Quello che il colonialismo ha insegnato a Hitler (L’Espresso 17.01.23)
Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche entravano ad Auschwitz. Dal 2005 quella data è stata scelta come Giorno della Memoria della Shoah: un evento marcato ogni anno da cerimonie, libri, documentari, spettacoli teatrali. Tutto questo ha portato anche a un altro risultato oltre a quello che ci si prefiggeva. Ripensare e rivedere nei dettagli lo sterminio degli ebrei ha spinto a rileggere alla luce della Shoah altre pagine tragiche della storia, in particolare per quanto riguarda il colonialismo europeo nei paesi che venivano chiamati del “Terzo Mondo”. E questo ha spinto gli storici a ricostruire la catena di orrori che, come una serie di “prove generali”, ha portato ai campi di concentramento nazisti.
Fino a pochi anni fa l’unico precedente della Shoah veniva rintracciato nel mondo islamico ai danni di una popolazione cristiana: nel genocidio armeno commesso dai turchi, che tra il 1915 e 1916 uccisero un milione e mezzo di persone. Un massacro che ancora oggi avvelena i rapporti con l’estero della Turchia, che rifiuta non solo di chiedere scusa (come fa, per riprendere il parallelo con il colonialismo, Macron nei confronti dell’Algeria) ma apre crisi diplomatiche con qualsiasi Stato parli ufficialmente di genocidio, o con qualsiasi istituzione ne riconosca la ricorrenza, che è il 24 aprile. Anche sul massacro degli armeni, come sulla Shoah, oltre ai saggi storici si fanno sempre più numerosi i racconti personali: come l’ultimo romanzo di Antonia Arslan, “Il destino di Aghavnì” (Edizioni Ares): la storia romanzata di un’antenata dell’autrice che in un giorno del 1915 uscì di casa con il marito e i due bambini per andare da una zia e semplicemente sparì, non tornò mai più.
Che il massacro degli armeni sia stato l’evento storico che ha dato ai nazisti l’idea della “soluzione finale” è cosa nota: «Chi si ricorda più dell’annientamento degli armeni?», pare abbia detto Hitler per assicurare ai suoi il successo dello sterminio degli ebrei. Ma in realtà nella storia coloniale della Germania c’era un precedente pesante, molto vicino agli anni del nazismo e fino a poco tempo fa quasi completamente rimosso: lo sterminio degli harara, popolo della Namibia, che all’inizio del Novecento era una colonia tedesca. A riportare alla luce le violenze dei tedeschi in Africa, e il legame tra questi stermini coloniali e quello che avrebbero realizzato in Europa contro persone considerate di “razze inferiori”, è servito il premio Nobel ad Abdulrazak Gurnah. L’eco delle violenze dei colonizzatori nell’Africa Orientale è in tutte le opere dello scrittore tanzaniano, ma in “Voci in fuga” (La Nave di Teseo) il protagonista Ilyas finisce lui stesso in un campo di concentramento tedesco, dove rivive le violenze già conosciute nel Paese in cui era nato.
Tornando indietro nella storia alla ricerca del primo genocidio europeo si incrocia il recente romanzo ecologista di Amitav Gosh, “La maledizione della noce moscata” (Neri Pozza). Sono gli olandesi, questa volta, a uccidere o deportare tutti gli abitanti dell’unica isola indonesiana in cui cresceva in natura l’albero che produceva la spezia, che nel Seicento era ricercata quanto le pietre preziose.
Gli inglesi, invece, hanno sulla coscienza un massacro sistematico in Tasmania: non si sa quanti aborigeni ci vivessero prima del 1802, quando arrivarono le prime navi inglesi. Quel che è certo è che 70 anni dopo non ce n’era più neanche uno. Inchieste citate da siti dedicati a questi argomenti (informazionescomoda; differentmagazine) calcolano che in Australia il 90 per cento degli aborigeni siano morti per cause legate alla colonizzazione: direttamente (massacri, battaglie, omicidi sistematici) o indirettamente (furto di terre, epidemie, distruzione dell’habitat e delle abitudini di agricoltura e di caccia).
Che i frutti avvelenati del colonialismo continuino a intossicare il mondo contemporaneo (anche perché il colonialismo non è finito: vedi la Guyana francese o Gibilterra inglese…) lo dimostra la situazione in Israele. Nel saggio “Decolonizzare la Palestina” (Meltemi), lo studioso Somdeep Sen applica le categorie del colonialismo e della lotta di liberazione alla storia di Hamas (il sottotitolo è “Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo”). Dalla vittoria nelle elezioni del 2006, questa organizzazione islamista paramilitare si trova a portare avanti la resistenza armata contro Israele mentre è al governo in Palestina: un paradosso che rende ancora più esplosiva una situazione già disperata. Che gli arabi abbiano vissuto la decisione di europei, americani e sovietici di far nascere lo Stato di Israele come la creazione di una nuova colonia europea era chiaro almeno fin da “Gerusalemme! Gerusalemme!” (Mondadori), il thriller storico di Dominique Lapierre e Larry Collins del 1971 che è stato un caso editoriale. E che a 52 anni dalla pubblicazione non ha perso la sua efficacia.