STORIA: La comunità armena a Trieste, una presenza dimenticata (East Journal 23.12.22)
La storia quasi sconosciuta della diaspora armena a Trieste, tra architettura e toponomastica…
Per effetto della sua posizione geografica e della sua complicata storia, che la colloca tra gli universi culturale latino, asburgico, mitteleuropeo e, ovviamente, balcanico, Trieste è, ma soprattutto è stata un melting pot di culture ed etnie, in un mix la cui componente ebraica è solo tra le più note e consistente. La crescita economica della città tra XVIII e XIX secolo – quando quella che fino ad allora era poco più di un villaggio divenne un centro cosmopolita e un porto europeo di primo piano – attrassero diverse comunità, compresa quella armena, di cui oggi restano poche tracce.
Una presenza (quasi) dimenticata
L’attuale via Ciamician – dal nome del celebre chimico Giacomo Ciamician (1857-1922), uno scienziato all’avanguardia, egli stesso di origine armena – con la scalinata che guarda il mare, è al cuore di quello che fu il quartiere armeno di Trieste; questo comprende via dei Giustinelli, una strada defilata dall’eleganza dimessa: qui, incassata tra un edificio abbandonato, un giardino ormai selvaggio e un condominio è incastonata la Chiesa dei Padri Mechitaristi, la chiesa armena che, come riporta Adriana Hovhannessian, dell’Associazione per l’amicizia tra Italia e Armenia ITALIARMENIA, ospita un bellissimo organo Rieger.
Consacrata alla Beata Vergine delle Grazie il 1 maggio 1859, oggi non solo non è visitabile, ma praticamente nemmeno visibile, seminascosta da una vegetazione fuori controllo dietro a un divieto d’ingresso. Quasi pericolante e semisconosciuto dagli stessi cittadini, nei tempi che furono l’edificio era stato un punto di riferimento religioso e culturale della comunità armena in città, casa dei Padri Mechitaristi armeni, un cui primo gruppo era arrivato nel 1715 da Costantinopoli a Venezia – città attorno a cui avrebbe poi gravitato il ramo italiano della diaspora armena – passando poi a Trieste.
Nel corso del XVIII secolo, infatti, diversi commercianti confluirono a Trieste, divenuta Porto Franco, attratti dalle opportunità dei traffici commerciali e degli affari: così, in meno di un secolo da una manciata di decine di membri, gli armeni a Trieste superarono le 500 unità a fine Settecento, in una fase in cui il vescovo di Trieste incentivava l’arrivo di immigrati armeni per controbilanciare la presenza dei greco-ortodossi.
Le tracce architettoniche
Nonostante ciò, a differenza di greci, ebrei e serbi, la comunità armena non crebbe quanto le altre minoranze, forse anche perché il nucleo religioso originario dei Padri Mechitaristi era spaccato al suo interno, cosa che non favorì particolarmente i nuovi arrivi. Soprattutto gli armeni, che già all’epoca avevano subito violenze e discriminazioni ad opera dell’Impero Ottomano, tendevano a essere diffidenti, preferendo restare legati alle proprie tradizioni molto radicate, piuttosto che integrarsi con il tessuto locale, cosa che contribuì anche a un certo gap linguistico.
Nondimeno, le tracce armene si possono ancora ripercorrere passeggiando sul colle di San Vito, attorno alla stessa via dei Giustinelli, il cui stesso nome è l’adattamento italiano del cognome di una celebre famiglia di origine armena, secondo un fenomeno che, con la naturalizzazione, rende difficile individuare nella toponomastica le origini armene. Nel 2021 la Commissione Regionale Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia ha deliberato di porre sotto tutela un edificio sito al numero 9 di via Tigor, quale componente essenziale del “borgo o colle armeno”: si tratta di un progetto del celebre architetto Ruggero Berlam.
Lo stesso Berlam, padre anche del progetto per la Sinagoga cittadina, nei primi anni del Novecento, disegnò una serie di edifici da adibire ad abitazioni per la piccola borghesia, voluti dall’imprenditore armeno triestino Haggi Giorgio Aidinian, commerciante di tappeti orientali, che li fece costruire sui terreni di proprietà dei padri Mechitaristi, convinti grazie al suo legame di parentela con l’Abate del monastero mechitarista viennese. L’ultimo della serie di edifici “armeni” è anche il più conosciuto, sito in via Giustinelli 1: si tratta di un massiccio stabile di cinque piani con uno stile vagamente cinquecentesco, caratterizzato da quattro torri angolari e posto in un’area sopraelevata, proprio come una fortezza.
Altre tracce sono andate invece perdute, come la pasticceria armena – o più precisamente “Fabbrica di dolci orientali” – fondata nel 1924 da Garabed Bahschian, nato a Costantinopoli e giunto a Trieste via Salonicco; sita al numero 5 di via Mazzini, la “Fabbrica” ebbe tanto successo che aprì in seguito una succursale in via Carducci 13; negli anni Venti e Trenta divenne un punto di ritrovo per greci, ebrei e armeni di passaggio, che si attardavano ai tavoli del suo caffè. La crisi economica alla fine della guerra e l’assottigliarsi progressivo delle comunità orientali a Trieste, che ne erano i principali clienti, portò la ditta Bahschian a chiudere a fine 1945. La comunità armena era già in declino e avrebbe poi continuato ad assottigliarsi: a oggi conta appena una decina di famiglie, tanto che la chiesa dei Padri Mechitaristi è passata, fino al 2009, alla Comunità cattolica di lingua tedesca, prima di venire chiusa e sostanzialmente abbandonata.
Fonti:
Tullia Catalan, Cenni sulla presenza armena a Trieste tra fine Settecento e primo Ottocento, in Storia economica e sociale di Trieste, La città dei gruppi l 719-1918, a cura di R. Finzi e G. Panjek, Trieste, Lint Editoriale 2001, vol. l, pp. 603-611
Anna Krekic e Michela Messina, Armeni a Trieste tra Settecento e Novecento: l’impronta di una nazione, Trieste, Civico Museo del Castello di San Giusto, 2008