplosione. Abbiamo subito risposto al fuoco».
La postazione ricostruita si protende verso il territorio nemico con una specie di capsula seminterrata; una lunga feritoia orizzontale interrotta a metà da una protezione guarda verso la prima linea azera, distante non più di 300 metri. Una lama di terra gialla cespugliosa e di cielo bianco più vicino e azzurro in lontananza (laggiù non piove) entra dalla feritoia e illumina la semioscurità della garitta. L’attacco di quella notte e della mattina successiva ha interessato tutta la Linea di contatto da nord a sud. Negli ultimi 22 anni le violazioni del cessate il fuoco, quasi sempre azere, sono state migliaia e hanno causato qualche decina di morti da ambo le parti: colpi di mortaio, proiettili di cecchini, qualche elicottero attaccato. Ma un’offensiva come quella di aprile non s’era mai vista.
Le rovine di Agdam
Il suo obiettivo era di attirare le forze armene all’estremo nord e all’estremo sud della prima linea, per poi sfondare al centro sulla direttrice che porta a Stepanakert, la capitale della repubblica, distante da qui una cinquantina di chilometri. I karabaki non hanno abboccato, e hanno mantenuto le loro forze nelle posizioni di partenza, facendo affluire volontari dalle retrovie verso le zone critiche. Il risultato è stato che gli azeri hanno conquistato un po’ di territorio a nord e a sud, nulla al centro, e la controffensiva armena dei giorni 3 e 4 aprile ha permesso di recuperare parte del terreno perduto. Quando il giorno 5 aprile è stato ripristinato il cessate il fuoco, gli azeri occupavano 8 chilometri quadrati più di prima. Gliene mancano ancora 19 mila se vogliono riprendersi il Nagorno Karabakh più gli altri sette distretti di territorio azero che gli armeni karabaki hanno occupato nella guerra finita nel ’94 sia per mettere in sicurezza la loro capitale, sia per creare una continuità territoriale con la Repubblica di Armenia, dalla quale in epoca sovietica il Nagorno Karabakh era separato formando un’enclave circondata da territorio azero.
Qui nella trincea 127, per esempio, siamo in territorio azero. Alle nostre spalle, distanti una decina di chilometri, ci sono le rovine di Agdam che abbiamo attraversato in un paesaggio di ruderi ed erba alta, reso più spettrale dal cielo livido. Era una cittadina azera che gli armeni occuparono e rasero al suolo per poi spingersi avanti fino a qui e creare la profondità strategica necessaria a rendere Stepanakert irraggiungibile dalla gittata dei proiettili dell’artiglieria dell’Azerbaijan. Lungo tutta la linea del fronte corre una carrabile infossata sotto il livello del terreno, una strada trincea al riparo dagli avvistamenti del nemico. Là dove la strada emerge alla vista si notano delle piastrine metalliche appese a un filo con sopra impressa una lettera M: è l’avviso che ci si trova esposti agli sniper del fronte avverso. Dal viale trincea si dipartono stretti percorsi laterali dal fondo cementato, che sfociano nella linea delle trincee vere e proprie, parte fangose e parte piastrellate a cemento, che fronteggiano le forze azere. Incisa su un mattone collocato sul cumulo di terra scura all’ingresso della trincea 127 c’è una croce nera. Dai bracci si dipartono sottili raggi dello stesso colore, come un’aura protettiva.
La croce e il crocifisso sono una presenza consueta nel panorama del Nagorno Karabakh, e non solo perché qui si trovano alcuni dei più antichi monasteri e delle più antiche chiese armene. Per strada al collo delle donne si possono scorgere medagliette con la croce, nelle bancarelle di souvenir non mancano mai rosari di legno leggero col simbolo cristiano, presente con discrezione nei cimiteri dei caduti della guerra di indipendenza, e persino dentro alla sede del ministero degli Affari esteri, dove una pittura murale raffigura una grande Madonna con la spada in mano che sovrasta un Cristo sulla croce. Settant’anni di ateismo comunista non hanno spento la fede di quello che è stato il più antico regno cristiano della storia (l’Armenia assunse il cristianesimo come religione di Stato nell’anno 301, quasi ottant’anni prima dell’editto di Teodosio che stabilì la stessa cosa nell’Impero romano), ma hanno influito sui comportamenti. Basti pensare che il tasso di fecondità armeno è praticamente identico a quello italiano, un misero 1,38 di figli per donna.
Il ruolo di Ankara e quello di Mosca
«Ma questa non è una guerra di religione», ci dicono all’unisono il capo di gabinetto del presidente dell’Armenia Vigen Sargsyan, l’ambasciatore del Nagorno Karabakh in Medio Oriente Garo Kababjian, il ministro degli Esteri karabako Karen Mirzoyan e il vice ministro della difesa dell’Armenia Davit Tonoyan, che incontriamo in successione. Alcuni fra loro indicano il nazionalismo esclusivista degli azeri e l’opportunismo politico del presidente azero Aliyev, la cui famiglia detiene un potere assoluto nel paese da 23 anni, come le cause essenziali della mancata soluzione dell’ultraventennale crisi. Altri, come Kababjian, vedono la ragione del ritorno di fiamma della guerra (gli scontri di aprile hanno causato più di 200 morti in quattro giorni) nel rinnovato progetto panturchista di cui la Turchia di Erdogan sarebbe oggi la forza trainante.
Il panturchismo è stato il progetto, accarezzato dal governo dei Giovani Turchi responsabili del genocidio armeno del 1915, di riunire tutte le stirpi turche del mondo (turchi, azeri, turcomanni, uzbeki, kirghisi, turkmeni, tatari, kazaki, tagiki, eccetera) in unico stato. Dopo le delusioni della Primavera araba e dei tira e molla dell’Unione Europea circa l’ingresso della Turchia, dismesse le ambizioni neo-ottomane Erdogan propenderebbe ora per un’espansione della sfera di influenza del suo paese fra gli stati di stirpe turca. All’indomani della guerra dei quattro giorni, da Ankara il presidente ha dichiarato che la Turchia «sta al fianco dei nostri fratelli dell’Azerbaijan. Il Karabakh tornerà un giorno al suo possessore originario, e questo sarà l’Azerbaijan». Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha stigmatizzato le dichiarazioni come «assolutamente inaccettabili», perché «questi non sono appelli alla pace, ma alla guerra».
Il ruolo della Russia nella crisi è assolutamente speciale. Mosca fa parte insieme a Francia e Stati Uniti del terzetto di presidenza del gruppo di Minsk, l’entità Osce incaricata di favorire i negoziati per la soluzione del conflitto. Ma è anche la grande protettrice dell’Armenia, parte interessata nella crisi per il sostegno che ha dato e che dà ai secessionisti karabaki e per la prospettiva di una futura unificazione fra Nagorno Karabakh e Armenia. Mosca e Yerevan sono firmatarie di due accordi di mutua difesa: quello che ha istituito l’Organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva, della quale fanno parte Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan, e quello bilaterale di amicizia, cooperazione e mutuo aiuto entrato in vigore nel 1998 e rinnovato nel 2010.
Sul territorio armeno sono insediate due basi militari russe, una per truppe di terra meccanizzate e una aerea, per un totale di 5 mila uomini. E sono russi il 100 per cento degli armamenti che l’Armenia importa dall’estero. Tuttavia Mosca vende armi in quantità anche all’Azerbaijan, l’85 per cento del crescente arsenale azero è di origine russa secondo le stime del Sipri di Stoccolma. La politica russa sembra dunque essere quella di mantenere un certo equilibrio militare fra le due parti, per non alienarsi del tutto l’Azerbaijan, paese ricco di gas e petrolio (24esimo al mondo per le sue riserve) e collocato in posizione strategica per il controllo di gasdotti e oleodotti vecchi e nuovi.
Rinunciare all’indipendenza? Mai
Per parte sua, l’Azerbaijan ha stretto con la Turchia un Accordo di partenariato strategico e di mutuo sostegno nel 2010 che prevede assistenza reciproca in caso di aggressione militare. La cooperazione è in realtà decollata solo quest’anno, ma ha subito galvanizzato i sentimenti revanscisti di Baku. Di qui i timori crescenti dei governi di Stepanakert e di Yerevan: l’inerzia geopolitica sembra andare nella direzione di una ripresa su larga scala del conflitto per il Nagorno Karabakh, nella quale contro gli armeni sarebbero allineate forze molto più potenti che in passato.
Questi timori non incidono però sulla posizione negoziale degli armeni, che sono disposti a discutere il problema dei profughi e sfollati interni della guerra (724 mila azeri e 413 mila armeni) e la restituzione di alcuni territori occupati, ma giammai a rinunciare al diritto all’autodeterminazione per il Nagorno Karabakh. «Questo territorio è sempre stato in grande maggioranza armeno e governato da armeni», dice l’arcivescovo apostolico Pargev Martirosyan, che partecipa alle celebrazioni del 25esimo anniversario della dichiarazione unilaterale di indipendenza a Stepanakert e alla commemorazione dei caduti. «A ignorarne la storia e ad assegnarlo all’Azerbaijan è stato Josif Stalin negli anni Venti. Sarebbe ora di fare giustizia».
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