Sergio Romano e Il Genocidio
Sul corriere della sera del 28 dicembre Sergio Romano rispondendo a due lettori che intervenivano a proposito della legge francese sul negazionismo, evocava la libertà di pensiero e nella sua risposta faceva proprie una serie di “tesi negazioniste” del Governo di Ankara.
Ne nostro intento di Vigilare contro il negazionismo la superficialità e l’ignoranza ci siamo sentiti nel dovere di non tacere anche in difesa della memoria del milione e mezzo dei martiri armeni vittime del genocidio del 1915.
Di seguito trovate le missive dei due lettori la risposta di Sergio Romano e la lettera da noi trasmessa.
RISPONDE SERGIO ROMANO
Condannare il negazionismo ma no alla storia di stato
Plaudo al recente pronunciamento dell’ Assemblea nazionale francese che così riconosce ufficialmente il genocidio degli armeni del 1915-17. Ritengo che la Turchia debba finalmente ammettere, in qualche modo, quello che allora avvenne: un mio amico americano, figlio di immigrati armeni scampati al massacro, anni fa mi raccontò la vastità e l’ atrocità dei crimini che vennero compiuti dai turchi contro quel popolo.
Roberto Macchia , Livorno
Il genocidio degli armeni è riconosciuto come tale dall’ Onu, dalla Unione Europea e da diversi Paesi nel mondo. Chiedere alla Turchia di riconciliarsi con il suo passato è un atto dovuto: parere non solo degli armeni ma anche di storici di fama internazionale, di innumerevoli persone ben informate e anche di un numero crescente di intellettuali turchi. Mi chiedo perché alcuni lo ritengano «non indispensabile». Oltre al «politically correct», dobbiamo forse piegarci anche all’ «economically correct» a scapito della verità? La linea tra convenienza ed etica, già assottigliata all’ inverosimile, la vogliamo davvero cancellare del tutto? Mary Avakian, Taranto
Cari lettori, Non credo che gli Stati e i parlamenti democratici, abbiano il compito di scrivere la storia e di fissare per legge le date fauste e infauste del calendario nazionale e internazionale. Là dove questo accade lo Stato è «etico», vale a dire una cattedra morale autorizzata a proclamare dogmi e a impartire precetti. Oggi scrive una sorta di bolla pontificia sui massacri armeni del 1915. Domani proclamerà altri dogmi a cui i sudditi fedeli dovranno piegarsi. È questo lo Stato in cui desideriamo vivere? La condanna del «negazionismo» diventa a questo punto inevitabile. Se il giudizio su un evento storico è legge dello Stato, non è permesso avere dubbi, proporre interpretazioni diverse, invocare circostanze che ai sacerdoti del dogma sembreranno inammissibili giustificazioni. Avrò ancora il diritto di sostenere (come lo storico angloamericano Bernard Lewis di fronte a un tribunale francese qualche anno fa) che l’ espressione genocidio è impropria e che «massacri» definisce meglio il trattamento di cui gli armeni turchi furono vittime nel 1915? Potrò ricordare che gli armeni delle maggiori città turche non vennero colpiti dai provvedimenti di espulsione? Avrò ancora il diritto di collegare quegli avvenimenti a una guerra in cui le comunità armene dell’ Anatolia erano percepite, con qualche buona ragione, come la quinta colonna dell’ impero zarista? Sarò autorizzato a suggerire che la legge approvata dall’ Assemblea nazionale francese risponde soprattutto alle esigenze elettorali di un presidente a caccia di voti per una elezione che si annuncia particolarmente difficile? Potrò dire a un armeno che se fossi al suo posto non proverei dopo questo voto alcuna soddisfazione? Il pensiero liberale si è battuto per secoli contro il delitto di opinione, la caccia alle streghe, il rogo degli eretici e dei loro libri. Dovrei applaudire una legge che ripristina il concetto di eresia e mi impedisce di ragionare, discutere, argomentare?
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Romano Sergio
Pagina 39
(28 dicembre 2011) – Corriere della Sera
Egr. dr. Romano,
Ci permetta, nel nome della libertà di opinione da lei invocata, di commentare la sua risposta ai lettori che ricordavano positivamente la recente legge francese richiamata a proposito del Genocidio armeno del 1915. Le dobbiamo dare atto che la sua posizione non è nuova, dal momento che si espresse in termini analoghi anche a proposito del processo intentato a David Irving accusato di negazionismo dell’Olocausto. Questo però non ci esime dal censurare talune sue valutazioni storiche su questi tragici eventi di quasi un secolo or sono che ci pare abbia sottovalutato: non corrisponde infatti al vero che gli armeni residenti nelle grandi città dell’Impero Ottomano furono risparmiati dalla morte e dalla deportazione atteso che degli oltre due milioni stimati residenti all’epoca in quel territorio ne rimasero solo poche decine di migliaia quasi tutti a Costantinopoli. Possiamo disquisire a lungo sul termine (ricordando che quello di «genocidio» fu coniato dal giurista ebreo polacco Lemkin prendendo a spunto proprio dalla persecuzione contro gli armeni) ma francamente riteniamo che l’eliminazione di tre quarti della popolazione (e la cacciata dalla terra natale) sia qualcosa di più di un semplice «massacro». Ma a prescindere da qualsiasi appellativo, avremmo molto piacere che taluni ragionamenti accademici ed etici si concludessero con una netta condanna di quei fatti (comunque li si voglia chiamare) e con un perentorio invito alla Turchia a riconoscere che a danno degli armeni avvennero terribili persecuzioni ad oggi ancora impunite. Fin tanto che lei continuerà a disquisire unicamente circa il pensiero liberale ed il delitto di opinione, senza alcuna ferma e decisa condanna per coloro che ancora oggi continuano a sostenere che non accadde nulla o che minimizzano quei tragici eventi, allora proprio nel nome della libertà di pensiero, ci sarà permesso, da armeni, poterla classificare tra i negazionisti della storia?
Robert Attarian
Portavoce Consiglio per la comunità armena di Roma
Risposta di Sergio Romano Cds 13.01.2012
Caro Attarian, Dietro la distinzione fra massacri e genocidio vi è un importante dibattito storico. I quesiti a cui gli studiosi cercano di rispondere sono sostanzialmente questi. Furono le stragi provocate dalla guerra e da quella combinazione di aggressività e insicurezza che dominava allora l’Impero ottomano? Oppure fu la guerra progettata dal Cup (i giovani turchi del Comitato Unione e Progresso) per liquidare, una volta per tutte, la questione armena? I sostenitori della prima tesi parlano generalmente di massacri, i sostenitori della seconda preferiscono genocidio. Suppongo che lei conosca l’ottimo studio di Marcello Flores («Il genocidio degli armeni», Il Mulino 2006) in cui il lettore troverà su questa materia un’utile documentazione. Potremo continuare a discutere del problema se la prima delle due tesi correrà il rischio di essere considerata implicitamente negazionista?
Non credevo, caro Attarian, che ogni critica della legge francese dovesse comportare, a titolo di pedaggio, il riconoscimento degli orrori di cui la Turchia fu responsabile nel 1915. Sulla dimensione dei massacri esiste una sterminata documentazione, anche fotografica. Conosciamo il risultato della commissione britannica presieduta da Robert Bryce e il rapporto del giovane Arnold Toynbee. Conosciamo le memorie e gli articoli dell’ambasciatore americano Henry Morgenthau, i dispacci dei consoli delle potenze neutrali, le relazioni dei sacerdoti cristiani, le voci dei tedeschi che osarono dissentire della posizione reticente del generale Liman von Sanders, comandante delle forze germaniche in Turchia. Devo ricordare tutto questo per avere il diritto di sostenere che la parola genocidio è impropria e che il parlamento francese dovrebbe occuparsi di altri problemi? Aggiungo che soltanto criticando la legge francese abbiamo il diritto di criticare le leggi turche che mandano in galera chiunque osi affermare l’esistenza del genocidio. Fra le proibizioni francesi e quelle turche non vi è, sul piano dei principi, alcuna differenza.
Altri contributi
Gentile Direttore
Il 28 dicembre 2011 sul Corriere della sera Sergio Romano critica la scelta della Francia di punire i negazionisti del genocidio armeno rivendicando la libertà di opinione e negando la giustezza del termine genocidio per gli armeni in quanto, secondo lui, si trattò solo di un massacro.
Riguardo quest’ultima gravissima inesattezza, ha già risposto la comunità armena di Roma ricordandogli che 2 milioni di armeni che hanno smesso di esistere in Anatolia sono troppi per parlare solo di massacro, tenendo conto anche del fatto che quelle terre da allora di armeni ne sono totalmente prive.
Nella risposta ai lettori, Sergio Romano insinua addirittura che in qualche modo gli armeni si siano “meritati” questa punizione essendo alleati della Russia, insomma, traditori. Nessuno però sottolinea il fatto che gli armeni in Turchia, privi di qualunque diritto e sottoposti continuamente a massacri e umiliazioni in quanto cristiani, non abbaiano fatto altro che combattere per la propria libertà. Chi non desidera la libertà dopo secoli di soprusi e ingiustizie sulla propria terra? Ricordiamolo, quella terra si chiamava e si chiama Armenia, anche se inglobata nell’Impero Ottomano. Qualcuno critica forse il risorgimento italiano, Mazzini o Garibaldi perché lottarono contro l’invasore straniero? Qualcuno forse biasima Cavour per aver cercato l’alleanza francese? Perché gli armeni, che hanno preso le armi contro i loro crudelissimi nemici per riconquistare la propria terra, devono essere chiamati semplicemente ribelli e non patrioti o partigiani?
Il negazionismo turco è un fatto grave, molto grave Signor Romano, criticato anche da alcuni storici turchi come Akcam (che paga con una condanna in contumacia la sua “libertà di espressione”). La Turchia non ha mai ammesso il proprio crimine e questo è il fatto più grave. A chi tira in ballo la Germania bisogna sempre ricordare che il cancelliere Willy Brandt dopo la seconda guerra mondiale si inginocchiò davanti alle tombe degli ebrei a Varsavia e recitò il salmo del perdono a Gerusalemme. Ben diverso da una Turchia che ancora oggi punisce chi osi affermare che un genocidio armeno ci sia stato.
Concludo ricordando al Signor Romano, che chi nega un crimine uccide due volte.
Barbara Najarian
GLI STORICI E LA LEGGE GAYSSOT. Sono i negazionisti che ostacolano la ricerca sul genocidio armeno. Corriere della Sera 08.01.2012
Di Levy Bernard Henri
La legge votata prima di Natale, che fa del negazionismo un vero e proprio reato, non è una legge che dovrà scrivere la Storia al posto degli storici. Proprio perché questa Storia è già stata detta, scritta e appurata da moltissimo tempo. Da sempre si sa che gli armeni sono stati vittima, a partire dal 1915, di una campagna sistematica di sterminio: sull’ argomento si è sviluppata un’ abbondante letteratura, basata in particolare sulle confessioni rilasciate nell’ immediato dagli stessi criminali turchi, seguendo l’ esempio di Hodja Ilyas Sami. Di conseguenza, da Yehuda Bauer a Raul Hilberg, ricercatori dello Yad Vashem, fino a Yves Ternon e altri, non si conoscono storici seri che possano mettere in dubbio o negare questa realtà. La legge allo studio in Francia, in altre parole, non mira affatto a stabilire una verità di Stato. Nessuno dei deputati che l’ hanno votata pretende di sostituirsi agli storici e alla loro opera. I parlamentari francesi favorevoli alla legge vogliono semplicemente difendere il diritto di ciascuno a non essere offeso pubblicamente, e il diritto che ne consegue, cioè quello di chiedere riparazione per l’ offesa particolarmente crudele che è l’ offesa alla memoria dei morti. È una questione di diritto, non di Storia. Presentare questa legge come una legge liberticida, che rischia di ostacolare il lavoro degli storici, è un altro argomento bizzarro, che lascia sconcertati. Sono piuttosto i negazionisti coloro i quali intralciano il lavoro degli storici. Sono le loro fandonie, follie, losche manovre, sono le loro menzogne vertiginose e terrificanti a far tremare le fondamenta dove dovrebbe, per principio, posare la scienza. Ed è proprio questa legge che, nel sanzionarli, complicando alquanto la loro opera – e soprattutto avvertendo il pubblico che ha a che fare non con veri studiosi, bensì con una genia di propagandisti che mirano a infiammare le menti – protegge la Storia e la mette al riparo da pericolosi attentati. Esiste forse qualche storico che la legge Gayssot abbia ostacolato nelle ricerche sulla Shoah? Qual è l’ autore che, in buona fede, possa lamentarsi che tale legge abbia limitato la sua libertà di ricerca e di indagine? Non è forse lampante che i soli ad aver riscontrato serio imbarazzo siano stati i Faurisson, gli Irving e altri Le Pen? Stessa identica cosa per il genocidio degli armeni. Questa legge, non appena verrà ratificata dal Senato, offrirà invece un’ ottima occasione agli storici, che potranno finalmente lavorare in pace. A meno che… a meno che gli avversari della legge non covino qualche fine recondito assai più subdolo: che si voglia evitare una conclusione affrettata, come quella di «genocidio», anche a distanza di quasi un secolo… Non ci sono, è questa la domanda sollevata da taluni, altre vie, oltre alla legge, per scoraggiare i «criminali della carta stampata»? E la verità non dispone di per se stessa, nella sua trasparenza e nel suo rigore, dei mezzi più opportuni per difendersi e per trionfare su coloro che la negano? Il dibattito è vastissimo, su questo argomento si discute sin dalla nascita della filosofia. Nel nostro caso si intromette un parametro specifico che, nel dubbio, ci spinge ad assicurarci il rinforzo della legge. Questo parametro è il negazionismo dello Stato turco. E la specificità sta nel fatto che i negazionisti, in Turchia, non sono degli sprovveduti, bensì personaggi capaci di far leva su molteplici risorse, sulla diplomazia, e infine anche sulle occasioni di ricatto e di ritorsione di cui dispone uno Stato potente. Immaginiamo soltanto in che situazione si sarebbero trovati i superstiti della Shoah se la Germania, al termine della Seconda guerra mondiale, avesse optato per il negazionismo. Immaginiamo gli abissi di disperazione e di rabbia in cui sarebbero precipitati se avessero avuto a che fare non con qualche isolato babbeo, ma con una Germania impenitente che avesse fatto pressione sui suoi partner commerciali, minacciandoli di fuoco e fiamme se avessero osato definire genocidio lo sterminio degli ebrei perpetrato ad Auschwitz. Mutatis mutandis, è la medesima situazione degli armeni. Ed è anche per questo che gli armeni hanno diritto a essere tutelati dalla legge. E infine vorrei aggiungere che bisogna smetterla di mescolare ogni cosa e di soffocare il dolore armeno nelle chiacchiere di rito che vogliono screditare le «leggi della memoria». Perché non si tratta in questo caso di una «legge della memoria»: non siamo davanti a una di quelle pericolose forzature che minacciano di spianare la strada a decine, a centinaia di regolamenti assurdi o infami che codificano quello che si può o non si può dire sul massacro di Saint-Barthélemy, sul senso della colonizzazione e della schiavitù, sul disagio occitano, sul reato di bestemmia, e via enumerando. Questa è una legge sul genocidio: nulla a che vedere con gli altri casi. È una legge per colpire coloro i quali, tramite la negazione, ripetono e tramandano il crimine del genocidio. Di genocidi, grazie a Dio, non se ne contano a centinaia, e nemmeno a decine. Ne sono stati accertati tre. Quattro, se agli armeni, agli ebrei, ai ruandesi si aggiungono i cambogiani. E mettere questi tre o quattro genocidi sullo stesso piatto, assieme a tutto il resto, temere che il loro sanzionamento diventi l’ anticamera di un «politically correct» che autorizzi una sfilza di leggi inutili o perverse sugli aspetti più controversi della nostra memoria nazionale, dire «attenzione! Si rischia di aprire una scatola di Pandora, non si sa che cosa ne potrebbe saltar fuori!» rappresenta l’ ennesima sciocchezza, e per di più ridicola, quasi a voler coprire altre infamie con il sigillo della malafede. Combattiamo queste argomentazioni speciose con la saggezza dei nostri rappresentanti nazionali. E che i senatori vadano fino in fondo nella ratifica del provvedimento, senza lasciarsi intimidire da un pugno di storici.
Traduzione di Rita Baldassarre RIPRODUZIONE RISERVATA
Pagina 32 (8 gennaio 2012) – Corriere della Sera