Una bestia sulla luna. Teatro Santa Chiara, BS (Vivicentro.it 26.11.17)
Antefatto – I Turchi nel 1915 hanno sterminato letteralmente 2 milioni di Armeni. Sterminio perpetrato dal fanatismo politico del movimento politico “Giovani Turchi”, che si propone l’obiettivo di creare una grande nazione turca, che dal Mar Nero si estenda fino all’India, e che sia abitata da una popolazione solamente turca, omogenea per etnia, lingua e religione. Gli Armeni sono una popolo antichissimo stanziato nell’Anatolia da millenni. Essi nel 301 adottano il cristianesimo come loro religione ufficiale. E la mantengono con dignità e coraggio anche dopo la diffusione dell’Islam nella loro regione. Resistono fino a quando non si scontrano con il fanatismo dell’Impero Ottomano che non tollera al suo interno la presenza di una consistente popolazione cristiana.
Nella notte del 24 aprile 1915 tutti gli Armeni colti di Istambul-Costantinopoli (giornalisti, scrittori, medici, avvocati, parlamentari…) vengono arrestati simultaneamente e trucidati barbaramente. Per il resto della popolazione, con la scusa di proteggerli dalle operazioni belliche del conflitto mondiale in corso (1914-18), vengono organizzati dei trasferimenti forzati di interi villaggi, verso una zona deserta verso la Siria. Ma inevitabilmente si trasformeranno in “marce della morte”, durante le quali milioni di esseri umani moriranno di stenti, di sfinimento, di fame, di malattia, quando non saranno direttamente massacrati lungo la strada dai soldati di scorta. Gli Armeni sopravvissuti, con la loro sofferenza, ricordano al mondo questa ferita della storia del ‘900. Ferita ancora non rimarginata, per la maggior parte ancora poco conosciuta se non addirittura negata. Creando doppio dolore in chi ha patito direttamente o per memoria famigliare.
La vicenda – Richard Kalinoski ci fa rivivere il dolore di un intero popolo rappresentando il dramma di due sopravvissuti, un lui ed una lei, e del loro figlio adottivo, che sulla scena si sdoppia in Io narrante (Alberto Mancioppi) oltre che adolescente socialmente disadattato.
Lui in scena è Aram Tomasian (Fulvio Pepe), giovane fotografo immigrato in America, dove vuole ricomporre affettivamente la sua nuova famiglia in sostituzione di quella che i turchi gli hanno sterminato, decapitando i suoi famigliari ed appendendo le teste in cortile sul filo da stendere per la biancheria.
Lei è Seta (Elisabetta Pozzi), giovane profuga sposata per procura. Anche lei sfuggita all’eccidio dopo aver visto sua madre letteralmente crocifissa perché cristiana e sua sorella maggiore stuprata davanti ai suoi occhi di bambina che ne resterà perennemente ferita e condizionata anche nella sua vita di donna e di moglie.
La coppia si porta dentro il dramma del dolore represso, che ogni tanto riaffiora in atteggiamenti di interiore tormento ed in rituali compulsivi: lui con la foto della sua famiglia, lei con la bambolina di pezza regalatale dalla madre. Negli anni scopriranno lo loro sterilità di coppia, che aggiunge delusione a disperazione. La famiglia e la memoria non possono essere conciliate e ricomposte. La catarsi rigeneratrice verrà raggiunta solo quando nella loro vita compare Vincent (Luigi Bignone), uno sventurato ragazzino abbandonato, che essi finiranno con l’adottare. Nel nuovo affetto tutti e tre riusciranno a sublimare il loro dolore, ad acquietare il tormento del passato e guardare al futuro con speranza rinnovata.
Convincente l’interpretazione dei quattro attori. Brava la Pozzi nell’esprimere il disorientamento dell’emigrata e lo sgomento della vittima. Ottimo Fulvio Pepe nel passare dall’autocompiacimento quasi tronfio dell’emigrante affermato, al disappunto della sterilità, per sprofondare negli abissi del suo dolore mai sopito della tragedia vissuta. Comunicativo Luigi Bignone, nell’impersonare Vincent-scugnizzo espansivo e, tutto sommato, socievole anche se afflitto dal disagio sociale. Compassato ed affabile Alberto Mancioppi nei panni di Vincent-narratore, che rammenta e raccorda tempi e situazioni tra loro distanti ma intrecciati, che lui contribuisce a dipanare di volta in volta e che la regia sottolinea con accorto gioco di luci ed una scenografia sobria, al limite dello spoglio ma arricchita da un’efficace proiezione di diapositive in dissolvenza.
Convincente la regia (Andrea Chiodi) che rilegge l’opera di Kalinoski con rinnovata sensibilità umana sia verso la vicenda della famiglia Tomasian che verso le sventure di un intero popolo, che non cessa di fare da costante, doloroso fondale scenico per tutta la durata della icastica rappresentazione.
In tempi come i nostri di emigrazioni di massa ed immigrati disadattati, la storia di questa famiglia armena, sopravvissuta alla tragedia del dolore e della disperazione, dovrebbe far riflettere e stemperare qualche facile populismo, oggi tanto di moda.
Il pubblico attento e caloroso alla fine dello spettacolo, fa ben sperare che l’opera qualche seme lo ha lasciato e che qualche frutto di umana assennatezza germoglierà.