Te Deum laudamus per le prove che ci dai ogni volta (Tempi.it 02.01.17)
Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 29 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti) e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2016 Tempi ospita i contributi di Benedict Nivakoff, Alex Schwazer, Rone al-Sabty, Ilda Casati, Luigi Amicone, Siobhan Nash-Marshall, Tiziana Peritore, Therese Kang Mi-jin, Anba Macarius, Roberto Perrone, Pier Giacomo Ghirardini, Farhad Bitani, Maurizio Bezzi, Renato Farina, Pippo Corigliano, padre Aldo Trento, Mauro Grimoldi. Il prossimo numero di Tempi sarà in edicola da giovedì 12 gennaio 2017.
Siobhan Nash-Marshall è docente di Filosofia al Manhattanville College di Purchase, New York.
L’estate scorsa sono stata a Parigi per un simposio internazionale sulla filosofia. La mia dissertazione affrontava quella che è divenuta una posizione filosofica mainstream: che la fede in Dio debba essere accettata senza prove di alcun genere. Io sostenevo che è una posizione pericolosa. Rende l’accettazione di convinzioni reciprocamente esclusive – come l’idea che Dio esista e quella che Dio non esista – giustificabili allo stesso modo, e dunque impedisce di credere davvero in qualsiasi cosa. Quando ho finito di leggere, un collega dalla Scozia ha messo in discussione la mia argomentazione facendo appello proprio al tipo di opinione che viene utilizzata per giustificare posizioni come quella che io stavo criticando: la tesi dell’ultimo periodo di Wittgenstein secondo cui tutti i sistemi di pensiero sono fondati su giochi linguistici e non su prove.
La sfida era inevitabile. È diventato difficile trovare intellettuali che si attengano a qualche convinzione fondamentale che non sia la convinzione che tutte le convinzioni fondamentali sono infondate allo stesso modo. Sembra che non osiamo più credere che le nostre convinzioni debbano essere o vere o false: che esse referuntur ad rem oppure no. Sembra che non abbiamo più il coraggio di fidarci di ciò in cui crediamo. Se crediamo in qualcosa, o così i nostri tempi ci farebbero supporre, è perché ci sentiamo soli e impauriti, perché vogliamo appartenere a qualche gruppo o ad altro e, come si usa dire, “dare significato alle nostre vite”.
La topografia intellettuale del mondo occidentale oggi è diventata perciò assai simile alla topografia religiosa dell’antica Delo, dove una pletora di templi dedicati a una miriade di dei – Iside, Poseidone, Apollo, Artemide e così via – circondavano quello che era allora uno dei più grandi mercati di schiavi del Mediterraneo. Doveva esserci qualcosa di strano a riguardo del dio particolare a cui si facevano sacrifici nei tempi antichi, tanto più se non li si facevano per ragioni pratiche. Colui che faceva sacrifici a Poseidone a Delo provava a giustificare il suo fare sacrifici a Poseidone anziché ad Apollo? Si domandava perché Poseidone avesse un tempio su un’isola la cui sacralità era legata al mito secondo cui quello era il luogo di nascita di Apollo? Osava forse credere che Poseidone – e non Apollo – esercitasse davvero un potere sul cosmo e sulle vicende umane? Che Poseidone non potesse che suscitare soggezione in chiunque vedesse le sue opere? Che tutti dovessero venerare Poseidone? Che dovesse esserci qualcosa di eccezionale in lui, se poteva venerare Poseidone? Credeva che venerare Poseidone comportasse vivere una vita più compiuta? Ne aveva (o ne voleva) le prove?
Mentre si avvicina la fine dell’anno, penso a Parigi e ringrazio Dio per le prove. Ringrazio Dio per l’Armenia e Artsakh. Te Deum laudo per le battaglie di Sardarabad, Abaran e Karakilisse. Nel 1918, dopo che i sovietici avevano ceduto loro le province armene di Kars e Ardahan, dopo che essi avevano sterminato gli armeni nell’Armenia occidentale, i leader del Comitato dell’Unione e del Progresso che governava l’Impero ottomano decisero di conquistare le terre che separavano Kars da Baku, con i suoi pozzi di petrolio e la sua popolazione turca: gli azeri.
Decisero di spazzare via l’ultimo pezzo di Armenia che restava. Lanciarono un attacco su tre fronti. Avrebbe dovuto essere una vittoria facile. Fra il 1915 e il 1917 gli armeni occidentali erano stati deportati e massacrati. Tre su quattro erano morti. I superstiti erano un mucchio di miserabili: privati del focolare, della patria e di ogni mezzo, erano affamati e stanchi. Gli armeni orientali erano sconvolti dall’arrivo di centinaia di migliaia di coloro che erano riusciti a scampare la morte a ovest, e dalle conseguenze della Rivoluzione russa in corso. Non potevano resistere a un attacco frontale.
Quando giunse la notizia che l’esercito turco stava per attaccare, il catholicos Gevorg V ordinò che tutte le campane delle chiese in Armenia suonassero. Contadini e poeti, preti e rifugiati, uomini e donne si diressero ai fronti trascinando carri carichi di vecchie munizioni e cibo. Le campane suonarono per sei giorni mentre essi combattevano. Il settimo giorno, l’Armenia si fermò. Il nemico si era ritirato. Te Deum laudamus.
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