Ruanda, Armenia, Bosnia: i genocidi sono una cosa, le guerre d’aggressione, un’altra. Vademecum per Zelensky e Putin (Globalist 27.03.22)
Ruanda, Armenia, Cambogia, Siria, Cecenia, Kurdistan iracheno, Rojava curdo-siriano, Bosnia. E il fascismo italiano in Etiopia, Eritrea, Libia. Non c’è bisogno di ricordare l’Olocausto o cianciare su un “nuovo Hitler” insediato al Cremlino, per denunciare crimini contro l’umanità e criminali di guerra.
GENOCIDIO. Un crimine che ha insanguinato la storia, marchiato i quattro angoli del pianeta.
Sia chiaro: quella che si sta combattendo in Ucraina è una guerra d’aggressione, nella quale è chiaro chi sia l’invasore e chi sta resistendo all’aggressione. Per questo non c’è bisogno, anzi è fuori luogo, il ripetere da parte del presidente Zelensky che contro il popolo ucraino si sta portando avanti, da parte del “nuovo Hitler” del Cremlino, la “soluzione finale”, arrivando, lui ebreo, a tirare in ballo la Shoah. Non c’è bisogno di queste forzature storiche, di paragoni imparagonabili, per dire della gravità di ciò che gli ucraini stanno subendo.
Ma il GENOCIDIO è altra cosa dall’Aggressione. E’ voler cancellare dalla faccia della terra un popolo, una etnia, colpevole di esistere. Semplicemente di esistere. E questo crimine investe anche noi. Noi Europa, noi Occidente. Chiunque abbia esercitato un potere coloniale: Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda, Portogallo. E sì, anche l’Italia. GENOCIDIOè quello condotto dalla Cina contro la minoranza uiguri. E’ quello dei turchi contro gli armeni. “Scarafaggi”. “Esseri inferiori”…La memoria storica non può, non deve essere selettiva. Manipolata a seconda di tornaconti politici, interessi economici più o meno inconfessati o inconfessabili. Decine e decine di milioni di esseri umani perseguitati, trucidati semplicemente perché esistevano.
GENOCIDIO è quello del Ruanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia dell’umanità del XX°secolo. Secondo le stime di Human Rights Watch, dal 7 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, in Ruanda vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete, pangas e bastoni chiodati), almeno 500.000 persone; le stime sul numero delle vittime sono tuttavia cresciute fino a raggiungere cifre dell’ordine di circa 800.000 o 1.000.000 di persone.
Le vittime furono prevalentemente di etnia Tuts, corrispondenti a circa il 20% della popolazione, ma le violenze finirono per coinvolgere anche Hutu moderati appartenenti alla maggioranza del paese. L’odio interetnico fra Hutu e Tutsi, molto diffuso nonostante la comune fede cristiana, costituì la radice scatenante del conflitto, pur se l’idea di una differenza di carattere razziale fra queste due etnie è estranea alla storia ruandese e rappresenta semmai uno dei lasciti più controversi del retaggio coloniale belga. Fu infatti l’amministrazione coloniale del Belgio che, a partire dal 1926, trasformò quella che infatti era una semplice differenziazione socio-economica (gli Hutu erano agricoltori, i Tutsi allevatori; e gli scambi e i matrimoni misti fra i due gruppi erano comuni) in una differenza razziale basata sull’osservazione dell’aspetto fisico degli individui.
GENOCIDIO. E’ quello degli armeni.
“Aksor! Gridavano le donne. Questa parola – deportazione – suscitò in mia madre un urlo di disperazione. Lei sapeva”. Era il luglio del 1915 e a ricordare è Varvar, che allora aveva 6 anni e che in seguito raccontò alla figlia, giornalista e scrittrice, la sua storia di sopravvissuta al genocidio degli armeni. Una tragedia e un crimine contro l’umanità che fino al 1973 il mondo ha finto di ignorare. Solamente allora, infatti, la Commissione dell’Onu per i diritti umani ha riconosciuto ufficialmente lo sterminio di circa 1 milione e mezzo di armeni – da parte dell’Impero ottomano – come il primo genocidio del XX secolo.
Gli armeni divennero agli occhi degli ottomani una minaccia esistenziale, e tra il marzo e l’aprile del 1915 si delineò l’intenzione sistematica di eliminarli dal territorio dell’impero.
Gli intellettuali e i mercanti armeni nelle grandi città dell’impero, come Istanbul e Smirne, furono arrestati e in gran parte uccisi, ma il vero genocidio si compì nell’Anatolia orientale. Gli attacchi dell’esercito ottomano contro la popolazione armena e le persecuzioni sistematiche furono atroci. Alcune comunità armene cercarono di opporre resistenza, come quella della provincia di Van, sul lago omonimo, ma fu in gran parte inutile: quando le forze russe conquistarono Van, trovarono 55 mila cadaveri di armeni.
L’impero ottomano cominciò inoltre un vasto programma di deportazioni di massa: anziani, donne e bambini furono costretti a lasciare le loro case e a percorrere centinaia di chilometri a piedi per poi essere rinchiusi in decine di campi di concentramento nel deserto della Siria: la maggior parte dei prigionieri fu giustiziata o morì di stenti, di fame e di malattie.
La gran parte del genocidio degli armeni si compì nel giro di un anno, tra il 1915 e il 1916, ma i massacri continuarono anche per gran parte degli anni Venti.
Dei 2,5 milioni di armeni che si trovavano nell’impero ottomano all’inizio del secolo il 90 per cento fu ucciso o deportato fuori dall’impero. Si stima che alla fine del genocidio circa un milione di armeni morì per mano degli ottomani. Alcune centinaia di migliaia di donne e bambini furono costretti a convertirsi all’Islam e furono adottati da famiglie turche, mentre moltissimi altri armeni fuggirono, creando una diaspora che ancora oggi è forte in molti paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti.
“Italiani, brava gente”.
E poi noi, noi Italia. Nelle scuole superiori dovrebbe essere adottato un libro straordinario, scritto da una persona straordinaria qual è stato Angel Del Boca, lo storico del colonialismo italiano, scomparso. Il libro s’intitola I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra di Etiopia (Editori Riuniti).
Oltre trentamila civili etiopi uccisi, quasi tutti civili, molte donne, bambini, moltissimi mendicanti. In gran parte bruciati vivi, impiccati, ammazzati di botte, fucilati davanti alle loro case o in strada in virtù di una presunta superiorità razziale italiana e della cieca volontà di dominio di Benito Mussolini. Anche l’Etiopia ha le sue “giornate della memoria”, a ricordo del cosiddetto massacro di Addis Abeba del 19, 20 e 21 febbraio del 1937, una strage commessa durante il periodo dell’occupazione da parte dell’Italia fascista (1935-1941).
Tra il 19 e il 21 febbraio del ’37, centinaia di civili italiani, militari del Regio Esercito e squadre fasciste diedero vita a una spietata rappresaglia dopo un attentato commesso dai partigiani etiopi contro il viceré Rodolfo Graziani ed altri ufficiali del suo seguito, gerarchi fascisti negli anni precedenti non aveva esitato a fare della popolazione etiope “carne da macello”, anche riversando – su ordine proprio di Graziani – tonnellate e tonnellate di agenti chimici, come le bombe all’iprite vietate dalle convenzioni internazionali. Contro quel massacro combattevano i patrioti etiopi. Due eritrei della resistenza etiope la mattina del 19 febbraio lanciarono delle bombe a mano nel palazzo Guennet Leul di Addis Abeba causando la morte di sette persone e il ferimento di una cinquanta di presenti, tra cui Graziani, i generali Aurelio Liotta e Italo Gariboldi, il vice-governatore Armando Petretti e il governatore della capitale Alfredo Siniscalchi.
La risposta del regime fascista fu brutale. In meno di tre giorni le strade di Addis Abeba vennero prese d’assalto da squadracce fasciste: militari italiani armati di tutto punto e moltissimi civili scesero in strada dando vita a quella che Antonio Dordoni, un testimone, definì “una forsennata caccia al moro”. “In genere – si legge nel libro dello storico Angelo Del Boca – davano fuoco ai tucul con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi”. Alla rappresaglia presero parte non solo i soldati italiani ma, in un clima di assoluta impunità, anche commercianti, autisti, funzionari e persone comuni che si macchiarono di violenze di ogni tipo. Gli etiopi che malauguratamente portavano addosso anche solo un coltello, venivano uccisi sul posto; in migliaia furono arrestati e torturati senza alcuna ragione, senza nessuna prova a loro carico. La ritorsione fu particolarmente feroce negli agglomerati di tucul lungo i torrenti Ghenfilè e Ghilifalign, che attraversano Addis Abeba da nord a sud. “Per ogni abissino in vista – scriveva Del Boca – non ci fu scampo in quei terribili tre giorni ad Addis Abeba, città di africani dove per un pezzo non si vide più un africano”. I corpi di migliaia di civili etiopi vennero gettati in fosse comuni: alla fine si contarono oltre 30mila vittime, tutte innocenti, tutte etiopi.
Per non dimenticare. Per non auto-assolverci. E per poter superare, ciascuno di noi, la “prova dello specchio”. Guardarsi in faccia e non provare vergogna.