TRIESTE 2024 Recensione: 1489 Film di Shoghakat Vardanyan (Cineuropa 26.01.24)
Dal 1° gennaio 2024 la repubblica del Nagorno-Karabakh (o Artsakh) – mai riconosciuta dalla comunità internazionale – ha smesso formalmente di esistere. Poco dopo l’invasione compiuta dall’esercito dell’Azerbaigian nel settembre 2020 il presidente Samvel Shakhramanyan aveva firmato un decreto in cui prometteva di sciogliere tutte le istituzioni statali di un territorio storicamente appartenente all’Armenia, assegnato all’Azerbaigian durante l’era sovietica. E alla fine del settembre 2023 l’intera popolazione di questa regione è fuggita oltre il confine con l’Armenia. Un conflitto ai margini dell’Europa rimasto per poche ore tra le news internazionali, fino a quando una settimana dopo è scoppiato il conflitto a Gaza e gli occhi sono tutti puntati su Israele.
Girando esclusivamente con la camera del suo telefono, la studentessa di giornalismo Shoghakat Vardanyan ha raccontato l’angoscia che ha attanagliato la sua famiglia alla scomparsa del fratello Soghomon a pochi giorni dall’inizio del conflitto, mentre stava finendo il servizio militare obbligatorio. 1489, il codice assegnato al cadavere di un anonimo “disperso in azione”, è il titolo del suo documentario d’esordio, vincitore di due premi, tra cui quello per il miglior film, all’IDFA di Amsterdam a novembre e ora in programma al Trieste Film Festival.
“Non è nella lista dei caduti. Deve rivolgersi all’Istituto Militare Mamikonyan”. Con questa telefonata comincia la febbrile ricerca del 21nne studente di musica. Il dubbio s’insinua nella mente dei genitori di Shoghakat. “Parli al passato di lui” è il rimprovero della giovane donna al padre Kamo. “E’ la paura a parlare. Il male sta distruggendo i miei sogni. Ho costruito un nido per la mia famiglia e ora arrivano i barbari a invadere la mia vita”. L’obiettivo della regista si muove bypassando qualsiasi sintassi cinematografica e scopriamo una madre che cuce cuscini per i ragazzi al fronte, prega o legge un libro sul divano per distrarsi da quella idea fissa. Un padre artista che lavora l’argilla e dipinge, e ha costruito una casa spaziosa e luminosa in quell’enclave difeso con le unghie e con i denti (la guerra per il diritto alla autodeterminazione della popolazione armena che vive lì è iniziata nel 1988).
Quando va in caserma a chiedere notizie del figlio, Kamo si sofferma sui fregi di un antico portale in pietra che raffigura l’albero della vita e racconta dell’eroe della mitologia armena Sanasar. La sua sensibilità d’artista rifiuta l’idea di quella violenza, di suo figlio affamato e infreddolito, nascosto in un bosco, inseguito dal nemico. La sua ossessione per l’immagine e il segno lo spinge a disegnare su un pezzo di carta il presunto itinerario della ritirata del battaglione a cui apparteneva Soghomon. Sono questi i momenti visivamente più suggestivi del documentario. Se le immagini delle vecchie riprese di un Natale in famiglia e la lettura del biglietto dei desideri per l’anno nuovo di Soghomon (“che io possa servire il Paese senza incidenti”) spingono lo spettatore ad un coinvolgimento emotivo indulgente, la regista non ci risparmia la cruda visione dei resti del fratello, quando viene finalmente ritrovato a 9 km da Hadrut, in direzione di Jebrayil.
Da questa tempesta emotiva ripresa in diretta e continuata per due anni, Shoghakat Vardanyan ha distillato i 76 minuti di 1489, aiutata al montaggio da Tigran Baghinyan e Armen Papyan. Un racconto intimo, nudo e crudo, tremolante ma fermo, incurante delle leggi della compostezza e del pudore e delle regole che si imparano a scuola di cinema, e che ci dice di mille guerre, passate, presenti e future.
1489 è autoprodotto da Shoghakat Vardanyan.