TRIESTE FILM FESTIVALIn Aurora’s Sunrise la rievocazione del genocidio armeno (Taxidrivers 28.01.23)
Aurora’s Sunrise presentato al Trieste Film Festival nella sezione “Fuori dagli sche(r)mi“, è al contempo un colpo allo stomaco e un esempio di come l’animazione, associata magari ad altri strumenti espressivi, possa sondare territori dell’immaginario davvero impervi e a contribuire a far luce sulle più buie pagine di Storia.
In questo caso trattasi di una delle vicende più dolorose e sconvolgenti del Novecento, lo spaventoso genocidio compiuto ai danni del popolo armeno il cui inizio è datato 24 aprile 1915, ma che avrebbe poi riempito di orrori gli ultimi anni di vita dell’Impero Ottomano e gli esordi stessi della repubblica fondata in Turchia da Mustafa Kemal Atatürk.
Una tragedia dimenticata, anzi, rimossa
Tra gli aspetti più sconcertanti di una pulizia etnica così estesa, che costò la vita a oltre un milione di vittime innocenti e che raggiuse punte di crudeltà particolarmente disumane, efferate, eguagliate forse soltanto dai massacri portati avanti da “banderisti” ucraini nel corso della Seconda Guerra Mondiale o dall’attività dei militari nell’Indonesia degli anni ’60, vi è senz’altro il mancato riconoscimento di tali eventi da parte della Turchia, in tutto l’arco della sua (spesso autoritaria) Storia recente. Caso di “negazionismo” protratto nel tempo che pesa come un macigno sulla coscienza collettiva di tale nazione. Ed è ingenuo anche solo immaginare che possa essere il tetro regime instaurato da Erdoğan a proporre marce indietro sull’argomento…
Alla letteratura, al cinema e all’arte in genere è rimasto quindi in tutti questi anni il compito di vincere l’omertà diffusa a così alti livelli, ricordare e far conoscere i fatti, commemorare le vittime. Solo a livello cinematografico si possono citare diversi capitoli di questa storia parallela, sommersa, più o meno brillanti a livello filmico, ma in ogni caso necessari. Dallo straziante, stratificato Ararat di Atom Egoyan (che ha incidentalmente fatto riferimento alle proprie origini anche in altre opere) a Le Voyage en Arménie di Robert Guédiguian. Passando magari per uno dei film più sottostimati (e al quale non difettano, al contrario, incisività e coraggio) dei Fratelli Taviani, La masseria delle allodole. Ora a tale galleria si è aggiunto un tassello non meno significativo, per i suoi meriti sia estetici che storici ed etici.
La genesi di un piccolo capolavoro
La dolente opera cinematografica della Sahakyan, Aurora’s Sunrise, è in realtà un gioco di scatole cinesi ove confluiscono armonicamente impulsi di varia natura, sia come provenienza che a livello formale. Lo spunto iniziale è offerto da una pellicola che seppe destare clamore e indignazione ai tempi del muto, Auction of Souls (1919) proiettata con successo nei cinema di mezza America per essere poi dimenticata in fretta e sparire dai radar anche fisicamente, materialmente, rimozione cui contribuì senz’altro il mutato quadro politico. Già, perché a interpretare quel film, direttamente ispirato alle sue dolorosissime esperienze, era una vera sopravvissuta al genocidio armeno, il cui nome venne “americanizzato” in Aurora Mardiganian.
Col tempo sono stati ritrovati alcuni brevi spezzoni di quella pellicola, da aggiungere qui al filmato di un’intervista realizzata qualche decennio dopo con la stessa Aurora, ormai anziana. Ma perfettamente in grado di ricordare gli orrori subiti da giovane nelle martoriate terre dell’Anatolia.
Alla ricerca, attraverso l’animazione, dei frammenti mancanti
La meravigliosa operazione compiuta dalla cineasta di Yerevan, Inna Sahakyan, è stata quindi mettere insieme i diversi pezzi del puzzle, ovvero le scarne tracce del film muto da poco recuperate e quella lunga intervista degli anni ’40, utilizzando poi l’animazione per dare forma a quei ricordi della protagonista che non era più possibile associare ad immagini, andate ormai perdute assieme ai rulli di una pellicola all’epoca così popolare. Con un esito artistico e contraccolpi emotivi a dir poco strepitosi: grazie a un’animazione dal tratto estremamente curato, possente, lirico, attento ai dettagli, prendono forma sullo schermo sia i momenti felici vissuti dalla famiglia di Aurora prima della repressione turca, sia le fasi più crudeli dello sterminio durante il quale quasi tutti i famigliari della ragazza vennero barbaramente uccisi, sia gli alti e bassi del successivo approdo negli Stati Uniti. Ma si può tranquillamente dire che il momento più elevato di tutta la narrazione sia l’allegoria incentrata su quello spensierato teatrino in famiglia, con genitori e fratelli che però malinconicamente si dissolvono, spariscono da quel ricordo gioioso di vita in comune, man mano che nella realtà i militari dell’Impero Ottomano e i banditi curdi (loro complici in quell’abominio) li accompagnano una alla volta verso la morte.
L’ispirata scelta dei disegni, pronti a declinare sia la bellezza che il sopraggiungere del terrore, fa quindi il paio con un’impostazione teorica molto appropriata, tesa cioè a spingere l’animazione non soltanto verso un apprezzabile valore testimoniale ma anche all’iperbolica ricostruzione dei tasselli mancanti, delle immagini perdute. Fondendo quindi tale risorsa espressiva con assai delicate esigenze documentarie. Quasi inevitabile, a questo punto, il parallelo con la poetica del cambogiano Rithy Panh, che proprio in The Missing Picture aveva sperimentato, tramite l’animazione a passo uno, un analogo desiderio di dare nuovamente vita ai “fantasmi” di chi è stato cancellato con inaudita brutalità, in quel caso la propria famiglia massacrata dagli Khmer Rossi.