Tigran Hamasyan The Bird Of A Thousand Voices (Ondarock 15.09.24)

Un doppio album, che accompagna: una produzione teatrale, un’installazione di arte cinetica, un videogioco browser-based, svariati filmati. La fonte d’ispirazione di questo progetto transmediale che vede protagonista la musica di Tigran Hamasyan è un’antica fiaba armena, “Hazaran Blbul” (“L’usignolo di Hazaran”), che il pianista e compositore descrive come “una storia potente, di proporzioni epiche”. Realizzata in combutta con l’artista visivo olandese Ruben Van Leer, “A Bird Of A Thousand Voices” è un’opera che non sarà, forse, catalogabile come progressive rock punto-e-basta (sempre che “punto-e-basta” sia un’espressione che possa davvero abbinarsi all’indole del genere), ma certamente condivide con il filone una significativa dose di ambiziosità.

Rinviando gli interessati all’esperienza interattiva del piccolo platform game (pochi minuti di durata), i più fortunati alla partecipazione alle performance teatrali (finora si ha notizia soltanto di una première ad Amsterdam lo scorso 8 giugno), e tutti gli altri all’esplorazione del ricco sito web dedicato al progetto, conviene qui dedicarsi alla sola componente musicale – il che, comunque, non è poco, visto che il minutaggio complessivo dell’album supera l’ora e mezza.
Chi già conosce l’estro camaleontico del tastierista non si stupirà della varietà stilistica e dinamica del disco. Chi invece affrontasse questo tour de force come prima esperienza con la sua musica sia avvertito: data la mole, non è detto si tratti di una buona idea – ma certamente, anche ma non solo grazie alla mole, l’album è il migliore compendio sulla piazza della poliedrica visione musicale di Tigran Hamasyan.

Brano dopo brano, si incontrano dunque tutti i molteplici mondi musicali evocati dal trentasettenne lungo la sua articolata carriera. Ecco dunque, fin dall’iniziale “The Kingdom”, i torrenziali tempi dispari e i poliritmi portati in dote dal batterista dei Kneebody e storico collaboratore Nate Wood, ed ecco anche gli elementi folklorici e corali legati alla tradizione armena, in bella vista grazie ai contributi vocali dell’armeno-statunitense Areni Agbabian.
In pezzi come “The Quest Begins” o “The Demon Of Akn Atak”, fan di Area e Meshuggah potranno come sempre andare in visibilio grazie alle gragnuole di scale mediorientali e metri aksak, contrappuntate da bordate djent dove i tuoni sulle ottave basse del piano prendono il posto consuetamente affibbiato agli shred di chitarroni a sette/otto corde. E negli episodi più riflessivi (“The Path Of No Return”, “Flaming Horse And The Thunderbolt Sword”, “Sing Me A Song When You Will Be At The Place Where All Is Bliss”), l’indole più ambientale di Hamasyan emerge con i suoi arpeggi piovigginosi, i fischiettii dimessi, il mood umbratile già apprezzato in dischi “liturgici” come “Luys i Luso” o affini al gusto Ecm come “Atmosphères”.

Soprattutto, però, “A Bird Of A Thousand Voices” svetta per la sua capacità di fondere in modo organico tutti gli elementi dello spettro del tastierista, e di arricchirne il linguaggio con sfumature nuove. Fra queste, la più sorprendente – ma, a ben vedere, assai pertinente – è data dagli svolazzi sintetici di orientamento videogame music: già comparsa, e con un discreto risalto, anche in alcuni degli album precedenti, la componente elettronica è qui portata in primissimo piano, con suoni prevalentemente monofonici che rimandano tanto ai cari, vecchi assolazzi analogici anni Settanta quanto alle gioiose finezze melodiche della chiptune, capaci di arricchire l’arazzo senza mai sovrastarlo.
Nella maggior parte dei casi, questo nuovo elemento appare perfettamente integrato nella tavolozza già acquisita: un colore in più, che aggiunge una dimensione alla dinamica vertiginosa di “The Quest Begins” e all’ottovolante di “Red, White And Black Words”, forse l’episodio più funambolico del disco.
Altrove, le possibilità enigmatiche delle texture elettroniche si combinano al tocco più jazzistico consentito dal pianismo di Hamasyan, definendo di volta in volta incanti ibridi che durano il tempo di un brano: si vedano “The Curse (Blood Of An Innocent Is Spilled)”, con violino e basso bitcrushed, o la quasi conclusiva “The Eternal Birds Sings And The Garden Blooms Again”, in cui il canto di Agbabian incontra quello del pianista, sbalestranti invenzioni ritmiche e vocalizzi elettronici dal corpo diafano e ingannevole.

Nell’attesa, non troppo fiduciosa, che la rappresentazione dal vivo del progetto possa trovare qualche venue che la ospiti nei paraggi, non c’è insomma di che disperarsi: non saranno forse mille, ma le innumerevoli voci dell’avis rara Tigran Hamasyan sono già tutte contenute nella versione su disco.

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