Storie di donne, letteratura di genere/ 530 – Di Luciana Grillo (Ladigetto 20.03.24)
Sara Maino, «Quaderno armeno – Hotel Praha, Yerevan» – Un diario-racconto di straordinaria efficacia descrittiva e insieme capace di andare in profondità
Titolo: Quaderno armeno. Hotel Praha, Yerevan
Autrice: Sara Maino
Editore: Nous Editrice, 2023
Genere: Letteratura di viaggio
Pagine: 168, Brossura
Prezzo di copertina € 16
La prefazione del Console onorario della Repubblica di Armenia, Pietro Kuciukian, ci introduce nel mondo armeno, presentato secondo punti di vista diversi: il Console ha incontrato armeni in ogni continente, ha vissuto «la devastazione del terremoto, la conquista della libertà e insieme le ferite della guerra…», mentre Sara parte spinta dall’interesse per i canti liturgici nelle chiese armene, dalla sensazione che «la musica armena sembra portarmi indietro nel tempo… è una sensazione che mi fa sentire autentica».
Dopo un lungo viaggio aereo, Sara atterra a Yerevan ed è accolta da Oxana, una signora armena conosciuta in Italia.
La giovane viaggiatrice sapeva che Oxana si sarebbe presa cura di lei, forse l’avrebbe ospitata a casa sua, ma in taxi, mentre vanno verso la città, le spiega confusamente che la casa è in subbuglio e dunque che non può ospitarla.
L’accompagna all’Hotel Praha, un vecchio desolato albergo, dove tutto odora di unto e di sporco.
È qui che Sara incontra un gruppo di giovani prevalentemente donne tra cui Violet, che parla un ottimo inglese e diventa la sua «guida», una sorta di angelo custode, in un ambiente che le sembra losco e dove si sente a disagio.
In realtà, l’hotel è un albergo di rifugiati provenienti da Hadrut, città del Nagorno-Karabakh, e da Baku, capitale azera, sistemati qui dallo Stato armeno.
Violet, che ha studiato giornalismo e parla varie lingue, non trova lavoro perché gli armeni considerano «meno armeni» coloro che provengono dal Karabakh.
Conoscendo i familiari di Violet, Sara sente di essere «entrata in modo diretto, imprevedibile, in un mondo a me totalmente estraneo… i rifugiati hanno creato un microcosmo di solidarietà e di reciproca assistenza».
Forse Violet risulta un po’ invadente, vuole decidere dove accompagnare Sara, le fa capire che la musica che piace a Sara per gli armeni è troppo malinconica, perché «hanno voglia di voltare pagina».
Eppure insieme attraversano la città, vanno al Parco della Vittoria, scoprono da lontano il profilo del gigante bianco, il monte Ararat, e finalmente Violet confessa a Sara che il suo nome armeno è Manushak, «un nome armeno dal suono bellissimo… un canto».
Poi, per Manushak c’è la scoperta di internet, e «la posta elettronica è una rivelazione» che la lascia senza parole.
Sara vorrebbe essere più libera, eppure comprende l’espansività di Manushak, «mi commuove la sua vivacità, così spontanea, brillante, la freschezza dei suoi ricordi, il sorriso che li immortala, la tenerezza con cui parla delle pere e delle albicocche» e la semplicità con cui le racconta che vorrebbe un uomo al suo fianco.
Sara è invitata a cena dalla famiglia di Manushak, che traduce i suoi racconti, le esperienze di viaggio in luoghi lontani… e si emoziona quando Diana e Sarkis, fratello di Manushak, le chiedono di essere la loro testimone di nozze.
Passano i giorni, Sara deve fare i conti con il tempo che ha a disposizione, con il nervosismo di Manushak, i rinvii di Oxana che avrebbe dovuto ospitarla… forse c’è un accordo tra queste due donne? Forse Manushak ha il compito di controllarla? potrebbe darsi che le chieda del denaro alla fine del «servizio»?
L’ospitalità dei karabakiani è quasi soffocante, sembra celare «degli interessi mascherati da presunte preoccupazioni».
L’incontro con Padre Hagop un po’ la rasserena, sa che potrà registrare i canti liturgici in breve tempo ma in qualche modo è «avvertita» da questo Padre che sentenzia: «L’altro lato dell’ospitalità è la prigionia…».
Sara riesce ad abbandonare l’hotel Praha e i suoi abitanti, trova una camera in un albergo normale, eppure – riassaporata la libertà – ha nostalgia di tutti quegli sventurati costretti a vivere in un luogo sordido, controllati da un custode sgarbato, obbligati ad uscire scendendo lungo le scale di sicurezza per evitare controlli.
Per loro compra gli ingredienti per preparare, nella polvere dell’hotel, una vera pasta al pomodoro, «con un unico fornello da campo…sessanta occhi su di me e sul soffritto che sfrigola».
E Diana le fa sapere che se avrà una bimba, la chiamerà Sara!
«…in quella miseria ho trovato un’accoglienza autentica, una dimensione umana vera».
Per Sara, il giro delle chiese continua, raggiunge Echmiadzin, ascolta i racconti dolorosi di Manu, un bimbo perduto e un padre violento, segue l’ordinazione di quattro sacerdoti, «il rito stupisce, affascina anche un occidentale, non lascia mai indifferenti…».
Sara ascolta e registra, anche Manushak che canta in un tempio antichissimo alcune melodie del Nagorno-Karabak, «con un’innocenza bambina».
E parla con Fratello Bohdan di cerimonie religiose, di canti e strumenti e con la professoressa Anahit di intonazione del canto e di accordatura dell’orecchio.
Ma per compiere ancora una visita fuori città, invita Manushak, Sarkis e Diana e va a prenderli con un’auto a noleggio davanti all’hotel Praha e poi registra anche il canto di Manu e Diana, felici, libere.
Altro giorno, l’ultimo per Sara in Armenia, una gita con Manu e via, verso casa, carica di ricordi e di suoni, ma indebolita e stanca.
Qualche tempo dopo, Manu le partecipa la nascita della piccola Sara.