Una sfortunata intervista della BBC conseguenza dell’ignoranza sbalorditiva dei media globali sul Caucaso meridionale e sul crimine di genocidio (Korazym 29.01.23)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 29.01.2023 – Vik van Brantegem] – Il 23 gennaio scorso abbiamo già fatto un accenno all’intervista a Ruben Vardanyan (foto di copertina) – dal novembre 2022 Ministro di Stato (l’equivalente di un Primo Ministro) della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh – che era stato trasmesso quel giorno nel programma HARDTalk della BBC: quando un intervistatore non vuole fare il giornalista. L’intervistatore Stephen Sackur ha avuto poco interesse per l’Artsakh, parlando principalmente del Presidente russo Putin e il Primo Ministro armeno Nikol Pashinyan, ma Ruben Vardanyan era comunque riuscito a parlare del disastro umanitario e dell’aggressione azera contro l’Artsakh. Oggi riportiamo, nella nostra traduzione italiana dall’inglese, la Dichiarazione dell’Istituto Lemkin per la Prevenzione di Genocidio su questa “sfortunata” intervista.
Poi, nel ricordare nostro articolo del 21 gennaio 2023 L’enigma Vardanyan e la profezia del Molokano, presentiamo di seguito alcuni spunti biografici per rendere giustizia all’uomo Vardanyan, visto che Sackur lo ha presentato come “l’uomo di Mosca in Karabakh”. Invece, osserva l’Istituto Lemkin, risulta «che il gas russo viene esportato in Azerbajgian e poi, presumibilmente, in Europa, il che potrebbe significare che lo stesso Ilham Aliyev è, in effetti, “l’uomo di Mosca” nel Caucaso meridionale. Tralasciare un contesto importante e noto come questo sembra mirato a fuorviare intenzionalmente il pubblico».
La Dichiarazione dell’Istituto Lemkin
(Nostra traduzione italiana dall’inglese)
L’Istituto Lemkin per la Prevenzione di Genocidio è scioccato e inorridito dal fatto che il conduttore del programma HARDtalk della BBC, Stephen Sackur, abbia offerto il genocidio come una delle due “opzioni realistiche” che devono affrontare gli Armeni nell’Artsakh durante un’intervista con il Ministro di Stato dell’Artsakh, Ruben Vardanyan, trasmessa il 23 gennaio 2023.
Riferendosi al blocco illegale di 49 giorni dell’Artsakh da parte del regime dittatoriale del Presidente azero, Ilham Aliyev, Sackur ha chiesto a Vardanyan: “Ora controlla una minuscola enclave che sta soffrendo a causa del blocco economico in questo momento, e sembra che la sua unica opzione realistica sia quella di elaborare un accordo politico con l’Azerbajgian o che il popolo, la comunità armena nel Nagorno-Karabakh, decida che questo non è più sostenibile e lasciare il territorio. Quindi, quale sarà: un accordo politico o una partenza?”.
Come l’Istituto Lemkin ha sottolineato in numerosi Avvisi e Dichiarazioni di Bandiera Rossa, costringere le persone a lasciare la propria terra con la minaccia di morte è una forma di genocidio.
L’Istituto Lemkin è sorpreso di dover sottolineare che il genocidio non dovrebbe mai essere offerto ai popoli minacciati come una possibile “opzione realistica” in futuro. Le persone minacciate di genocidio affrontano scelte senza scelta. Se gli Armeni sono costretti a fuggire di fronte alle minacce azere, questa non è una “opzione realistica”, è un genocidio. L’inquadramento della questione da parte di Sackur lo colloca nella posizione dell’autore, che in questo caso è Ilham Aliyev. Coinvolgendo Artsakhsis in uno scenario di fantasia in cui sono possibili negoziati politici con l’attuale regime azero anti-armeno e genocida, Sackur si impegna in una negazione non così sottile del genocidio e incolpa persino la vittima: Artsakh è sotto blocco non a causa dei disegni genocidi di Azerbajgian, ma a causa di un’inspiegabile testardaggine da parte degli Armeni in Artsakh o dei loro leader – o entrambi, come sembra credere.
Implementando una tattica chiamata DARVO (Deny, Attack, Reverse Victim and Offender, ovvero Negare, Attaccare, Invertire Vittima e Colpevole), Sackur rispecchia una strategia comune di genocidi. Non una volta Sackur ha osservato che il blocco dell’Artsakh da parte dell’Azerbajgian è una violazione dell’accordo di cessate il fuoco che ha posto fine alla guerra del 2020, né ha osservato che le tattiche di assedio contro i civili costituiscono una violazione del diritto internazionale. Infatti, sembra giustificare il blocco riferendosi a un “malinteso” tra Azerbajgian e Armenia sui termini dell’accordo del 2020 dopo che Vardanyan ha giustamente sottolineato che il blocco è una chiara violazione del suddetto cessate il fuoco.
Uno dei momenti più significativi dell’intervista è quando Sackur interrompe Vardanyan per “chiarire” il linguaggio che dovrebbe essere usato per riferirsi all’Artsakh: “Ha appena fatto riferimento al suo territorio come Artsakh, dovrei chiarire che mentre le, nel suo territorio, vi riferite ad esso come Artsakh, il governo azero, ovviamente, lo chiama Nagorno-Karabakh, come del resto fa la comunità internazionale, quindi voglio solo essere chiaro su questo”.
L’Istituto Lemkin è sconvolto dall’insistenza di Sackur sull’uso del nome Nagorno-Karabakh. Il “chiarimento” di Sackur suggerisce l’illegittimità del nome Artsakh, che è in realtà il nome storico armeno della regione. La sua insistenza ignora anche le sfumature politiche del termine Nagorno-Karabakh, o semplicemente Karabakh, un nome che viene spesso utilizzato durante le sessioni di tortura, in cui i soldati azeri costringano, sotto minaccia di danni fisici, i prigionieri di guerra armeni a ripetere termini come “Karabagh è l’Azerbajgian”. Queste sessioni sono state documentate dagli stessi soldati azeri e diffuse attraverso i social media. Il commento di Sackur, che egli inquadra come una verità rivelata e incontestabile, suggerisce una totale ignoranza della storia del conflitto dell’Artsakh e ignora il fatto che l’Artsakh sia stato dato all’Azerbajgian sotto il dominio coloniale dell’Unione Sovietica, senza il consenso o il contributo della maggioranza armena della popolazione residente all’interno.
Sebbene Sackur dica costantemente “il suo territorio”, sembra ignorare il diritto dei popoli all’autodeterminazione. Come abbiamo affermato in diversi documenti, il diritto all’autodeterminazione è uno dei più fondamentali all’interno del sistema giuridico internazionale secondo le disposizioni della Carta delle Nazioni Unite e di diversi strumenti sui diritti umani. Questo diritto è fondamentale quanto l’integrità territoriale, l’eguale sovranità e il divieto generale dell’uso della forza. Gli Armeni dell’Artsakh hanno espresso in modo continuo e coerente la loro volontà di indipendenza dal 1991, quando hanno votato in un referendum che ha portato a una schiacciante maggioranza del 99,89% a favore dell’autonomia. Inoltre, hanno costruito istituzioni democratiche e chiesto costantemente di essere riconosciute globalmente come Repubblica indipendente. Quindi, riferendosi ad esso come Artsakh, il Ministro di Stato Ruben Vardanyan non solo onora l’antica storia della regione, ma esercita anche il diritto all’autodeterminazione dell’Artsakh come rappresentante ufficiale del Paese.
L’intera intervista infatti è caratterizzata da presupposti e schemi che sembrano provenire da Baku. A volte, Sackur sembra utilizzare i social media come unica fonte per enormi affermazioni di verità, come quella secondo cui gli Artsakhsis credono che il “tempo di Vardanyan come… Ministro di stato sia stato un disastro”. A un certo punto Sackur nomina come fonte lo “scienziato politico” Elkhan Sahinoglu, il Capo del Centro di ricerca Atlas di Baku, e lo cita dicendo che “Ruben Vardanyan è l’uomo di Mosca in Karabakh”. Sackur sembra del tutto inconsapevole che tutti gli istituti di ricerca in Azerbajgian, come tutti i media, sono sotto il totale controllo del regime del Presidente Aliyev. Se Sackur menzionerà la propaganda azera come fonte, ha l’obbligo di far sapere agli ascoltatori che non c’è libertà di indagine, ricerca o parola in Azerbajgian.
Sackur sembra anche non sapere che il gas russo viene esportato in Azerbajgian e poi, presumibilmente, in Europa, il che potrebbe significare che lo stesso Ilham Aliyev è, in effetti, “l’uomo di Mosca” nel Caucaso meridionale. Tralasciare un contesto importante e noto come questo sembra mirato a fuorviare intenzionalmente il pubblico.
Gran parte di questa intervista è stata sprecata nel tentativo di screditare Ruben Vardanyan come uomo d’affari corrotto e tirapiedi russo. Ciò che è così pericoloso in questa linea di domande è la sua relazione con la storica armenofobia che ha motivato il genocidio armeno. Sin dai tempi dei massacri di Hamidian nel XIX secolo, la violenza contro gli Armeni è stata giustificata attraverso l’inquadramento degli armeni come tirapiedi e simpatizzanti russi. Mentre l’Istituto Lemkin sostiene con tutto il cuore la responsabilità di un giornalista di porre domande difficili ai leader politici, in questo caso le domande sono apparse più limitate che difficili, e di conseguenza abbiamo perso l’opportunità di ascoltare il punto di vista della leadership dell’Artsakh su argomenti importanti come il governo durante il blocco, ciò che è necessario alla comunità internazionale, la pianificazione per il futuro e il significato di patria.
L’Istituto Lemkin considera questa sfortunata intervista come la conseguenza dell’ignoranza sbalorditiva dei media globali sul Caucaso meridionale in generale e sul conflitto del Nagorno-Karabakh in particolare. Lo consideriamo anche la conseguenza dell’ignoranza dei media sul crimine di genocidio e sulle modalità della sua prevenzione. Infine, riteniamo che questa intervista sia la conseguenza di una forte tensione interna anti-armena e filo-turca in Gran Bretagna, che risale alla fine del XIX secolo, in particolare la scoperta del petrolio intorno a Baku e i successivi importanti investimenti britannici nei campi di petrolio dell’Azerbajgian [della questione abbiamo trattato [QUI]].
Chiediamo ai mezzi di informazione britannici di esaminare possibili pregiudizi anti-armeni nelle loro notizie. Chiediamo inoltre alla BBC e ad altri media globali di garantire l’accuratezza dei loro servizi sul Caucaso meridionale. Suggeriamo inoltre che più società di media si concentrino sull’educazione di editori e giornalisti sulle leggi e gli approcci relativi alle atrocità di massa e alla sua prevenzione. Infine, chiediamo che i giornalisti non propongano i risultati del genocidio come “opzioni realistiche” affrontate dalle comunità minacciate.
Testo originale inglese della Dichiarazione dell’Istituto Lemkin [QUI].
Ruben Vardanyan
ANI-Armenian Research Center, 21 maggio 2015
(Nostra traduzione italiana dall’inglese)
“Non sono mai stato qui prima. È molto emozionante”, dice Ruben Vardanyan, mentre entra in un lungo edificio scolastico in mattoni grigio-marroni appena fuori Yerevan. Non è difficile capire perché. Se non fosse stato per questo edificio e per quello che è successo al suo interno, Vardanyan e sua sorella Marine non sarebbero nati.
La struttura bassa si trova all’ingresso di Etchmiadzin, la Santa Sede della Chiesa Apostolica Armena. I corridoi sono rivestiti con le loro vesti nere e viola e ogni ora l’aria si riempie dei suoni di canti.
Cento anni fa c’erano anche canti e musica. Ma erano i lamenti dei bambini – orfani del genocidio armeno. Il nonno di Vardanyan, Hmayak, era uno di loro.
“Suo padre e due fratelli sono stati uccisi durante il genocidio. È fuggito a piedi quando aveva otto anni da Archesh, provincia di Van nell’impero ottomano, dove lui e la sua famiglia sono cresciuti. Ha camminato verso nord con sua madre e altri membri della famiglia”, spiega Vardanyan.
Sua madre e sua sorella minore morirono pochi giorni dopo aver raggiunto l’Armenia orientale, che allora era sotto il controllo russo. Hmayak è stato accolto dall’orfanotrofio, gestito dalla Near East Relief Foundation, un ente di beneficenza americano che aveva raccolto milioni di dollari per aiutare a prendersi cura delle vittime del genocidio.
Oggi, Ruben Vardanyan è tra i pochi pionieri armeni nati in Armenia e che trascorrono gran parte del loro tempo lavorando per ricostruire la loro patria quasi da zero. Come Irlanda e Israele, Armenia è uno di quei Paesi che ha più cittadini che vivono fuori dalla patria che in essa.
Vardanyan è ben posizionato per alzare lo sguardo dell’Armenia. È un sopravvissuto che ha prosperato e vuole che l’Armenia ora faccia lo stesso.
Vardanyan si è trasferito a Mosca nella tarda adolescenza per studiare all’Università Statale di Mosca. Quando il riformatore sovietico Mikhail Gorbaciov salì al potere, vide i vantaggi della liberalizzazione e iniziò una carriera nel settore bancario e dei servizi finanziari che alla fine gli avrebbe fatto guadagnare una fortuna quando aveva trent’anni. I suoi interessi commerciali sono sopravvissuti al crollo dell’Unione Sovietica.
Tornò in patria per vederla conquistare la sua indipendenza nel 1991 e poi crollare a causa degli effetti del devastante terremoto di tre anni prima, del blocco economico della Turchia, delle turbolenze nel nord mentre altre ex repubbliche sovietiche si separavano da Mosca e della guerra con la vicina Azerbajgian. “Siamo passati dal XX al XVII secolo quasi da un giorno all’altro. Abbiamo dovuto bruciare legna e persino libri per sopravvivere all’inverno. Dovevamo alzarci alle cinque del mattino e fare ore di fila solo per prendere il pane, da mangiare per restare vivi”.
Anno dopo anno, ha visto la sua terra tornare gradualmente alla normalità.
Non sorprende che Vardanyan dica di sentirsi “come se avessi già avuto circa quattro vite”. Sta per iniziare un quinto, che, per lui, è forse il più importante di tutti.
È iniziato più di un decennio fa quando Vardanyan ha incontrato Noubar Afeyan, un imprenditore armeno con sede a Boston, mentre studiava ad Harvard. I due uomini d’affari di successo iniziarono a parlare di come avrebbero potuto usare le loro capacità imprenditoriali a beneficio dell’Armenia.
Nel 2009 Vardanyan e Afeyan hanno iniziato a pensare a come utilizzare il centenario del genocidio per attirare l’attenzione sull’Armenia e stimolare il cambiamento. 100 VITE è il risultato.
“L’Armenia è un Paese indipendente da 25 anni, ma, come popolo e nazione più ampia, la civiltà armena ha 5.000 anni. Dobbiamo costruire su questo. Dobbiamo liberarci del nostro senso di vittimismo e guardare al futuro”.
“È difficile. È un cambiamento nella mente. Stiamo incoraggiando l’Armenia ad andare oltre la sopravvivenza e verso la prosperità. È rivoluzionario, ma rivoluzione da una prospettiva diversa.
Cambiare idea richiederà tempo e denaro. Vardanyan ha entrambi. Sta dedicando la maggior parte del suo tempo a 100 LIVES e sta anche investendo in Armenia. Con sua moglie Veronika ha fondato e finanziato una nuova scuola United World Colleges da 135 milioni di dollari a Dilijan, a un’ora di auto da Yerevan. E, grazie a 100 LIVES, c’è dell’altro in arrivo.
Mentre lasciano l’edificio grigio-marrone che ha salvato la loro famiglia e tornano a Yerevan, Marine si rivolge a suo fratello e dice: “Ogni uomo o donna può fare quello che può fare. Fai quello che puoi. Non puoi fare di più”. Vardanyan spera che gli Armeni di tutto il mondo si sentano allo stesso modo e facciano quello che possono.
Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]