Testimoni dei pogrom di Sumgait (Gariwo 10.12.18)
Durante i pogrom violenti verso etnie considerate “nemiche”, c’è sempre qualcuno che si oppone allo scatenarsi dell’odio, della violenza, della rapina, della sopraffazione. A Sumgait, in Azerbaigian, quando negli ultimi giorni del febbraio del 1988, in tempo di pace, una violenza brutale si è scatenata contro la minoranza armena, si verificarono anche episodi di solidarietà, di soccorso, di difesa delle vittime da parte di azeri che non hanno seguito gli ordini emanati dalle autorità al potere, ma piuttosto un moto profondo dettato dal principio di umanità e da un sentimento di ribellione di fronte all’ingiustizia che si traduce in azioni concrete. Oggi quei “Giusti azeri” sono considerati dai governanti dell’Azerbaigian dei “traditori”. La loro storia è raccontata dai salvati, sopravvissuti che hanno visto infrangersi il fronte dei carnefici e la compattezza della “zona grigia”, grazie all’aiuto di chi ha vinto l’indifferenza e ha agito. Ma a restituire loro la forza di raccontare hanno contribuito anche i testimoni di verità, che hanno infranto la barriera del negazionismo sempre elevata dalla “storia ufficiale” scritta da chi vuole occultare la verità.
Riporto alcune testimonianze raccolte a caldo in Armenia dove i profughi si sono rifugiati con la speranza di poter un giorno rientrare nelle loro case a Sumgait. Oggi sappiamo che nessuno degli intervistati è ritornato a casa [1].
I racconti dei sopravvissuti sono raccapriccianti. Hanno visto la potenza del male abbattersi improvvisamente su di loro e niente più è stato come prima nella loro vita. Ho volutamente tralasciato le pagine più terribili di ciò che è avvenuto in quei tre giorni di indicibile violenza, anche se sappiamo che il male, come ci ricordava Salvatore Natoli recentemente, bisogna “prenderlo sul serio”. In molte testimonianze gli armeni che sono riusciti a fuggire da Sumgait chiedono che non si riportino i loro cognomi, per vergogna, per paura o per possibili ritorsioni. Allo stesso modo alcuni tra gli armeni salvati chiedono che non vengano riportati i nomi dei loro salvatori, azeri, georgiani, russi, affinché questi ultimi non vengano indagati in quanto “traditori”, poiché salvato e aiutato invece di partecipare ai pogrom. C’è sempre l’accusa “ufficiale” di tradimento da parte del potere costituito, come ci ricorda Marcello Flores [2]; nello specifico da parte di un governo che non solo non ha voluto proteggere la minoranza armena vittima dei massacri di Sumgait e Baku, ma che in molti casi ha anche facilitato, con ordini precisi di “non intervento” o di divieto dell’uso delle armi impartiti ai militari, l’esplosione delle atrocità.
Sicuramente l’orrore del giovane militare russo svenuto di fronte all’adolescente armena sfigurata, violentata, ridotta in fin di vita segnala l’entità del male e insieme il fatto che se non distogli lo sguardo puoi non reggere alla vista delle conseguenze provocate dall’indicazione di un nemico “minaccioso” da abbattere, anche se costituito per lo più, da donne, vecchi e bambine che padri, mariti e fratelli armeni non sono riusciti a difendere perché abbattuti per primi.
Anche i testimoni di verità, Giusti a pieno diritto, rientrano nella schiera dei traditori e rischiano la vita, come è accaduto a Constantin Pkhakadze, un ex ufficiale dell’armata sovietica di stanza in Ungheria, nato a Sumgait e ritornato nella sua città dove lavorava come elettricista. Recatosi in piazza Lenin per vedere con i suoi occhi cosa stava accadendo, aveva constatato che sulla tribuna centrale si alternavano oratori che incitavano a uccidere tutti gli armeni. Vedeva arrivare i militari inviati da Gorbaciov per por fine al “genocidio”, così Constantin definisce il massacro degli armeni in terra azera, armati solo di manganelli contro gli insorti in possesso di Mauser di nuovo tipo e di coltelli. Quando un soldato russo arrestava qualcuno tra la folla scatenata consegnandolo alla polizia, subito veniva rilasciato. Constantin Pkhakazde, nel corso della testimonianza, si indigna nel ricordare che una divisione sovietica di élite di 10.000 soldati non è riuscita a difendere 18.000 armeni, che venivano massacrati da una folla di azeri, drogati e ubriachi (stupefacenti e droga erano stati distribuiti in grande quantità), e la sua indignazione aumenta quando ricorda le menzogne della stampa ufficiale che all’indomani del massacro scrisse che tutti i responsabili erano stati individuati e arrestati. “Dove trovare la verità in questi giornali? Che ne è della verità, della glasnost, della trasparenza, della giustizia?” Gli accenti accorati di questo testimone di verità ci dicono che la ripresa della vita dopo le grandi esplosioni di violenza è possibile solo se si può fare riferimento a persone come Constantin Pkhakadze. Appartiene alla schiera dei Giusti. Il suo racconto della verità dei fatti ha trasmesso un filo di speranza agli esuli sopravvissuti armeni che hanno cercato di ricominciare a vivere e, forse, a dimenticare.
Per quanto mi riguarda, dopo avere letto i resoconti dei massacri e avere ascoltato la voce dei sopravvissuti, l’accavallarsi dei racconti orribili ha raggiunto un limite insopportabile. Come un serbatoio pieno ha una valvola di sfogo che evita la fuoriuscita del liquido dal bordo, così è avvenuto in me: dopo essermi riempito del male fino all’orlo, sono andato alla ricerca del bene.
Testimonianza di Rosa, famiglia M… : “Se non si fosse trovato qualche azero semplice e di cuore (ne esistono) per difenderci, nessuno di noi sarebbe sopravvissuto. Se, ad esempio, il capitano Sabir Kassumov non ci avesse aperto la sua porta, né io, né mio marito, né i miei bambini saremmo ancora vivi” [3].