«Sono perseguitato come armeno». Il caso Vardanyan e il razzismo azero (Tempi 02.03.25)
La dittatura di Baku sta conducendo un’incessante offensiva razzista contro la nazione armena, una campagna che dura da oltre tre decenni. Questa offensiva si manifesta nella distruzione del patrimonio storico-culturale armeno rimasto in Artsakh (Nagorno-Karabakh), nelle continue rivendicazioni territoriali contro l’Armenia e nel processo farsa contro i prigionieri di guerra armeni, tra cui Ruben Vardanyan.
Ex ministro di Stato della Repubblica dell’Artsakh, noto imprenditore, filantropo e cofondatore dell’Aurora Humanitarian Initiative, Vardanyan è riconosciuto per il suo impegno a favore della democrazia e dei diritti umani ed è il cofondatore della scuola internazionale UWC Dilijan in Armenia, che ospita tra l’altro anche studenti italiani.
«Sono perseguitato come armeno»
Da quasi dieci giorni ha intrapreso uno sciopero della fame, denunciando la persecuzione politica in un messaggio alla comunità internazionale:
«È stato chiaro fin dall’inizio che questo caso mira a perseguitarmi come armeno, semplicemente per aver esercitato i miei diritti alla libertà di opinione e di espressione e alla partecipazione politica ai sensi del diritto internazionale, diritti che tutelano la popolazione armeno-cristiana dell’Artsakh».
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L’invasione dell’Artsakh
L’offensiva razzista è iniziata negli anni ’90 del secolo scorso, come una reazione violenta all’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo armeno in Artsakh ed è poi evoluta in una marcia implacabile di odio etnico. Nel 2020 l’Azerbaigian, con il pieno sostegno della Turchia e dei jihadisti siriani inviati in Nagorno-Karabakh con il supporto turco, ha scatenato una brutale guerra di 44 giorni, contrassegnata da una violenza inaudita: massacri di civili dell’Artsakh, decapitazioni e mutilazioni.
Questi crimini sono stati perpetrati dalle forze turco-azere e dai loro alleati mercenari siriani, e il mondo ha assistito all’orrore delle loro atrocità. Nel 2023, la completa pulizia etnica dell’Artsakh da parte dell’Azerbaigian ha creato le condizioni per le sue pericolose ambizioni espansionistiche. Queste politiche -previste da tempo dai combattenti per la libertà armeni fin dalla prima guerra del Nagorno-Karabakh – mirano ora all’intero territorio della Repubblica di Armenia.
In un perverso colpo di scena, l’Azerbaigian rivendica queste terre come “Azerbaigian occidentale”. Uno stato-dinastia, quello di Ilham Aliyev, creato nel 1918, e una “nazione” fabbricata da Stalin negli anni ’30, che ora fa guerra contro i popoli autoctoni di Armenia, Artsakh e Nakhichevan – terre che appartenevano agli Armeni migliaia di anni fa, molto prima che l’identità turca emergesse sull’Altopiano armeno.
Il blocco del Corridoio di Lachin
Le autorità azere diffondono regolarmente messaggi anti-armeni, esortando «il popolo armeno a chiudere la pagina del Nagorno-Karabakh» e presentando il revanscismo turco-azero come una vittoria definitiva. Ma una vittoria per chi? Per i regimi dittatoriali, naturalmente, regimi che soffocano la democrazia e si pongono come eredi delle pratiche genocidarie dell’Impero Ottomano, perpetrate fino agli anni ’90 a Baku, Sumgayit e Maragha, e culminate nella completa dearmenizzazione dell’Artsakh.
Questo è un caso esemplare di genocidio, sottolineato dal blocco totale del Corridoio di Lachin durato nove mesi, imposto per affamare la popolazione armena e costringerla all’esodo nel settembre 2023.
Il vino armeno diventa azero
Archiviata l’oscena vicenda della mostra al Colosseo, allestita dalla Turchia, in cui l’Armenia veniva cancellata dalla mappa, ora sono i turchi del Caspio (l’Azerbaigian) a diventare protagonisti di un nuovo caso di appropriazione culturale. Alla Slow Wine Fair di Bologna, appena conclusa, uno stand di Baku ha esposto vini armeni dell’Artsakh ribattezzati come azeri, proseguendo così una sistematica opera di falsificazione e distorsione della realtà. Emblematico è il caso del vino Khindogni, il cui nome indica la sua origine armena: la radice “խինդ” (“khind”), che in armeno significa “gioia”, sfida apertamente il tentativo di riscrittura storica portato avanti dai promotori di questa operazione.
Ma forse ancora più paradossale è l’ambizione dell’Azerbaigian, paese a maggioranza musulmana, che ha orchestrato pogrom e operazioni di pulizia etnica contro gli armeni su tutto il territorio che occupa, di presentarsi come il custode di tradizioni e simboli cristiani e di vantarsi di un’antica civiltà vinicola.
Gli “eroi” dell’Azerbaigian
L’Azerbaigian di oggi risulta, purtroppo, un buco nero dove i filantropi e i combattenti per la libertà vengono incarcerati, i rappresentanti dei media e voci fuori dal coro perseguitati, invece gli assassini razzisti come Ramil Safarov si guadagnano l’alloro di “eroi nazionali”.
La dinastia di Aliyev, alla guida del regime burattino della Turchia di Erdogan e della Russia di Putin, continua a soffocare il diritto del popolo armeno all’autodeterminazione e alla democrazia. È fondamentale sottolineare come una semplice giustapposizione dei fatti riveli la vera natura di questi regimi: non sono altro che una giunta profondamente radicata nei sistemi oligarchici locali, con diversi tentacoli internazionali, e tutt’altro che estranei a scandali di portata globale.
Basti pensare all’ex ambasciatore azero nel Regno Unito, recentemente accusato di aver aggredito sessualmente tre membri dello staff di una clinica di riabilitazione o al cugino del presidente Ilham Aliyev, temporaneamente detenuto in Grecia con l’accusa di traffico di droga.
Questi sono gli standard morali ed etici di un regime che cerca di opprimere gli armeni, non limitandosi alla conquista di un’intera regione armena, l’Artsakh, in violazione degli accordi raggiunti sotto il Gruppo di Minsk, l’unico organismo internazionale con il mandato di risolvere il conflitto.