Sugli Armeni incombe la promessa di Erdoğan: «Dobbiamo finire il lavoro…». Il saggio di Antonia Arslan “La paura di un genocidio infinito” (Korazym 21.07.24)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 21.07.2024 – Vik van Brantegem] – «Nel territorio dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) si stanno cancellando le tracce Cristiane: monumenti, chiese, croci di pietra, strade. E ora c’è la possibilità che si avveri per lo Stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino: la de-armenizzazione completa», scrive Antonia Arslan nel saggio dal titolo Armenia, la paura di un genocidio infinito, che riportiamo di seguito, pubblicato sul nuovo numero 3 di Vita e Pensiero di luglio 2024 [QUI] e che può essere scaricato gratuitamente in formato PDF [QUI].
Antonia Arslan (in copertina nella foto di Luigi Tiriticco) è autrice di saggi fondamentali sulla narrativa popolare e la letteratura femminile tra Ottocento e Novecento [QUI].
Nel 2004 in La masseria delle allodole (Rizzoli 2015, 233 pagine, premiato con moltissimi riconoscimenti e tradotto in 15 lingue, da cui i fratelli Taviani hanno tratto l’omonimo film [QUI]) ha dato voce alle memorie familiari in un racconto della tragedia di un popolo “mite e fantasticante”, gli Armeni, e la struggente nostalgia per una terra e una felicità perdute. La masseria delle allodole è la casa, sulle colline dell’Anatolia, dove nel maggio 1915, all’inizio dello sterminio degli Armeni da parte dei turchi, vengono trucidati i maschi della famiglia, adulti e bambini, e da dove comincia l’odissea delle donne, trascinate fino in Siria attraverso atroci marce forzate e campi di prigionia. In mezzo alla morte e alla disperazione, queste donne coraggiose, spinte da un inesauribile amore per la vita, riescono a tenere accesa la fiamma della speranza; e da Aleppo, tre bambine e un “maschietto-vestito-da-donna” salperanno per l’Italia…
Fra le sue pubblicazioni più recenti, Il destino di Aghavnì (Edizioni Ares 2022, 120 pagine [QUI]), racconta che nel maggio del 1915, subito prima dell’inizio del genocidio degli Armeni, in una Piccola Città del centro dell’Anatolia, una ragazza di 23 anni che si chiama Aghavnì, esce di casa con i suoi cari, il giovane marito e i due figli, un bambino di sei anni e una bambina di due. Nessuno li vedrà mai più. Scompaiono, semplicemente, senza lasciar traccia. Sono stati uccisi? O rapiti? Ma da chi? Nonostante le intense ricerche delle due famiglie, nessuno sembra saperne qualcosa. Poi, anche il loro ricordo sbiadisce fino a scomparire, nell’imperversare dei terribili eventi che iniziano proprio in quei giorni, alla fine di maggio 1915. Da una fotografia di questa sorellina di suo nonno, ritrovata a casa di un cugino in America, Antonia Arslan trae un racconto avventuroso di dolore e di riscatto, di morte e di rinascita, che culmina in uno strano Natale, in un misterioso presepio che diventa un riscatto dei cuori.
Armenia, la paura di un genocidio infinito
di Antonia Arslan
Vita e Pensiero, luglio 2024
Nel territorio dell’Artsakh (o Nagorno-Karabakh) si stanno cancellando le tracce cristiane: monumenti, chiese, croci di pietra, strade. E ora c’è la possibilità che si avveri per lo stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino: la de-armenizzazione completa.
Fa parte dell’animo profondo di ogni nazione, specialmente di quelle antiche e inermi, quello che gli Armeni chiamano garod. Che è più di nostalgia, più di privazione: è in qualche modo analogo a una costante – più o meno forte, ma sempre presente – percezione di “mancanza”, di vuoto definitivo, un po’ come la sensazione che prova un mutilato quando “sente” l’arto mancante: gli pare caldo o freddo, gli sembra di muovere le dita, di avvertire un prurito.
Fra le nostre regioni, forse è soprattutto il Veneto che la conosce, quella parte almeno che si affaccia sull’Adriatico, e ha perso traumaticamente, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, le sue città dirimpettaie, come Fiume o Pola, parlanti la stessa lingua, con la stessa fede e gli stessi modi di vita, facenti parte per secoli dello stesso Stato, la Repubblica di Venezia. E che erano collegate regolarmente, con traffici e mercati di ogni genere, attraverso le vie del Mare Adriatico, sicure sotto il Leone di San Marco. Come mi disse una volta una cara amica, insigne collega all’Università di Padova e profuga istriana: «Certo che ne sento la mancanza. Ma non ho mai voluto rivedere Pola: non la sentirei mia. Le città sono baldracche, si concedono al nuovo padrone…».
Per gli Armeni, in questi ultimi mesi, alla storica richiesta di giustizia per il riconoscimento di un genocidio che viene ancora ostinatamente negato – e non da persone singole, ma da uno Stato potente e determinato com’è la Turchia, con tutti i mezzi possibili, leciti o illeciti che siano – si affianca purtroppo una minaccia incombente. E il senso di garod, di privazione irrimediabile che li traumatizza da 109 anni sta intensificandosi giorno dopo giorno. La sopravvivenza stessa della nazione armena è infatti oggi in pericolo, e ciò sta avvenendo nella sostanziale, ipocrita disattenzione dell’opinione pubblica e dei governi occidentali, e nella tacita complicità delle autocrazie del mondo islamico e dei governi dell’Estremo Oriente.
Nel complicato scacchiere mediorientale, infatti, gli stati del Caucaso (le tre repubbliche ex sovietiche, Armenia, Georgia, Azerbaigian: le prime due cristiane, la terza musulmana sciita) rivestono un’importanza molto maggiore di quel che sembrerebbe, se si guarda solo alla loro ridotta estensione geografica. E nella situazione attuale, in contemporanea con i due conflitti “maggiori” riguardanti Ucraina e Israele, si vede chiaramente una terza guerra serpeggiare minacciosamente intorno all’Armenia.
Questo è un rischio concreto e immediato. È quello che viene chiamato “il genocidio infinito”, cioè la possibilità che si avveri per lo Stato sovrano che è l’Armenia lo stesso destino che ha colpito quella piccola parte del popolo armeno stanziata nel territorio chiamato Artsakh dagli abitanti – di solito più conosciuto col nome russo, Nagorno-Karabakh: la de-armenizzazione completa. (A proposito delle cause della tragedia armena e del concetto di “genocidio infinito”, sono fondamentali tre libri recenti, usciti presso Guerini: S. Nash-Marshall, I peccati dei padri. Negazionismo turco e genocidio armeno, 2018; S. Ihrig, Giustificare il Genocidio. La Germania, gli Armeni e gli Ebrei da Bismarck a Hitler, 2023; A. Arslan – A. Ferrari, a cura di, Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena, 2023).
Situato fra l’Armenia ex sovietica e l’Azerbaigian, è una piccola enclave fra le alte montagne del Caucaso, abitato da millenni da tribù di etnia armena, come dimostrano i numerosi monumenti là presenti, le chiese e i monasteri antichissimi – con affreschi meravigliosi da poco restaurati – e le pittoresche rovine archeologiche (ricche di straordinari ritrovamenti) risalenti all’epoca del più vasto regno armeno, quello del re Tigrane il Grande (95-55 a.C.).
Fu Stalin, plenipotenziario di Lenin per il Caucaso (come è noto, lui proveniva dalla Georgia), che negli anni tumultuosi del primo dopoguerra stabilì i confini fra le tre repubbliche transcaucasiche, dopo aver soppresso la loro fragile indipendenza. E decise di attribuire alla sovranità azera due territori confinanti con l’Armenia, e popolati in grande maggioranza da Armeni, uno a est (il Nakhichevan) e l’altro a ovest (che è, appunto, l’Artsakh). Vennero classificati come oblast, cioè regioni “a statuto speciale”, con un soviet proprio, dotato di una certa autonomia, in cui si usava la lingua armena.
Alla caduta dell’Unione Sovietica, le tante nazionalità che vi convivevano riemersero dappertutto nelle varie repubbliche; ne nacquero molti conflitti (come in Georgia), e anche gli Armeni dell’Artsakh chiesero – secondo la legge sovietica – di potersi riunire alla vicina madrepatria. Seguirono tumulti, pogrom e massacri, e una prima guerra contro l’Azerbaigian (1992-1994), vinta dagli Armeni, che conquistarono anche alcuni territori di confine e crearono una piccola repubblica indipendente, con statuti democratici funzionanti, ma non riconosciuta dalla comunità internazionale. Ci fu un consistente scambio di popolazioni; ma una vera trattativa di pace, nonostante l’attività ventennale (tuttavia assai poco convinta…) del cosiddetto “gruppo di Minsk”, o almeno un armistizio, non furono però purtroppo mai raggiunti.
Negli anni successivi – oggi possiamo vederlo con chiarezza – l’Armenia si è cullata nell’illusoria sensazione che qualcuno (la Francia, sua storica protettrice, o l’Unione Europea, con la quale furono stabiliti ottimi ma vacui rapporti? Gli Usa, dove vive la più numerosa comunità della diaspora, o perfino l’Iran, in funzione antiisraeliana?) sarebbe intervenuto in caso di ripresa del conflitto. Nel frattempo l’Azerbaigian si arricchiva col gas e col petrolio e si riarmava nella forma più moderna e letale possibile: fino a quando nel settembre 2020 lanciò – con l’aiuto della Turchia, alleata e “cugina” di sangue – la cosiddetta “guerra dei quaranta giorni”, finita con un cessate il fuoco garantito per cinque anni da una forza di pace dell’esercito russo.
Sono andata molte volte in Artsakh: ed era un luogo fiabesco, fra alte montagne coperte di foreste, vallette fertili e antichi villaggi, con il suo apparato statale, una piccola, linda capitale – Stepanakert – due università funzionanti a pieno regime (Mesrop Mashtots University e Artsakh State University), con varie facoltà e molti studenti anche stranieri, dove mi capitò di fare lezione a gruppi interessati ed entusiasti e perfino di ricevere un dottorato honoris causa…
Non dimenticherò mai l’intensa e misteriosa spiritualità che emanava il luogo di Dadivank (Dadi è il nome di un discepolo di San Taddeo, uno dei primi evangelizzatori del Paese, e vank vuol dire “monastero”), con il gruppo di chiese restaurate, gli affreschi del Duecento riscoperti dall’italo-armeno Paolo Arà Zarian e dalla sua collega Christine Lamoureux, le sorgenti sulfuree (una Abano medievale, con la povera gente a bagno nelle acque) e il quieto villaggio nelle vicinanze, dove il parroco der Hovhannes ci offrì una calda merenda e i discorsi forti e sereni di un Cristianesimo vissuto e sofferto.
L’unica strada che congiungeva l’Artsakh con l’Armenia, la prima volta che ci sono andata, era lunga e tortuosa ma affascinante. A metà del cammino, dopo circa tre ore, facemmo sosta in una specie di locanda, dove fummo ricevuti con la larga ospitalità che si riserva allo straniero. C’erano tante scodelle di riso pilaf con erbette varie a condirlo, e pinoli e piccoli semi; c’erano fette di carne abbrustolita e marinata, c’erano insalatine novelle appena colte – e un bel vino rosso, e due imponenti teste di cervo appese alla parete. E poi vennero fuori dalla cucina col vassoio dei caffè e del pakhlavà le due cuoche, robuste e ridenti, a dirmi che avevano visto, nei giorni della Pasqua appena trascorsa, il film dei fratelli Taviani ispirato alla mia Masseria delle allodole…
Un paio di anni dopo ci tornai con un gruppo americano, la Fondazione Tufenkian. A Yerevan decisero di farci viaggiare su un elicottero militare. Eravamo una ventina, molto eccitati dall’avventura: io avevo portato con me una cara amica e due giornalisti italiani. Volammo basso, sfiorando le cime dei monti e sventolando le nostre sciarpe colorate dai finestrini aperti, e atterrammo in un piccolo spiazzo vicino a un villaggio molto povero, dove la fondazione aveva costruito una scuola nuova: e anche là venimmo accolti con festose accoglienze, discorsi del sindaco e vassoi di dolcetti. Visitammo il Paese, trovando dappertutto interesse e buona volontà, voglia di lavorare e piccole imprese in crescita, dalla viticoltura (con risultati sorprendenti) all’apicoltura (straordinario, quel miele di montagna!), al raffinato artigianato (i celebri tappeti Karabakh), alla delicata oreficeria.
Ma fu la terza volta a essere per me particolarmente significativa. Eravamo un bel gruppo, Americani e Italiani, membri di una piccola fondazione, nata negli Stati Uniti per aiutare i giovani Cristiani di Siria durante la guerra. Purtroppo là avevamo trovato ostacoli di tutti i generi; sicché si era pensato di poter essere più utili in Artsakh, Paese poco conosciuto e pronto ad accoglierci.
E fu davvero così: negli anni successivi riuscimmo a mettere in piedi una grande scuola, finanziata da noi e dal governo locale, nella quale andarono a insegnare persone capaci, generose ed esperte: professori come Siobhan Nash-Marshall, giornalisti come Trey Blanton e un gruppo di studenti (Avery Kazcka, Stephanie Havens e altri) Americani e Italiani come Lucia Bortolotti, Ambrogina e Gianantonio Sanvito, Giliola Isotton. Ci furono anche corsi online, di lingua italiana e di fitoterapia (particolarmente promettente, questo, per le tante piante medicinali poco conosciute presenti nel Caucaso).
Il progetto prevedeva di essere ampliato con diversi altri professori e artigiani provenienti da diverse regioni italiane, che sarebbero andati a portare là le loro specifiche competenze e specializzazioni, in una prospettiva di equilibrato e condiviso sviluppo. E benché l’orizzonte dell’Artsakh si fosse ormai gravemente oscurato, ancora la minuscola repubblica sperava di resistere, contava sulla presenza della forza di pace e sulla tradizionale amicizia con la Russia.
Ma la guerra contro l’Ucraina ha cambiato le carte in tavola: i Russi hanno altre faccende in corso e il mondo occidentale tace. Circa 120 mila in tutto erano gli abitanti dell’Artsakh. Oggi non c’è più nessuno, il Paese intero è stato abbandonato: più di 106 mila persone sono scappate in tre giorni, dopo la resa quasi immediata – in ventiquattr’ore – per la guerra lampo scatenata il 19 settembre 2023, con forze belliche preponderanti e modernissime, dal Presidente azero Aliev. E oggi, nel silenzio collettivo, di un’altra parte di Armenia si stanno cancellando le tracce: monumenti, chiese, nomi di luoghi, croci di pietra, strade. Come ha promesso il Presidente Erdołğan in un celebre discorso, «dobbiamo finire il lavoro…».
Un estratto è stato pubblicato oggi da Il Foglio: