Pulizia Etnico-Religiosa. Israele Attacca i Cristiani Armeni a Gerusalemme… (Stilum Curiae 21.02.25)
Marco Tosatti
Carissimi StilumCuriali, offriamo alla vostra attenzione alcuni elementi di valutazione su quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania. Il primo è un articolo di Asbarez sull’attacco che Israele sta conducendo contro i cristiani armeni della città, una delle forme subdole di pulizia etnico-religiosa dei territori occupati.
***
Giovedì, il patriarca armeno di Gerusalemme, l’arcivescovo Nourhan Manougian, ha inviato una lettera di appello al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, chiedendo il suo intervento per porre fine alla minaccia di pignoramento della proprietà del Patriarcato armeno.
Mercoledì, il Patriarcato armeno di Gerusalemme ha annunciato che le proprietà storiche del Patriarcato erano sotto imminente minaccia di pignoramento da parte dei funzionari comunali per presunto mancato pagamento delle tasse dal 1994, un’affermazione che i funzionari della chiesa negano con veemenza.
Secondo quanto riferito, l’arcivescovo Manougian ha implorato Netanyahu di intervenire nella questione, prima di un’udienza in tribunale programmata per lunedì, secondo il cancelliere del Patriarcato, il reverendissimo Aghan Gogchyan. Il funzionario ha affermato che il Patriarcato ha chiesto la riconvocazione di una riunione del comitato governativo, fondato dallo stesso Netanyahu, e di “trovare una soluzione al problema”.
“Se il tribunale respingerà l’appello del Patriarcato il 24 febbraio 2025, il Comune sequestrerà e metterà all’asta le proprietà della Chiesa armena che possiede da secoli”, ha affermato Gogchyan in una nota.
I leader religiosi di altre confessioni a Gerusalemme hanno rilasciato giovedì una dichiarazione congiunta esprimendo la loro solidarietà al Patriarcato armeno in quella che hanno definito la “ricerca di giustizia contro un ingiusto ordine di pignoramento emesso dal Comune di Gerusalemme” e hanno condannato le minacce di pignoramento delle proprietà del Patriarcato.
“Le azioni intraprese contro il Patriarcato arminiano, basate su un debito fiscale Arnona non verificato ed esorbitante, sono legalmente dubbie e moralmente inaccettabili”, hanno affermato i firmatari.
“È inconcepibile che le istituzioni cristiane, la cui missione per secoli è stata quella di salvaguardare la fede, servire le comunità e preservare il sacro patrimonio della Terra Santa, debbano ora affrontare la minaccia di sequestro di proprietà in base a misure amministrative israeliane che ignorano il giusto processo. Particolarmente allarmante è il tentativo del comune di far rispettare una determinazione del debito senza controllo giudiziario e in sfida al comitato governativo istituito per negoziare tali questioni in buona fede. Questa mossa sconsiderata mette a repentaglio il Patriarcato armeno ortodosso e stabilisce un precedente pericoloso che potrebbe mettere a repentaglio le istituzioni cristiane in tutta la Terra Santa”, si legge nella dichiarazione.
Hanno osservato che questa azione “mina la libertà di religione, che è il fondamento di tutti gli altri diritti, poiché attraverso la confisca dei beni, si attenta al diritto di esistenza della Chiesa armena ortodossa, privandola delle risorse economiche necessarie per vivere e operare e privando il popolo armeno locale della cura pastorale della propria Chiesa”.
“Prendere di mira una Chiesa è un attacco a tutte, e non possiamo restare in silenzio mentre le fondamenta della nostra testimonianza cristiana nella terra del ministero di Cristo vengono scosse. Chiediamo al Primo Ministro Benjamin Netanyahu, al Ministro degli Interni Moshe Arbel e al Ministro Tzachi Hanegbi di intervenire immediatamente, congelare tutte le procedure di pignoramento e garantire che i negoziati riprendano all’interno del comitato governativo sopra menzionato per raggiungere una soluzione amichevole riguardo a questa questione nello spirito di giustizia”, si legge nella dichiarazione.
***
Il secondo è questo articolo di InsideOver sempre centrato sulla pulizia etnica dei Territori Occupati illegalmente da Israele:
Israele ha indetto una gara d’appalto per circa 1.000 nuove case per i coloni nella Cisgiordania occupata.
Secondo il gruppo israeliano per i diritti umani Peace Now, le 974 case dei coloni pianificate amplieranno del 40 % l’insediamento illegale di Efrat, a sud di Gerusalemme, limitando ulteriormente la crescita della vicina città palestinese di Betlemme.
“Con il popolo israeliano concentrato sulla liberazione degli ostaggi e sulla fine della guerra, l’esecutivo di Netanyahu sta agendo a tutta velocità per imporre cambiamenti in Cisgiordania che comprometteranno ogni prospettiva di pace e dialogo”, ha dichiarato Peace Now che monitora l’attività degli insediamenti.
Nel frattempo, si è registrato anche un aumento degli attacchi da parte dei coloni israeliani contro la popolazione palestinese. Secondo l’agenzia ONU, il 2024 è stato l’anno più violento per le aggressioni dei coloni negli ultimi vent’anni.
Oggi sono oltre 500.000 i coloni israeliani (su 3 milioni di palestinesi) che risiedono nella Cisgiordania occupata e hanno abitazioni costruite su territori occupati illegalmente.
La comunità internazionale, inclusa l’ONU, considera tutti gli insediamenti e gli avamposti illegali secondo il diritto internazionale. L’ONU ha ripetutamente avvertito che la continua espansione degli insediamenti minaccia la fattibilità di una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese. A luglio la Corte internazionale di giustizia ha stabilito che l’occupazione era “illegale” e doveva essere smantellata il prima possibile.
#westbank #occupation #israel #idf #netanyahu
***
Poi c’è la censura – incredibile – e le pressioni per far tacere Francesca Albanese, Relatrice dell’ONU su Gaza, nel suo viaggio in Germania. Le autorità universitarie parlano di critiche da direzioni diverse, fra cui l’ambasciatore israeliano a Berlino. La Germania grazie alla sua cattiva coscienza per il genocidio che ha compiuto, si rende complice di un secondo crimine analogo.
Nel giro di pochi giorni due importanti università tedesche hanno annullato gli eventi con il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati Francesca Albanese, a seguito delle pressioni dei governi statali.
Francesca Albanese avrebbe dovuto parlare alla Free University (FU) di Berlino il 19 febbraio insieme a Eyal Weizman, direttore britannico-israeliano dell’agenzia di ricerca Forensic Architecture. Ma le autorità universitarie hanno deciso di annullare l’evento pubblico dopo quella che il presidente dell’Università ha descritto come “massicce critiche ai due ospiti da direzioni diverse”. Un’altra lezione di Albanese, alla Ludwig Maximilian University di Monaco, era già stata annullata qualche giorno prima per motivi simili.
Tra le critiche rientrano anche le dichiarazioni dell’ambasciatore israeliano in Germania e del sindaco conservatore di Berlino Kai Wegner, che all’inizio di questo mese ha dichiarato al tabloid Bild : “Mi aspetto che la FU annulli immediatamente l’evento e prenda una posizione chiara contro l’antisemitismo”.
Oltre alla Albanese, altri accademici e giornalisti che sostengono i diritti dei palestinesi in Germania spesso esclusi da eventi o premi per le loro posizioni politiche. A maggio, la polizia antisommossa ha smantellato un accampamento di studenti pro-Palestina alla Free University di Berlino, dopo la campagna diffamatoria di Bild contro gli accademici che avevano firmato una lettera aperta che chiedeva il dialogo.
Proprio il Bild, il più grande quotidiano tedesco, ha avuto un ruolo di primo piano nello scandalo “Bibileaks”, attraverso la diffusione di informazioni errate fornitegli dall’assistente di Netanyahu agendo di fatto come un megafono della propaganda israeliana.
Insomma in Germania c’è poco, pochissimo spazio per esprimere solidarietà alla causa palestinese. E come ha detto la Albanese in un video registrato dopo la cancellazione delle lezioni universitarie: in Germania si sente “una mancanza di ossigeno” a causa della repressione della polizia, delle istituzioni, dei media.
***
Infine questo articolo di Internazionale, in cui il regista Basel Adra candidato all’Oscar racconta di come il suo paese in Cisgiordania è vittime di una cancellazione progressiva da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.
Il nostro film va agli Oscar ma a Masafer Yatta ci cancellano

Durante la realizzazione di No other land – il documentario che ho girato insieme a Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal sulla lotta e la resistenza degli abitanti palestinesi della regione di Masafer Yatta, in Cisgiordania, di fronte ai tentativi israeliani di mandarci via – una domanda tornava con insistenza: qualcuno lo guarderà? Qualcuno s’interesserà?
Da quando il film è stato presentato al festival internazionale del cinema di Berlino nel 2024, la risposta è stata chiara: le migliaia di messaggi di solidarietà, le richieste su come poterlo guardare e gli inviti ai festival di tutto il mondo sono stati una dimostrazione del forte desiderio di ascoltare la nostra storia. Ora il film è perfino candidato a un Oscar.
È un risultato straordinario non solo per noi autori, ma anche per gli attivisti, gli amici e tutti i nostri alleati che trascorrono molto tempo sul campo, rischiando violenze e arresti nella lotta contro l’oppressione e la colonizzazione. È anche un riconoscimento agli avvocati che lavorano con ostinazione nei tribunali israeliani, determinati ad aiutare in ogni modo i palestinesi che vogliono restare a vivere sulle loro terre, in un sistema progettato per legittimare l’occupazione.
Ma soprattutto è una vittoria per la gente di Masafer Yatta, un gruppo di piccoli centri abitati all’estremità meridionale della Cisgiordania occupata, la cui resistenza riflette l’incrollabile attaccamento alla loro terra. Mentre l’occupazione tenta di cancellarne l’esistenza, la loro perseveranza continua a motivarci a resistere, a documentare e a combattere per la giustizia.
Nonostante il successo avuto dal film ai festival, tra i giornalisti e tra il pubblico, la situazione sul campo sta rapidamente peggiorando e il futuro sembra cupo. Negli ultimi sedici mesi i coloni e l’esercito israeliano hanno approfittato del clima di guerra per ridefinire la realtà della regione a favore dei coloni e dei loro avamposti, intensificando i tentativi di espellerci dalle nostre terre. In questi giorni l’esercito israeliano sta conducendo una vasta operazione di demolizioni a Khalet A-Daba, radendo al suolo case, servizi igienici, pannelli solari e alberi.
Anche se in questo articolo non posso parlare di tutti gli attacchi ed espropri più recenti ai danni dei residenti palestinesi, ho voluto evidenziare alcuni degli eventi più significativi delle ultime settimane per mostrare che, mentre riceviamo riconoscimenti a livello internazionale, la nostra realtà continua a essere quella di una lotta quotidiana contro l’annientamento.
La guerra santa dei coloni, la copertina di Internazionale
Khaled Musa Abdel Rahman al Najjar, 72 anni, vive con dieci suoi familiari nella comunità di Qawawis. Spesso la notte resta sveglio per timore degli attacchi dei coloni. “L’insediamento di Mitzpe Yair si trova a un chilometro a sudest, e dopo l’inizio della guerra nell’ottobre 2023 è stato creato un avamposto illegale a quattrocento metri di distanza”, mi dice. “I coloni hanno anche costruito una struttura in legno a duecento metri da casa mia, sulla quale hanno una visuale perfetta”.
Il 3 gennaio, poco dopo le tre di notte, Al Najjar ha sentito un cane abbaiare rumorosamente all’esterno di casa sua. “Ho preso la torcia e sono andato a controllare l’asino, che avevo legato per paura che i coloni lo rubassero. Ma non ho visto niente, perciò sono tornato dentro”.
Dieci minuti dopo ha sentito di nuovo abbaiare. “Sono tornato fuori e, all’improvviso, ho visto un colono avvicinarsi”, racconta Al Najjar. “Mi ha detto ‘Vieni qua’, e ha cercato di prendermi la torcia, ma io l’ho respinto. Altri tre coloni a volto coperto hanno cominciato a correre verso di me brandendo dei manganelli”.
“Ho cominciato a gridare per chiedere aiuto ma nessuno mi ha sentito”, continua. “Il primo mi ha colpito al braccio, facendomi cadere la torcia. Gli altri si sono uniti a lui, mi hanno scaraventato a terra e mi hanno colpito in tutto il corpo, finché non ho perso conoscenza. Mi sono sentito come se fossi caduto in un vespaio”.
Dopo averlo picchiato per diversi minuti i coloni sono andati via, lasciandolo a terra sanguinante. “Ho raccolto le forze e sono tornato in casa, con la testa e la fronte sanguinanti. Non riuscivo a parlare”. Poco dopo sono arrivati alcuni attivisti stranieri, che hanno accompagnato Al Najjar a prendere un’ambulanza che lo ha portato in ospedale a Yatta, la città più vicina.
Ricevute le prime cure, Al Najjar è stato poi trasferito in un ospedale più grande a Hebron, dove una tac ha rivelato un’emorragia cerebrale. “Sono stato ricoverato in terapia intensiva in condizioni critiche”, racconta. “Due giorni dopo sono stato dimesso, ma mi sto ancora riprendendo da quell’aggressione brutale”.
Non è la prima volta che Al Najjar è attaccato: nel 2001 un colono gli sparò allo stomaco usando una pistola presa in prestito da un soldato israeliano. Ancora oggi il corpo di Al Najjar ne porta le cicatrici.
Tuttavia, nonostante le gravi ferite e gli attacchi ripetuti, lui continua a resistere. “Nulla di ciò che fanno mi convincerà a lasciare questo posto”, mi dice mentre lo porto a casa dopo le dimissioni dall’ospedale. “Voglio solo vedere i miei nipoti e trascorrere del tempo con loro a casa mia”.
Nonostante tutto lo sconforto e la mancanza di speranza, persone come Khaled Al Najjar – che si rifiutano di lasciare la loro terra anche se subiscono brutali aggressioni – ci spingono a resistere, anche se ci sentiamo impotenti.
Il furto delle terre
Dopo il 7 ottobre 2023, i coloni hanno costruito almeno otto nuovi avamposti in diverse parti della zona di Masafer Yatta. Nel villaggio di Tuba i coloni di Havat Maon hanno creato un nuovo avamposto non residenziale – alcune altalene e una bandiera israeliana – a soli cento metri dalle case della famiglia Awad. Spesso i coloni si danno appuntamento lì prima di provocare e attaccare i residenti palestinesi.
Il pomeriggio del 25 gennaio Ali Awad, 26 anni, era seduto nella sua jeep parcheggiata vicino a casa, quando ha notato sei coloni a volto coperto correre verso di lui. Uno aveva un fucile, un altro una bottiglia di benzina. “Volevo mettere in moto l’auto e scappare, ma poi ho visto mio cugino piccolo e i miei nonni anziani”, racconta. “Sono uscito e sono corso verso di loro per dirgli di allontanarsi. Poi ho sentito un rumore di vetri infranti”.

Quando si è voltato, Awad ha visto una nube di fumo alzarsi. I coloni avevano dato fuoco alla sua auto. “Sapevano che usavo il fuoristrada per portare i bambini a scuola e per trasportare gli abitanti in città per sbrigare alcune commissioni da quando l’esercito aveva bloccato la strada percorribile dalle auto normali”, spiega.
Dopo aver dato fuoco alla jeep di Awad i coloni hanno rivolto le loro attenzioni al fienile, che conteneva dieci tonnellate di mangime, e hanno incendiato anche quello. “Per fortuna le fiamme non si sono diffuse”, dice Awad.
Ma la situazione è presto degenerata. Uno dei coloni è entrato con la forza a casa dello zio di Awad, Mahmoud, dove c’erano i suoi cugini piccoli Jouri, 6 anni, e Jude, 9 anni. “L’attacco è durato circa dieci minuti”, racconta Awad. “Il colono ha rotto i vetri in cucina, ha distrutto due mobili e ha mischiato le riserve di farina e il riso nella dispensa. Ha anche rovesciato un contenitore da cento chili di yogurt e ha spaccato un lavabo”.
All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania
Successivamente la famiglia ha scoperto che probabilmente anche i bambini erano stati colpiti. “Jouri aveva un segno visibile di un colpo sulla schiena, mentre Jude era stato colpito al braccio destro”, riferisce. Awad ha denunciato l’incidente alla polizia israeliana, ma finora non ha ricevuto aggiornamenti.
Quattro giorni dopo, quando la famiglia si stava ancora riprendendo dall’attacco, uno dei coloni che fa il pastore è arrivato con i poliziotti e i soldati israeliani portando il suo gregge a pascolare su un terreno di proprietà palestinese.
“Quando mi sono svegliato ho trovato un esercito di fronte a casa mia”, racconta Awad. Si è scoperto in seguito che il colono diceva di essere stato attaccato da alcuni abitanti di Tuba che gli avevano rubato il telefono. Awad non era tra le persone accusate, ma è stato comunque arrestato insieme ad altri quattro abitanti del villaggio. “I soldati mi hanno umiliato durante l’arresto”, racconta Awad. “Mi hanno gettato faccia a terra sul pianale della jeep militare. Erano seduti intorno a me, e uno di loro mi ha tenuto il piede sulla schiena per tutto il tragitto. La mia mano destra sanguinava per quanto avevano stretto le manette”.
Awad ha tenuto le manette per ore prima di essere trasferito al commissariato di polizia dell’insediamento di Kiryat Arba per essere interrogato. Lui e altri due detenuti sono stati liberati in giornata, mentre altre due persone, tra cui suo zio Khalil, sono state trattenute per giorni prima di essere rilasciate.
Il ruolo dei soldati
All’ombra della guerra di Israele a Gaza, l’esercito israeliano ha applicato nuove restrizioni per i palestinesi proprietari di terreni in Cisgiordania, per esempio costringendoli a chiedere un permesso preventivo all’amministrazione civile ogni volta che vogliono andare nei loro campi coltivati. In molti casi i coloni entrano su questi terreni illegalmente, mentre ai legittimi proprietari palestinesi è impedito l’accesso.
Nel villaggio di Qawawis l’esercito aveva dato l’autorizzazione ad alcuni proprietari terrieri – tra cui la famiglia Hoshiyah – per andare nei loro campi il 14 gennaio, ma poi dieci minuti prima dell’orario stabilito per cominciare i lavori agricoli ha annullato il permesso senza spiegazioni. Una settimana dopo, il 22 gennaio, l’esercito ha autorizzato la famiglia ad accedere alle sue proprietà.