Shushan Avagyan, storia di vite armene rimosse (Il Manifesto 27.10.24)

Pur avendo trascorso un lungo periodo della sua vita negli Stati uniti, Shushan Avagyan è rimasta fedele alla lingua delle sue origini, il dialetto armeno orientale. La casa editrice Utopia annuncia la pubblicazione di alcune delle sue opere in italiano, e comincia da Libro senza nome (pp. 160, € 18,00), romanzo-saggio del 2006, uscito originariamente in forma di samizdat e tradotto da Minas Lourian, direttore del Centro studi e documentazione della cultura armena a Venezia, mentre la prefazione del volume, dall’inglese, è firmata da Deanna Cachoian-Schanz.

Fra queste pagine, una dattilografa-scrittrice (in cui forse si identifica il profilo dell’autrice) discute con una amica del progetto che la appassiona, in un caffè della capitale: ricostruire la vita di due autrici armene, ostacolate dalla storia e dalla tradizione del loro paese. Comincia così il racconto della vita di Shushanik Kurghinian, di cui Avagyan ha tradotto le liriche in inglese, poeta che ai diritti delle donne in una società arretrata ha dedicato gran parte della sua opera.

Ricercata dalla polizia zarista, fu costretta alla fuga dall’Armenia con i figli, e tornò nel 1921 su invito del presidente della repubblica socialista. Le sue poesie irritarono anche il mondo comunista, che valorizzò, in epoca sovietica, solo il nucleo dei testi dedicati alla classe operaia.

L’altra donna raccontata in Libro senza nome è Zabel Yesayan, narratrice in prosa, traduttrice e insegnante a Istanbul, città da cui dovette fuggire al momento della persecuzione degli armeni. Ebbe una vita non meno avventurosa di Kurghinian: fu a lungo a Parigi, fino al ritorno nel 1933 nel suo paese, dove fu arrestata per nazionalismo nel 1937 e deportata. La sua morte è collocata nel 1943, ma la data non è certa.

La suggestione attorno alla quale ruota il romanzo prevede un incontro delle due scrittrici nella capitale armena nel 1926. L’andamento narrativo si alterna a passaggi di interrogazione sulla forma e sulla struttura del racconto. Nel capitolo undicesimo, dal titolo «È lei, dicono, la poeta», trova spazio una riflessione che non sta nel flusso della storia, ma che prelude a tutta la ricerca: «nell’ideologia socialista si annientavano tutte le differenze, anche quelle di genere. Di conseguenza, tutte le discussioni sulle peculiarità dell’esperienza femminile furono criticate e ridotte al silenzio». Libro senza nome dà voce a figure a lungo rimosse, assecondando la propensione a illuminare un paesaggio culturale complesso, stretto fra l’Armenia del passato e quella del presente.

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