Siamo preoccupati per la protezione dei beni culturali armeni sotto l’occupazione azera-turca nell’Artsakh. L’Azerbajgian è già inadempiente (Korazym 22.12.20)
Da oltre un mese si moltiplicano gli appelli all’UNESCO perché faccia sentire forte la sua voce e intervenga per la protezione dei beni culturali armeni in Nagorno-Karabakh/Artsakh. Apparentemente potrebbe sembrare solo una questione di supremazia territoriale da parte azera: vincono la guerra e distruggono tutto ciò che rappresenta il nemico. In realtà c’è una ideologia di fondo, la stessa che ha portato i turchi a cancellare le tracce armene nell’Armenia storica. Poichè la narrazione azera è che nella regione gli Armeni sono arrivati solo da poco. Ecco che cercano di eliminare tutto ciò che possa riferirsi alla civiltà armena ed essere datato più indietro nei secoli. Hanno provato far passare le chiese e i monasteri armeni come appartenenti al popolo degli albani del Caucaso ma con scarso successo; hanno distrutto migliaia di katchkar a Julfa. Ecco perché gli Azeri sono pericolosi.
Da oltre un mese l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura è in attesa, nonostante ripetuti contatti, che Baku dia il suo consenso a una missione nel territorio dell’Artsakh ora sotto suo controllo. L’UNESCO sta aspettando una risposta dall’Azerbaigian. Che non arriva.
In un comunicato stampa del 20 novembre scorso, l’UNESCO (di cui sia l’Armenia che l’Azerbajgian sono parti contraenti) aveva ribadito l’obbligo dei Paesi di proteggere il patrimonio culturale ai sensi della Convenzione del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato. L’Organizzazione aveva proposto di svolgere una missione indipendente di esperti per redigere un inventario preliminare dei beni culturali significativi come primo passo verso l’effettiva salvaguardia del patrimonio della regione.
La proposta ha ricevuto il pieno sostegno dei copresidenti del Gruppo di Minsk e l’accordo di principio dei rappresentanti sia dell’Armenia che dell’Azerbajgian.
Riunitisi all’UNESCO il 10 e 11 dicembre 2020, anche i membri del Comitato intergovernativo della Convenzione dell’Aia del 1954 per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato e del suo secondo protocollo (1999), hanno accolto con favore questa iniziativa e hanno confermato la necessità di una missione per fare il punto della situazione dei beni culturali nel Nagorno-Karabakh e nelle aree circostanti. Il Comitato ha chiesto a ciascuna delle parti di rendere possibile la missione.
Dal 20 novembre, l’UNESCO ha presentato proposte e condotto consultazioni approfondite per organizzare la missione che, ai sensi della Convenzione, richiede l’accordo di entrambe le parti.
Ernesto Ottone Ramirez, Assistente del Direttore Generale dell’UNESCO per la Cultura, ha dichiarato: “Solo la risposta dell’Azerbajgian è ancora attesa perché l’UNESCO proceda con l’invio di una missione sul campo. Le autorità dell’Azerbajgian sono state contattate più volte senza successo finora. Ogni settimana che passa rende più difficile la valutazione della situazione dei beni culturali, anche a causa del tempo che si prevede diventerà più rigido nelle prossime settimane. La finestra di opportunità aperta dal cessato il fuoco non deve essere chiusa di nuovo. La salvaguardia del patrimonio è una condizione importante per l’instaurazione di una pace duratura. Ci aspettiamo quindi che Baku risponda senza indugio, in modo che le discussioni costruttive delle ultime settimane possano essere trasformate in azione”.
Questo atteggiamento da parte dell’Azerbajgian non deve certo stupire. Sin dal primo giorno di tregua gli Azeri hanno impostato una narrazione tendente a dearmenizzare il patrimonio culturale della regione.
Il ritardo nell’autorizzazione alla missione degli esperti dell’UNESCO ha evidentemente un duplice scopo: da un lato eliminare fisicamente tutto ciò che può essere distrutto: katchkhar (croci di pietra armeni medioevali), inscrizioni in armeno, inserti architettonici, monumenti; dall’altro alterare il patrimonio più importante cercando di eliminare le peculiarità distintive armene anche attraverso disonesti interventi di restauro.
A oltre quaranta giorni dal cessato il fuoco non sappiamo che fine abbiano fatto le migliaia di reperti armeni esistenti nelle regioni ora occupate dagli Azeri-Turchi. Il precedente delle chiese e monasteri nel Nakhchivan o delle migliaia di katchkhar distrutte dai soldati di Aliyev non è un bel precedente.
Cresce dunque la preoccupazione che nuovi atti di inciviltà colpiscano il patrimonio culturale armeno dell’Artsakh. Occorre vigilare e denunciare.
Ringraziamo per le informazioni l’Iniziativa italiana per il Karabakh, un gruppo di studio, attivo dal novembre 2010, che ha l’obiettivo di far conoscere all’opinione pubblica italiana la Repubblica armena del Nagorno-Karabakh/Artsakh, la sua storia, la sua cultura, il suo territorio. Ma soprattutto il suo diritto all’autodeterminazione ed i principi giuridici e politici che ne sono alla base.
Attraverso la comunicazione l’Iniziativa italiana per il Karabakh si adopera a far giungere anche alla opinione pubblica italiana la voce della Repubblica di Artsakh e dare una mano alla sua gente affinché i propri diritti vengano riconosciuti.
È un dovere morale per ogni europeo stare dalla parte della Repubblica di Artsakh: per l’Europa dei piccoli popoli, per una democrazia costruita dal basso e partecipata, contro la guerra e per un futuro di pace.
L’attività dell’Iniziativa italiana per il Karabakh si articola sul piano dell’informazione (diffusione di notizie sulla Repubblica del Nagorno Karabakh/Artsakh), su quello della formazione (produzione di materiale storico, politico e giuridico) e della progettualità (articolazione di iniziative di sostegno).
L’Iniziativa italiana per il Karabakh – che non ama l’ipocrisia della politica ed in particolare di quella internazionale – guarda al Nagorno-Karabakh/Artsakh come ad un esempio: positivo per il coraggio e la voglia di risorgere dimostrati dopo decenni di sottomissione ed alcuni anni di guerra imposta; negativo per come le diplomazie del mondo cercano di nascondere la realtà delle cose e di indebolire il diritto del Karabakh solo per proteggere i propri interessi petroliferi in Azerbajgian.
Artsakh, una piccola terra abitata da un grande popolo
Il Nagorno-Karabakh, l’antico armeno Artsakh, ha sempre lottato per il proprio sacrosanto diritto all’autodeterminazione. Annesso per scellerate scelte politiche staliniane all’Azerbajgian, costretto alla sottomissione da un dominatore diverso per etnia, cultura, lingua e religione, spinto infine a ricercare la libertà attraverso una lotta lunga e piena di sacrifici.
Sono testardi gli Armeni dell’Artsakh. Forse si piegano ma di sicuro non si spezzano; sanno soffrire e reagire, arroccati in mezzo alle loro montagne verdi. Hanno conquistato democraticamente e legalmente il diritto all’autodeterminazione. Sono stati aggrediti, hanno combattuto ed hanno vinto. Ora sono un popolo libero che però attende ancora giustizia.
La comunità internazionale così solerte ad accorrere in difesa ora di questo ora di quell’altro popolo (specie quando c’è di mezzo il petrolio o qualche importante interesse diplomatico) sembra poco attenta alle vicende dell’Artsakh. Come per il genocidio armeno del 1915, le grandi potenze fanno finta di non vedere. Conoscono, comprendono, le ragioni del Nagorno-Karabakh, ma ad esse antepongono altri interessi, prevalentemente economici. Così, quella guerra interrotta nel 1994 con il cessato il fuoco, ricominciato con l’aggressione azera-turca del 2020 e interrotto con il altro cessato il fuoco imposto dalla Russia, non ha ancora avuto il suggello di un definitivo trattato di pace.
Il Nagorno-Karabakh nel frattempo è divenuto una repubblica salda, con proprie efficienti istituzioni politiche ed amministrative, e dove si svolgono libere e democratiche elezioni. Gli Armeni del Nagorno-Karabakh sono più europei di tanti altri europei e guardano all’Europa come un esempio da seguire. Per questo il loro sforzo di sviluppare le istituzioni secondo i valori del vecchio continente merita attenzione ed aiuto. E noi, come europei e italiani, dobbiamo stare dalla loro parte, per non trasformare ancora una volta il Caucaso in un campo di battaglia solo per proteggere qualche interesse petrolifero.