Questa è Metsamor la più pericolosa centrale nucleare del mondo (Ilgiornale.it 14.04.17)
Una manciata di minuti a mezzogiorno. Una scossa di 6,9 della scala Richter metteva in ginocchio un piccolo paese di circa 35mila abitanti nell’Armenia del nord. Quel 7 dicembre 1988 a Spitak c’era neve ovunque, quasi ad attutire i rumori della terra che tremava e i dolori della gente. Per i bambini e ragazzi ancora a scuola, quella mattina la campanella non ha più suonato. Sono state contate oltre 25mila vittime.
A settantacinque chilometri dall’epicentro, e neanche trenta dalla capitale Yerevan, c’è Metsamor. Una serie di palazzoni del classico immaginario architettonico sovietico, abitati da poco più di 10mila persone. Una scuola che fa da asilo, elementari e medie, un presidio sanitario, una palestra e una manciata di botteghe dove si può trovare di tutto. Fondata negli anni ’70 per dare alloggio ai lavoratori della omonima centrale nucleare, adesso è un crocevia di esistenze disparate in mezzo a strutture fatiscenti. Militari, disoccupati, rifugiati. Un migliaio gli operai rimasti. Il vecchio Sporting Complex, la Casa della Cultura e il lago artificiale sono ormai fantasmi. Ovunque mura crepate dalle scosse telluriche.
A meno di venti chilometri il confine turco e poco più in là il Monte Ararat, tanto sacro alla cultura armena. Secondo la Bibbia, sulla sua vetta arrivò Noè sopravvivendo al Diluvio Universale. Per la cristiana Armenia, una grande sofferenza poterlo vedere e non toccare. I rapporti tra i due paesi continuano a rimanere freddi e i confini chiusi. Il mancato riconoscimento del Genocidio del 1915 da parte del Paese musulmano risulta uno dei nodi fondamentali ancora da sciogliere.
Appena fuori Metsamor iniziano campi sterminati che arrivano fino alla zona invalicabile attorno alla centrale. Durante l’estate le quattro torri di raffreddamento si stagliano nette all’orizzonte. Sorvegliano dall’alto, ben visibili, ogni quotidianità. Inverni rigidi e temperature raramente oltre i -10° li nascondono in una coltre bianca di ghiaccio e nebbia. Nel 1989 il governo sovietico decise di chiuderla allertato dal terremoto dell’anno precedente. Col crollo dell’Urss e l’urgente fabbisogno energetico, il governo armeno fu spinto nel 1995 alla sua riapertura.
La centrale di Metsamor è l’unica funzionante fuori dalla Russia che continua a montare due vecchi reattori di progettazione sovietica ormai obsoleti, VVER440, di cui soltanto uno ancora attivo. È croce e delizia per i pochi armeni davvero interessati alla sua presenza sul territorio. Oppositori e sostenitori spesso mossi non da vere personali riflessioni, ma da interessi economico-politici. Chi vi scorge motivo di orgoglio nazionale e modernità, chi la ritiene una spada di Damocle sulla testa degli abitanti di questa fetta di Caucaso. Ricerche realizzate da Turchia e Azerbaijan, nemici giurati, sono per la sua immediata chiusura; quelle della stessa Armenia e Russia inevitabilmente favorevoli.
«La centrale è molto importante perché produce circa il 30-35% del fabbisogno dell’intera Armenia, però dal punto di vista della salute degli abitanti è estremamente pericolosa», esordisce così Hakob Sanasaryan, capo del partito dei Verdi armeno, da una stanza del Ministero per la Protezione della Natura, in pieno centro a Yerevan. Siede a una scrivania, in un ambiente scarno ed essenziale. Risponde a fatica alle domande. I vecchi stereotipi da regime sovietico fatti di controlli e diffidenze continuano a essere forti. Però va avanti: «La questione della sicurezza è stata discussa molto sia ai tempi dell’Urss che successivamente. La zona dove è stata costruita la centrale è sismica e quindi pericolosa. Anche spendendo tutti i soldi possibili la sicurezza non si può mai garantire».
Di parere diametralmente opposto è ovviamente Movses Vardanyan, direttore della centrale. Il suo ufficio si trova all’interno della stessa. La stanza è molto grande, così come le due finestre. Una scrivania e un tavolo da dieci posti. Pareti bianche e disadorne. Le fotografie sono proibite per motivi di sicurezza. È cordiale e sorridente. Sembra ben istruito su cosa dire. «La centrale è molto sicura. Dopo il terremoto ha avuto una serie di rinforzi strutturali. Attualmente è in funzione soltanto l’Unità 2. Vi lavorano comunque 1.700 dipendenti, di cui almeno 900 vivono a Metsamor». E con una punta di orgoglio, prima smentisce la vox populi per cui erano presenti importanti coinvolgimenti russi nella gestione della centrale, poi conferma il suo mantenimento fino al 2026.
«Secondo una decisione del governo armeno, nel 2018 inizieranno la costruzione di una seconda centrale nucleare che finirà nel 2026, chiudendo così la prima. Pur avendo terminato il suo utilizzo consentito nel 2016, continueranno a usarla finché non avranno costruito la nuova», aveva spiegato Sanasaryan qualche giorno prima. «Anche l’Unione Europea preme da diversi anni per una sua chiusura. Secondo me è inammissibile costruire una seconda centrale nella medesima zona altamente sismica. Gli stessi soldi che servono per realizzare una nuova servono anche per smantellare la vecchia sia in termini di messa in sicurezza sia di gestione delle scorie. Per il popolo armeno, questo è un altro aspetto, oltre quello della salute. Infatti questa mossa andrebbe a incidere ancora di più sulle tasse della gente».
Benik aspettava invece affacciato alla finestra dell’ultimo piano dell’anonimo palazzo sovietico dove vive. Uno scricciolo d’uomo che arriverà sì e no a un metro e sessantacinque. Capelli bianchi e sigaretta in bocca. Rughe come quelle del soffitto del salotto. Occhietti ancora vispi su un viso da ottantenne. Ha 68 anni e nel gennaio 2017 è andato in pensione. Ha lavorato per più di vent’anni nella centrale. Per lui era un lavoro come un altro. Non ha mai avuto paura, e ne era contento. «In effetti gli stipendi medi percepiti dagli operai sono sui 700 dollari, nettamente superiori alla media del Paese» spiega. «Con la fortissima disoccupazione presente, la possibilità di un lavoro del genere significa sopravvivenza per te e la tua famiglia. Poco importa la sua pericolosità, reale o presunta.
A un paio di chilometri da casa di Benik vive la signora Anahit con le sue due figlie, Sima e Haykuhi. Moglie di un militare di stanza nella zona, non ha mai scelto di vivere nella Valle dell’Ararat. «Non abbiamo paura della centrale», racconta. «Ma si sente che è molto radioattiva. Spesso abbiamo mal di testa perché l’aria è diversa».
«Quando è caldo, il fumo è pesante e fastidioso. Ma l’inverno tutto sembra normale», aggiunge Ruzan, contadina di 51 anni. «Da più di trent’anni abito qua assieme a mio marito. Il governo non ha dato agevolazioni e non fa niente per aiutare la gente che vive attorno alla centrale. Noi produciamo vodka dalla nostra uva, e la terra è il nostro unico sostentamento. I campi vicino alla centrale non hanno l’irrigazione e non arriva l’acqua. È davvero dura non far seccare il raccolto».
È quasi l’ora di pranzo e Arshak chiacchiera tranquillamente con suo figlio Zhora davanti all’entrata della serra. Ha 60 anni ed è un ricco proprietario terriero. Possiede vivai dotati di acqua e può coltivare anche durante le gelate invernali. Racconta con soddisfazione dei suoi broccoli e dei rifornimenti che riesce a fare ai più grandi supermercati di Yerevan.
La maggior parte della popolazione armena vive di coltivazioni e allevamento. Ma come ricorda Sanasaryan: «Non ci sono studi e dati sulle condizioni di aria, acque e terra in quella zona. Con l’Urss era tutto monitorato, sia all’interno della centrale sia nelle zone circostanti. Adesso controllano soltanto dentro. Quindi non ci sono informazioni. Però si può dire con sicurezza che nel raggio di un chilometro di una qualsiasi centrale nucleare funzionante siano presenti gas inerti che producono cambiamenti a livello molecolare sia nel mondo vegetale che umano».
In l’Armenia è notte fonda, così scura come le strade della sua Metsamor quando allo scoccare della mezzanotte spengono i lampioni per risparmiare elettricità.