Quel che resta dell’Armenia (Elle 08.05.24)
Nell’anniversario del genocidio ordinato dal governo turco il 24 aprile 1915, Sonya Orfalian, figlia della diaspora, racconta il senso profondo del suo lavoro di scrittrice e della sua nostalgia
“In seguito all’esodo forzato, parte della mia famiglia sopravvissuta al genocidio armeno è arrivata in Palestina, a Gerusalemme. Poi, il cammino verso una vita degna, in libertà, è continuato, e sono diverse le città in cui abbiamo trovato rifugio. Una di queste è Tripoli in Libia, dove sono nata come rifugiata palestinese. Un’altra meravigliosa città oltremare è Roma, dove, ancora una volta in seguito a un evento storico, la rivoluzione di Gheddafi, sono infine approdata. Qui ho aggiunto una tappa al percorso dei miei antenati e ho trovato rifugio come profuga armena, in quanto figlia di sopravvissuti al genocidio. Non è semplice da spiegare”. Sonya Orfalian, figlia della diaspora armena e scrittrice, inizia così il racconto della sua rocambolesca e romantica storia, accogliendoci nella casa romana piena di libri, musica e spezie, dove vive col suo compagno, il compositore Riccardo Giagni.
Il termine genocidio non è a caso: il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, che aveva coniato il temine per designare l’Olocausto degli ebrei, si era ispirato esplicitamente al “grande male”, lo sterminio di un milione e mezzo di armeni, la metà della popolazione dell’Armenia storica, di cui fu responsabile il Governo turco. Poi il racconto prosegue: “Il mio popolo è stato vittima di un genocidio a tutt’oggi negato dalla Turchia e, devo dire con gran dispiacere, anche da Israele. Da allora, sulle terre che furono nostre non restò nessun armeno, né donna né uomo”. La storia racconta che il 24 aprile 1915 la retata e l’eliminazione di circa 250 intellettuali armeni di Istanbul, notabili, artisti, preti, delegati al parlamento, diede avvio allo sterminio che durò fino al 1922. Il 24 aprile è pertanto diventato il Giorno della memoria del genocidio degli armeni. “Tutti i capifamiglia e gli uomini abili erano rastrellati e uccisi immediatamente o costretti ai lavori forzati, trattati come bestie da soma. Le donne, i bambini e i vecchi venivano deportati, costretti a marciare senza meta, senza cibo né acqua, nei deserti della Siria. La soldataglia che accompagnava queste carovane della morte era armata solo di lame, per risparmiare le pallottole e le armi che venivano usate al fronte per la prima guerra mondiale. Alcuni deportati venivano spinti nei dirupi dove scorrevano i corsi d’acqua, che si avvelenavano con i loro corpi. A volte le donne preferivano gettarsi nei precipizi di loro volontà piuttosto che essere violentate. Altre erano condotte in schiavitù nelle case dei villaggi”, aggiunge Sonya Orfalian.
Questo non significa però che la cultura armena sia stata definitivamente cancellata, anzi: “All’interno delle famiglie dei sopravvissuti è rimasta viva e si è tramandata negli anni. Anch’io ho sempre lavorato intorno alle mie radici pubblicando libri con le nostre bellissime fiabe tradizionali come A cavallo del vento (Argo ed., 2017) , raccontandole al posto di chi non poteva più farlo. Poi ho scritto della nostra cultura culinaria La cucina d’Armenia (Ponte alle Grazie, 2009), di quel focolare domestico che hanno tentato di spegnere e che però è rimasto sempre acceso nelle case degli armeni in diaspora. Le donne, attraverso la loro dedizione alla famiglia, cucinando per nutrire i bambini sopravvissuti insieme a loro, sono riuscite anche a tramandare la nostra cultura: dalla porta della cucina entrano tantissime tradizioni che riguardano la vita sociale del nostro popolo con i piatti dei giorni delle feste, dei santi, delle ricorrenze che hanno a che fare col ciclo naturale delle stagioni, entrano i canti”, ricorda la scrittrice.