QUATTRO ANNI SOTTO LA MEZZALUNA (Mangialibri 14.11.22)

Quattro anni sotto la Mezzaluna

Venezuelano di San Cristobal, classe 1877, di antica e (forse non del tutto) orgogliosa ascendenza paterna basca, di madre spagnola meticcia amerinda, Rafael Inchauspe, poi Rafael de Nogales, si sentiva un “caballero andante”, un cavaliere di ventura. Reduce dalla guerra ispano-americana per Cuba e da qualche irrisolto e incompiuto slancio rivoluzionario, in patria, si ritrovò, grossomodo trentacinquenne, a combattere in Europa. Si ritrovò a combattere in quell’Europa in cui in parte era cresciuto, bambino in Germania, poi giovanotto a Bruxelles, in Belgio, dove si era diplomato, passando più di qualche anno, in un ambiente cosmopolita; ci si ritrovò, qui in Europa, per uno slancio sentimentale, perché voleva inizialmente offrire il suo contributo “al piccolo ed eroico Belgio”, per riconoscenza. E invece, complice la prassi belga (e francese) di rifiutare volontari o mercenari stranieri, finì schierato sul fronte sbagliato, proprio durante la Grande Guerra: finì arruolato “generosamente e spontaneamente” dall’Impero Ottomano, come ufficiale. E così, per dirla con le parole di Antonia Arslan, il “caballero” de Nogales “era un cristiano che combatteva alle dipendenze di un governo islamico, era inserito in un esercito malridotto, attraversato da continue rivalità e intrighi di palazzo, alieno ai valori e alle tradizioni occidentali”; in più, si ritrovava a fronteggiare periodici problemi di convivenza con l’alleato germanico, alleato che non faticava a mostrare tutto il suo disprezzo nei riguardi dell’esercito del Sultano, “inutilmente violento e troppo incline al saccheggio brutale”. Durante quei quasi quattro anni di esperienza al fronte, in Anatolia e più a Est, tra Sinai e Mesopotamia, il “caballero” Rafael de Nogales incresciosamente fraternizzò con uno dei triumviri che architettarono il genocidio degli armeni, Enver Pascià: prevedibilmente, subì spesso la sua influenza, mostrando in più di un frangente e in più di un’azione cinismo e a volte manifesta ostilità nei riguardi di quella povera gente. Forse è paradossale, ma per questa sua inspiegabile amicizia coi turchi il suo memoir Cuatro aňos bajo la Media Luna (1924), poi rivisto e aggiornato come Four Years Beneath the Crescent [1926] assume particolare valore; diamo ancora retta alla Arslan: “Una testimonianza, questa, resa quasi contraggenio ma con asciutta drammaticità: sugli eventi dell’assedio di Van, su Bitlis, su Tell Armen, altrove; crudeltà inenarrabili, sevizie di ogni tipo, montagne di cadaveri […]. Sono puntuali descrizioni ricche di dettagli colti da un occhio allenato a registrare e valutare quotidiani eventi bellici, avanzate e ritirate di ogni giorno, cedimenti del fronte e necessità di immediati interventi […] con rara freschezza di immagini, unita a un’ottima resa dei caratteri dei personaggi e a una straordinaria, quasi fotografica memoria dei luoghi”. In altre parole, Rafael de Nogales diventa, forse in più punti non del tutto volontariamente o consapevolmente, un cronista delle stragi di civili, delle menzogne della propaganda ottomana, dello sterminio di un popolo autoctono (uno dei varii popoli autoctoni sterminati dai turchi). A sentire il curatore e traduttore di questa edizione, Fabrizio Pesoli, “in Anatolia Nogales non ha una propria missione da compiere, se non quella di salvare sè stesso”. Per salvare sè stesso e attenuare le sue responsabilità e le sue colpe, a qualche anno di distanza dai fatti, de Nogales descrive in più punti “gli abissi della peggiore barbarie” dei Giovani Turchi, “strana setta nata come rispettabile partito politico progressista”…e finisce per fare una cronaca, parziale ma inequivocabile, del catastrofico “Medz Yeghern”, il famoso e impunito genocidio degli armeni…

Apparso nella collana “Frammenti di un discorso mediorentale”, diretta dall’artista italoarmena Antonia Arslan, collana già apprezzata per la recente pubblicazione almeno di Killing Orders. I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno, questo Quattro anni sotto la Mezzaluna vede la luce con cura e traduzione (effettuata dall’edizione inglese del 1926, non da quella spagnola del 1924) di Fabrizio Pesoli; l’edizione include una prefazione dell’augusta Arslan. De Nogales, che pure ha tradito la cristianità servendo, per un quadriennio, lo spietato e genocida esercito del Sultano, e che addirittura ammetteva di “detestare cordialmente” diverse caratteristiche degli armeni, ha diversi meriti: proviamo a riconoscerne qualcuno. Già nelle prime battute del libro, riconosce lucidamente che l’Impero Ottomano si fonda(va) su un “mosaico di gruppi etnici e frammenti di nazioni, diversi per origini e rivali nella fede”; e se un giorno il potere centrale di Istanbul (lui la chiama giustamente “Costantinopoli”; oggi, passati altri cento anni, chiamarla così ha senso solo per filelleni, filarmeni, nostalgici della perduta Roma): dicevamo, e se un giorno il potere centrale turco dovesse tradire quell’equilibrio, allora “in poco tempo l’Asia Minore si trasformerebbe in una seconda Macedonia o nei nuovi Balcani”, cosa che danneggerebbe ovviamente tanto l’Europa quanto il Mediterraneo, in genere. È una visione esatta: tuttavia, il genocidio degli armeni, dei greci e degli assiri è un fatto compiuto, da un secolo esatto, e così l’esodo e la diaspora di milioni di autoctoni superstiti, o peggio la brutale turchizzazione di tanta gente e di varie etnie diverse, superstiti. Servirebbe domandarsi che senso ha avuto, per noi europei, e quanto pericoloso in genere è stato minimizzare, silenziare o peggio “indirettamente avallare” certe operazioni e certi eventi. Altro merito di De Nogales sta nel ricostruire, con più esattezza di quanto fosse possibile sperare, le proporzioni tra gli abitanti armeni e gli abitanti turchi di diverse città e villaggi; elemento questo che contribuisce a sfaldare o proprio a demolire l’odierna propaganda turca, negazionista o minimizzatrice. Sintetiche ma dettagliate le notizie sulle varie tribù curde, “mano armata” del Sultano nei massacri degli armeni. Altro ovvio talento di questo libro è la chiarezza perentoria con cui vengono ricordati assurdi ed esecrabili comandi dei turchi (“sterminare tutti gli armeni maschi di età pari o superiore ai dodici anni”, ad Adilcevaz; solo un esempio) e prassi delle esecuzioni sommarie delle autorità civili del Sultano (di notte, preferendo laghi profondi o cave di montagna per liberarsi dei cadaveri, etc), senza dimenticare episodi di ferocia abbacinante (cataste di cadaveri seminudi e sanguinanti, migliaia; deportazioni di massa sotto un sole spietato). Ovviamente quel che ho appena osservato basta a giustificare l’acquisto e a pretendere lo studio di questa “cronaca differita”. Stilisticamente non mi sembra di aver apprezzato niente di memorabile, nel memoir di de Nogales; niente di indegno, nemmeno. Corredano l’edizione un’appendice iconografica in b/n, l’indice dei nomi di persona e l’indice degli argomenti e dei toponimi.