Proteste di piazza in Armenia e Georgia: che succede nel Caucaso? (IlPrimatoNazionale 13.05.24)
Roma, 13 mag – Nelle ultime settimane proteste in piazza sia a Tblisi che Yerevan, le capitali di Georgia e Armenia, le due nazioni del Caucaso strette tra l’ingombrante vicino russo e l’aspirazione occidentale. Due nazioni in uno scacchiere fondamentale, quello del Caucaso, sia perché limes tra Occidente e Oriente e tra Islam e Cristianesimo, sia perché da esso dipende anche la sicurezza energetica dell’Europa: dalla Georgia passano l’oledotto e il gasdotto che collegano l’Azerbaijan al Mar Nero e alla Turchia.
Georgia e Armenia, il retroscena delle proteste
Dietro le proteste di piazza in Georgia e Armenia vicende diverse, ma entrambe legate all’attrito tra Occidente e Russia e che riportano le due nazioni al centro delle cronache internazionali. Prima la Georgia con le proteste di piazza contro la nuova legislazione di stampo russo sugli agenti stranieri: una legge che prevede che le organizzazioni non governative che ricevono almeno il 20 % delle loro sovvenzioni dall’estero vengano iscritte in un apposito registro come “Agenti stranieri”.
Con la scusa della trasparenza e della tutela degli interessi nazionali un modo per monitorare ed eventualmente sopprimere qualunque realtà che possa essere percepita come anti-nazionale, dalle semplice associazioni di volontariato fino al mondo dell’informazione. Una legislazione simile ha infatti permesso alla Russia di Putin di effettuare un giro di vite contro tutte quelle realtà che per aver ricevuto sovvenzioni estere e potevano ricadere nella definizione di agente straniero.
Una legislazione che era stata già proposta in Georgia lo scorso anno e poi ritirata per le proteste popolari e fortemente stigmatizzata dall’Alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell. Eppure il partito Sogno Georgiano, che guida le coalizioni governative da una decina d’anni e che è anche affiliato al Partito Socialista Europeo come osservatore, ha ritenuto opportuno riproporre la legge, nella faticosa ricerca di un equilibrio tra Unione Europea e Russia. La Georgia non solo confina con l’orso russo ma ha anche due regioni separatiste, l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, autoproclamatesi indipendenti e considerate dalla Georgia come territorio occupato. E per cui nel 2008 era stata combattuta una breve guerra, una situazione, seppur su scala inferiore, non diversa da quella del Donbass.
E infatti la Georgia aveva assecondato le sanzioni occidentali alla Russia del 2014 per l’annessione della Crimea. Ma nel 2022 pur avviando la richiesta formale per l’adesione all’Unione Europea la Georgia ha optato per un approccio molto più sfumato nelle sue relazioni con la Russia: non aderendo alle sanzioni occidentali, né fornendo aiuto militare all’Ucraina. E allo stesso modo garantendo accesso e possibilità di lavoro ai cittadini russi anche in assenza di visto fino ad un anno di permanenza.
Sogno Georgiano e Mosca
Elementi ritenuti da analisti e dai politici europei come un riassetto del partito Sogno Georgiano nell’orbita russa. Per il momento, al netto delle proteste contro la legge contro gli agenti stranieri ritenuta filo-russa (ma che pure potrebbe essere usata dalla Georgia anche in chiave anti-russa) la situazione resta comunque stabile e il rischio di una nuova rivoluzione colorata appare piuttosto remota. Troppo recente la memoria intorno agli scandali dell’ex presidenza Saakashvili e al suo partito filo-occidentale Movimento Nazionale Unito al governo per dieci anni dopo la rivoluzione delle rose alla fine del 2003.
Più complessa la situazione dell’Armenia, reduce dalla sconfitte militari con l’Azerbaijan nel 2020 e 2023 in merito alla questione del Nagorno Karabakh, l’ex-enclave armena in territorio azero. Una vicenda che risale alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, quando tra il 1992 e il 1994 si era combattuta tra Armenia e Azerbaijan la prima guerra del Nagorno Karabakh a tutela della popolazione cristiana all’interno dei territori dell’Azerbaijan e che aveva visto allora la vittoria armena.
Situazione ribaltata con la seconda guerra del 2020 e una prima vittoria azera con la riconquista di parte dei territori e infine la dissoluzione della Repubblica dell’Artsakh (denominazione ufficiale del Nagorno Karabakh armeno) dopo l’ultima offensiva azera del 2023. Offensiva che ha portato l’esodo di circa 100.000 armeni dalla regione contesa e alla definizione di nuovi confini.
L’oggetto delle proteste di massa in Armenia di questi giorni è proprio il passaggio di 4 villaggi Baghanis Ayrum, Asagi Eskipara, Heyrimli e Kizilhacili all’Azerbaijan. Villaggi che non si trovano nella fu regione contesa, bensì più a nord nella regione di Gazakh ma che erano stati occupati (rispetto ai confini delle repubbliche sovietiche) in seguito alla guerra dei primi anni ’90. Passaggio di questi villaggi fortemente voluto dal governo armeno come primo passo con una vera normalizzazione con l’Azerbaijan.
Ma che pure porta con se diverse incognite. Innanzitutto il ritiro delle truppe russe arrivate nel 2020 su richiesta armena come forza di peacekeeping e tutela dei propri confini. L’Armenia, a differenza delle Georgia, è infatti parte del CSTO, Collective Security Treaty Organization, l’alleanza militare di cui fanno parte alcune delle fu repubbliche sovietiche: Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan.
Se pure l’interposizione russa ha certamente contribuito a normalizzare la situazione dopo la guerra del 2020, per una parte dell’opinione pubblica armena la Russia non ha fatto abbastanza per la tutela dei loro confini. Valutazione fatta propria anche dal governo Pashynian. Un elemento che Mosca percepisce come narrazione anti-russa e filo-occidentale. Ma se l’Armenia cerca di trovare un equilibrio tra Russia e Occidente, deve fare i conti con la sua geografia. L’Armenia è una nazione che non ha sbocchi sul mare circondata da Azerbaijan, Turchia, Georgia e Iran. A differenza della Georgia che gode di uno sbocco sul mar Nero e ha una bilancia commerciale più varia il principale partner commerciale dell’Armenia è proprio l’Orso russo e altro partner rilevante è l’Iran, due nazioni invise al blocco Occidentale.
Prospettive?
La geografia e i confini sono quelli. Ma negli ultimi mesi il governo armeno ha cercato sempre più sponde a occidente, vedi la visita a novembre, del Ministro degli Esteri Ararat Mirzoyan a Londra, o le recenti interviste del primo ministro Nikol Pashinyan ai giornali britannici in cui rivendicava la scelta della cessione dei 4 villaggi all’Azerbaijan come modo per normalizzare le relazioni con la nazione vicina e cercare di svincolarsi dall’alleanza militare con la Russia.
Scelta di comunicazione che avrà rassicurato i politici europei, ma non certo l’opinione pubblica armena. Opinione pubblica che si è presentata in piazza a Yerevan, la capitale, proprio per protestare contro il governo. Governo considerato il vero colpevole dalle decine di migliaia di persone in piazza della mancata tutela dei confini nazionali. Una protesta che ha visto in prima linea anche le autorità religiose. Per il momento la protesta sembra aver motivato più i cittadini delle aree di confine, che temono che i quattro villaggi possano essere non l’inizio di una normalizzazione con l’Azerbaijan, bensì di un’erosione dei confini anche visto l’abbandono delle forze interposizione russe. Se anche gli abitanti della capitale Yerevan (che da sè fa un terzo della popolazione) si dovessero unire alla protesta, Pashynian potrebbe essere costretto alle dimissioni.
Pure al governo Pashynian non è mancato un certo pragmatismo nelle relazioni armeno-russe. A dicembre è stato firmato un contratto con l’agenzia nucleare russa Rosatom per mantenere in servizio la vecchia centrale sovietica di Metsamor, situata a 16 km dal confine turco, fino al 2036.
Centrale che provvede fino al 40 % dell’elettricità nazionale e dai destini incerti. L’impianto era stato chiuso nel 1988 dalla stessa URSS per precauzione in seguito a un terremoto, e poi parzialmente riattivata con un solo reattore dopo l’indipendenza nel 1995 per i problemi di approvvigionamento energetico.
Nel 2011 e nel 2021 l’AIEA, Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, l’aveva dichiarata sicura, ed era stata prorogata la sua attività fino al 2026. Ma il destino restava incerto con l’Unione Europea, la Turchia e il bollettino degli Scienziati Atomici (quelli dell’orologio dell’Apocalisse) a fare il tifo per la chiusura della centrale. Ventilando persino la possibilità di realizzare una nuova centrale con tecnologia statunitense. Un evidente segnale dello zio Sam per cercare di svincolare la nazione del Caucaso dall’Orso russo. Vedremo se il governo di Nikol Pashynian riuscirà a bilanciare le diverse spinte, o soccomberà di fronte alla questione dei confini settentrionali.