REPORTAGE| Come si ricrea un paese di Nerd, la svolta dell’educazione in Armenia (Dire.it 25.09.19)
/in Rassegna Stampa /da adminwpdi Jacopo Frenquellucci
Una crescita del Pil del 7% nell’ultimo anno, “la più alta dell’Unione economica eurasiatica”, quando nel 2009 l’indicatore economico era crollato del 14%, e un obiettivo ben preciso: far salire il prodotto interno lordo del 25% nei prossimi dieci anni investendo unicamente sulla “risorsa più importante del paese”, il capitale umano.
Non si tratta di piani quinquennali di sovietica memoria, ma l’Armenia, meno di tre milioni di abitanti distribuiti su 30.000 chilometri quadrati di paese senza sbocchi sul mare, è un esempio da libro di testo di come si possa programmare in maniera sistematica il proprio futuro in una direzione precisa: l’alta tecnologia, che- in maniera quasi paradossale- per gli armeni significa il ritorno alle proprie origini di “paese nerd”, quando la Repubblica Socialista Sovietica Armena era a tutti gli effetti la Silicon Valley dell’Urss – dove ad esempio sono stati sviluppate le tecnologie sia per la bomba atomica che per i cacciabombardieri MIG.
Una tappa significativa a breve termine di questo processo sarà l’organizzazione, dal 6 al 9 ottobre nella capitale Yerevan, della 23esima edizione del WCIT, il Congresso mondiale sulla information technology, ma il cammino vuole essere decisamente più lungo.
Come spiega infatti Hakob Arshakyan, ingegnere informatico di 34 anni, da giugno 2019 ministro dell’Industria High-Tech (dicastero nato dalla sua decisione di scorporare le competenze fra infrastrutture fisiche e digitali, di cui era titolare da maggio 2018), la strada principale per arrivare ai risultati prefissati è una massiccia riconversione della forza lavoro: nei piani del Governo il numero di impiegati nella tecnologia deve crescere almeno del 15% ogni anno.
Un processo che richiede ovviamente più passaggi, e in più direzioni. Arshakyan, che prima di entrare in politica dirigeva una società hi-tech da lui stesso fondata, prova a metterli in fila: si va dall’aprire le università alle aziende per la formazione dei loro futuri dipendenti, come succede ad esempio con i corsi di cybersecurity tenuti dalla società di antivirus Kaspersky e come nelle speranze del ministro dovrà succedere anche con blockchain e intelligenza artificiale, ai programmi di accelerazione per startup, passando per i fondi di investimenti – “ne abbiamo tanti di piccole dimensioni, vogliamo attirare quelli più consistenti” -, le engineering cities con i laboratori condivisi in grado di ospitare fino a quaranta aziende e le politiche fiscali che prevedono zero tasse sui profitti per le start-up fino al 2024.
Ma la vera chiave di volta, assicura, è la rivoluzione del sistema educativo (Arshakyan usa il termine, caro alle startup, disruption, rottura): servono lezioni di informatica in ogni scuola, ad ogni grado, perché “il nostro maggior vantaggio competitivo è la conoscenza e l’attitudine alle scienze”, ricordando sia come già dagli anni ‘50 “l’Armenia sia stata il principale centro di ricerca dell’Urss”, sia come il paese sia l’unico al mondo “ad avere gli scacchi come materia scolastica obbligatoria”. Ma se prima, senza gli strumenti per comunicare con tutto il mondo e competere a livello globale, “nessun ragazzo era in grado di esprimersi compiutamente”, sostiene il ministro, oggi “un ragazzo armeno delle scuole medie che sviluppa videogiochi può pubblicarli sul sito del MIT di Boston e vincere riconoscimenti” – ed è realmente successo.
“QUESTI RAGAZZI NON HANNO BISOGNO DELL’UNIVERSITÀ”
In questo piano di cambiamento totale del paradigma dell’educazione il governo armeno ha più di un alleato. La prima è la UATE, l’Unione delle imprese dell’alta tecnologia, che conta più di 90 aziende iscritte: il loro progetto si chiama Armath, e prevede la creazione di “club-laboratorio di ingegneria” all’interno di tutte le scuole pubbliche armene. Ad oggi si contano più di 250 centri in tutto il paese, oltre che in Georgia e nell’Artsakh (lo Stato de facto, non riconosciuto però dall’Onu, che si trova al confine tra Armenia ed Azerbaigian), con più di 6500 ragazzi tra i 10 e i 18 anni coinvolti – senza obbligo di frequenza e senza alcun contributo economico richiesto.
Grazie ad Armath, in una qualunque scuola della periferia di Yerevan o del resto del paese, in edifici che sicuramente non brillano per la modernità della costruzione, sono comparse aule dotate di decine di pc di ultima generazione, di stampanti 3D e di scanner-laser, dove i bambini imparano a programmare robot e a scrivere linee di codice in linguaggi di programmazione da “adulti” come Python e C++.
Come rivendica Karen Vardanyan, CEO di UATE e impegnato in prima persona nel progetto Armath, “il livello è quello del MIT”. Se da una parte può sembrare avventata come affermazione, dall’altra è vero che gli studenti usano come principale strumento didattico una versione rivisitata di Scratch, un ambiente di programmazione sviluppato proprio dalla più prestigiosa università statunitense di tecnologia.
E qualunque sia il livello supposto del MIT, non può non stupire vedere bambini come Daniel, Leon e Aghasi, 32 anni in tre, che da appassionati di bottle flip (la sfida virale che consiste nel lanciare una bottiglia e farla ricadere in piedi) hanno scelto di creare un videogioco su questa tendenza, invece che cimentarsi nell’ennesimo video online. Così come lascia a bocca aperta Emma, 14 anni, il sogno di essere una politica da grande e la sua scelta di costruire il proprio sito web (da zero, senza nemmeno usare WordPress o simili software online), al posto di affidarsi a un profilo Instagram come qualunque sua coetanea.
“Noi vogliamo che i ragazzi siano dei creatori, non degli utenti, in ogni occasione- spiega Vardanyan-. Li spingiamo a risolvere i loro stessi problemi attraverso la tecnologia: ci son bambini che con le competenze acquisite grazie ad Armath hanno automatizzato i sistemi di irrigazione dei loro villaggi”.
A quale prezzo reale arriva però questa formazione? Troppe competenze acquisite troppo presto rischiano di interrompere la formazione dei ragazzi, che diventano appetibili per il mercato del lavoro fin dalla giovanissima età. Vardanyan lo racconta con orgoglio: a Vanadzor, una città a due ore di viaggio della capitale Yerevan, “un’azienda tedesca ha assunto 60 ragazzi minorenni, ovviamente rispettando il limite di legge delle quattro ore di lavoro giornaliere: si occupano di realizzare foto 3D, guadagnano 250 dollari al mese e intanto ricevono una formazione professionale che la società ha specificamente programmato per rispondere ai propri bisogni”.
Anche se ben l’84% degli studenti che frequentano Armath continua i suoi studi dopo il liceo, il direttore esecutivo della UATE non lo vede un passaggio così necessario: “Il 70% di questi ragazzi non ha bisogno dell’università, possono iniziare a lavorare a 14 anni e a 18 anni guadagnare già 2000 dollari al mese”, in un paese dove lo stipendio medio si attesta sui 350 dollari. Secondo Vardanyan, “tutto questo risolve una lunga serie di problemi sociali e demografici, a partire dallo spopolamento delle zone più periferiche: noi vogliamo riempire il paese di aziende, senza che si concentrino tutte nella capitale”. Il piano è relativamente semplice: “Con un laboratorio in ogni scuola, possiamo pensare anche a della formazione specifica su scala regionale, in base alle necessità delle aziende: con un corso di sei mesi il livello è quello di uno junior specialist, e se anche in media uno su tre dei ragazzi formati dovesse essere assunto, per tutti gli altri rimarrebbe il vantaggio di aver ricevuto un insegnamento di alto livello e gratuito”.
COSTRUIRE TALENTI
Sullo stesso argomento è però ben più cauto il ministro Arshakyan: “Un ragazzo di 14 anni può imparare un linguaggio di programmazione, lavorare da subito e guadagnare più dei suoi genitori, senza continuare però a un livello educativo superiore- ragiona-. Il nostro obiettivo è invece creare dei meccanismi per cui gli studenti siano incoraggiati ad andare all’università e non immediatamente al servizio dei privati”.
Secondo Arshakyan infatti “gli studenti del primo o secondo di università che lasciano gli studi per un impiego immediato smettono di apprendere le basi scientifiche e si limitano semplicemente a programmare: noi allora perdiamo il loro talento, perché se imparassero più matematica e fisica potrebbero acquisire più competenze e quindi avere più valore per il loro paese e per loro stessi”.
Quando parla di meccanismi, il ministro usa il termine proprio dell’informatica pipeline, la serie di passaggi logici all’interno di un programma, e come primo esempio cita Tumo, un centro per le tecnologie creative nato a Yerevan e ora diffuso in tutto il paese e all’estero. Ogni settimana ospita 15.000 ragazzi tra i 12 e i 18 anni, offrendo corsi che vanno dalla programmazione alla modellazione 3D, dallo sviluppo di videogiochi all’animazione. Tumo incarna perfettamente l’idea di modello di sviluppo armeno: nessun esame d’entrata, gratuità totale, un piano personalizzato per ogni ragazzo basato sugli interessi ma necessariamente multidisciplinare, e alla fine del percorso nessun diploma ma un sito web che fa anche da portfolio.
Oltre il 40% di chi frequenta Tumo è una ragazza, e da regolamento il 50% dei ragazzi deve arrivare da famiglie che accedono ai servizi di welfare. Ma la competizione è vera: con un sistema di ‘gamification’, si chiede ai ragazzi di raggiungere obiettivi ben precisi per poter accedere ai contenuti più avanzati, e non è possibile concentrarsi solo una competenza specifica. I tutor sono ex studenti, mentre si ricorre a insegnanti ed esperti solo per i workshop più avanzati, a cui accede solo chi ha ottenuto i risultati migliori.
“Vogliamo che siano i ragazzi a farsi carico della loro educazione, per questo possono andarsene in ogni momento- spiega Pegor Papazian, armeno della Diaspora, ingegnere del MIT e fondatore di Tumo nel 2011 insieme alla moglie-. Abbiamo voluto creare qualcosa di diverso dai modelli educativi tradizionali, quelli delle medaglie monotematiche, abbiamo scelto di rompere gli schemi della società tradizionale per essere più produttivi: genitori e professori spesso desiderano solo che i giovani abbiano successo, noi insegniamo loro prima a imparare e poi a lavorare”. Papazian sottolinea con orgoglio che “non c’è nulla di simile in nessun altro paese”.
E in effetti in otto anni Tumo, oltre ad aver aperto altri tre centri in Armenia, è arrivato a Parigi e Beirut e preso sarà presente anche a Berlino, Mosca e in California. All’estero si tratta a tutti gli effetti di un franchising, e grazie ai proventi di questa cessione del marchio e del modello si mantengono- insieme alle donazioni che spesso arrivano da Armeni della Diaspora- le strutture in Armenia e la loro crescita: dopo l’estate partirà Tumo in a Box, un progetto per raggiungere i villaggi più lontani con container che si collegano alle sedi centrali e possono ospitare fino a 60 bambini. L’obiettivo è sempre uno: “Garantire pari condizioni di accesso a tutti, non importa dove siano nati o da che famiglia”, conclude Papazian.
INSEGNARE CON LA TECNOLOGIA, NON INSEGNARE TECNOLOGIA
Se Armath rappresenta un estremo dello spettro della proposta pedagogico-tecnologica dell’Armenia e Tumo si pone come una soluzione intermedia, cercando il giusto equilibrio tra professionalizzazione e formazione, all’altra estremità rispetto al progetto degli industriali si posiziona invece il Coaf Smart Center di Debat, nella provincia di Lori, epicentro del terremoto che colpì il paese nel 1988 causando oltre 25.000 morti.
Fondata nel 2004 dal miliardario turco-statunitense di origine armene Armen Garo, la Children of Armenia Fund è una NGO che in 15 anni ha ristrutturato più di 100 edifici scolastici e civici, ha effettuato screen mammografici a più di 10.000 donne e fornito supporto di ogni genere (dalle cure dentali all’istruzione fino all’acqua potabile) a più di 75000 persone in oltre 50 villaggi. Dal 2014 è operativo il progetto Coaf Smart, che nasce per favorire lo sviluppo delle comunità rurali dell’Armenia dando ai più giovani “le risorse e le opportunità per esplorare le loro curiosità intellettuali e allargare i confini degli ambiti di studio che più li stimolano”, come si può leggere nel loro sito.
“Usiamo la tecnologia per insegnare, non insegniamo tecnologia”, spiega in maniera più diretta Haig Boyadjian, consigliere esperto di Coaf- nato e cresciuto a Los Angeles e trasferitosi poi in Armenia, paese di origine della sua famiglia, “per fare una differenza, non semplice assistenzialismo”- mentre guida una visita all’avveneristico Smart Center di Debat.
Quasi 2000 metri quadrati tra aule, laboratori, palestre, auditorium, ristoranti e alloggi per gli ospiti, opera dell’architetto libanese Paul Kaloustian, l’edificio segue tutti i principi dell’ecosostenibilità e ha suscitato l’interesse di alcune delle più importanti riviste di architettura del mondo. “Ma non abbiamo costruito una struttura del genere per capriccio o per vezzo, lo abbiamo fatto perché vogliamo che i ragazzi sentano, spesso per la prima volta nella loro vita, di meritare qualcosa di bello– assicura Boyadjian-. Vogliamo ispirarli, vogliamo che creino, vogliamo che vadano oltre, questa struttura deve essere una finestra su un mondo più ampio, la connessione fisica e digitale che normalmente non hanno”.
Definire a tutto tondo l’attività del Coaf Smart Center è riduttivo: passando da un’aula all’altra si va dalle lezioni di pittura ad acquarello a quelle di Photoshop, dai corsi di lingue ai laboratori di robotica, dalle dimostrazioni di primo soccorso alla scuola di chitarra passando per le esercitazioni di retorica. Non si tratta solo di ingegneri o informatici, quindi: come puntualizza Boyadjian “noi costruiamo talenti”, ed è questo uno dei motivi per cui “il governo vuole replicare l’esperienza a livello nazionale”
A differenze degli altri esempi di spazi formativi come Armath e Tumo, al Coaf Smart Center poi non si pensa solo ai più giovani: ci sono appositi programmi per formare i formatori che lavorano nei villaggi rurali (se ne contano più di 80 nella zona, per un totale di oltre 200.000 abitanti), e l’edificio funge a tutti gli effetti da centro di comunità, a cui anche gli adulti accedono per frequentare corsi e lezioni.
E se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto: con le Smart Rooms tutti i servizi, i corsi e le lezioni diventano disponibili da remoto per chi non ha modo di raggiungere la struttura di Debat, sia che si tratti di bambini che di adulti. Spesso le Smart Rooms sono l’unico modo in cui certi villaggi rurali hanno la possibilità di collegarsi al web e quindi al resto del mondo, oltre che una spazio per le cure mediche, il sostegno psicologico e nelle zone più a rischio- come quelle al confine con l’Azerbaigian- fungono anche da rifugio in caso di conflitti.
Ecco perchè non importa poi tanto quante start-up nasceranno dai ragazzi che hanno frequentato il Coaf Smart Center o sono stati in qualche maniera toccati dai vari progetti del Children of Armenia Fund: l’obiettivo è “dare ai ragazzi e agli adulti una opportunità in una maniera sostenibile”, ripete Boyadjian. “Vogliamo espandere i loro orizzonti”, conclude mentre dalla continue vetrate lo sguardo si perde tra le montagne e il paesaggio circostante.