Perché si parla ancora di Nagorno-Karabakh (Il Venerdì di Repubblica 30.09.22)
Ci sono ferite della Storia che sanguinano da millenni e non conoscono pace. Popoli divisi da barriere così remote da perdersi nella notte dei tempi: cambiano persino le religioni senza sanare i conflitti. Così dietro ogni cannonata che in questi giorni armeni e azeri si scambiano nel Caucaso c’è lo scontro di etnie, culture e interessi incapaci di dialogare, convivendo a fatica soltanto sotto il giogo imperiale, che si trattasse delle fulminanti conquiste di Alessandro Magno o della lunga oppressione sovietica. Gli armeni: eredi orgogliosi di un regno più antico di Roma, convertiti da due degli apostoli e diventati il primo Stato in assoluto ad adottare il cristianesimo, per poi animare una diaspora senza confini. Gli azeri: culla dello zoroastrismo con il fuoco eterno che spunta dalla montagna, indizio della futura ricchezza petrolifera, eternamente in bilico tra il rapporto con la Persia e quello con i conquistatori turchi venuti dall’Asia, passati dagli sciamani all’Islam. In comune hanno pochissimo. Nella mitologia di entrambi però compare una figura, il Peri, che talvolta è angelo e talvolta è demone. Nel corso dei secoli azeri e armeni si sono alternati nel ruolo di vittime e carnefici, rendendo difficile distinguere le responsabilità.
Il richiamo delle armi
Si sono sfidati con le lance, adesso lo fanno con i droni. Ma la dinamica geopolitica che innesca le guerre tra Armenia e Azerbaijan è più o meno la stessa: da una parte ci sono la Russia e l’attrazione dell’Occidente; dall’altra la Turchia e l’influsso dell’Iran. Il richiamo delle armi è testimoniato dalle statue che svettano nelle due capitali. A Baku c’è Koroghlu, il condottiero che sfodera la scimitarra guidando l’orda turca attraverso le steppe: gli azeri lo hanno voluto di ventitré metri; uno in più di “Madre Armenia”, che impugna una spada gigantesca e ricorda a tutta Erevan che la pace si costruisce soltanto con la forza.
“Madre Armenia” ha preso il posto di un altrettanto colossale Stalin nel 1967, segnando forse il primo rigurgito di nazionalismo nell’Urss. All’epoca a Mosca il fatto che riproducesse le fattezze di un’eroina della resistenza contro i massacratori turchi non ha destato preoccupazione: tutto sommato si trattava di una partigiana e Ankara era la testa di ponte della Nato in terra asiatica. Mano a mano che l’impero sovietico si sgretolava, però, quel simbolo ha assunto un significato sinistro. Perché prima ancora che Gorbaciov ne decretasse la fine, la compattezza dell’Urss si è infranta in una piccola regione ignota ai più: il Nagorno Karabakh. Un’enclave armena all’interno della repubblica azera, dove gli abitanti scendono in strada già il 20 febbraio 1988 invocando l’indipendenza senza che nemmeno l’intervento dell’Armata Rossa riesca a riportare la calma. Quando il primo gennaio 1992 la bandiera con la falce e martello viene definitivamente ammainata, le neonate Armenia e Azerbaijan si impadroniscono degli arsenali sovietici e in trenta giorni comincia la battaglia. Che prosegue ancora oggi.
Stile Corto Maltese
In fondo, la radice del problema è la stessa del Donbass. Né Lenin, né Stalin avevano dedicato attenzione alle comunità intrappolate nei confini delle repubbliche sovietiche, ucraini o russi, maomettani o cristiani non facevano differenza perché contava l’universalità bolscevica. Alla caduta degli zar, nel novembre 1917 azeri, armeni e georgiani avevano addirittura provato a unirsi in una Federazione Transcaucasica d’impronta rivoluzionaria ma l’esperimento è durato poche settimane. Baku era il cuore di uno dei rari giacimenti noti di petrolio, decisivo per le sorti del conflitto mondiale. Quando gli ottomani marciano sulla città, gli azeri si schierano dalla loro parte. Allora bolscevichi e armeni se ne impossessano, facendo strage dei mercanti musulmani. Sono vicende raccontate da Peter Hopkirk in Servizi segreti a oriente di Costantinopoli, appena pubblicato da Settecolori: l’autore de Il Grande Gioco descrive l’intreccio di spie e avventurieri in stile Corto Maltese che hanno segnato la metamorfosi del Caucaso.
Effetto glasnost
La vittoria finale di Lenin nel 1921 schiaccia le etnie e le priva di significato politico, incastrandole nelle frontiere artificiali tracciate sulla mappa come in un puzzle che per settant’anni resta compatto. La glasnost di Gorbaciov ricomincia a far pulsare le ferite della Storia e il Nagorno Karabakh è la prima dove scorre il sangue. Le milizie armene saccheggiano i villaggi azeri. Nel 1992 Baku parte all’attacco e c’è un continuo rovesciamento di fronti, con le sorti della battaglia che sembrano a lungo incerte. Solo dopo due anni i secessionisti ottengono una serie di risultati decisivi e si arriva al cessate il fuoco. Il prezzo è terribile: le stime parlano di 30 mila morti, 80 mila feriti e quasi 400 mila profughi con i belligeranti che si scambiano accuse reciproche di brutalità.
Non è una vera pace. E nessuna azione diplomatica riesce a consolidare la tregua. Nel frattempo il mondo cambia e poco alla volta l’Armenia si ritrova geograficamente isolata da Mosca. Sul suo confine settentrionale la Georgia si lega agli Stati Uniti e accresce la pressione su altre enclave contese. Lo scenario si complica. Perché Putin vuole mantenere l’alleanza con Erevan ma pure fare affari con Baku. Teheran invece dopo avere benedetto la nascita dello Stato azero in nome della comune confessione sciita, rompe i rapporti e aiuta gli armeni. Di questo approfitta Israele, che diventa partner militare dell’Azerbaijan e ottiene una posizione straordinaria per tenere d’occhio l’Iran.
Fragili tregue
Il protagonista del Risiko è però l’ambizione di Erdogan. Ha bisogno di energia per la crescita turca e costruisce un oleodotto che parte da Baku passando dalla Georgia: quel tubo sigilla un patto di ferro tra i due Paesi e arricchisce l’Azerbaijan. Dal 2005 il Pil decuplica, superando i 70 miliardi di dollari l’anno, e poi si assesta: nel 2020 è di 42 miliardi. Può permettersi di spendere cifre enormi per modernizzare esercito e aviazione: turchi, russi e israeliani fanno a gara per rifornirlo. Di fatto, l’Armenia è chiusa in un angolo sopra a una bomba ad orologeria.
L’intensità delle scaramucce nel Nagorno Karabakh aumenta in proporzione al benessere azero. E all’improvviso il 2 aprile 2016 parte l’assalto, che coglie di sorpresa le milizie armene. È un blitz pianificato con cura grazie ai consiglieri turchi, con un’ondata di incursioni appoggiate da aerei ed elicotteri. Erdogan dice di essere pronto a sostenere il suo alleato “fino alla fine”. In quel momento però le relazioni tra Ankara e Mosca sono pessime e il Cremlino non è disposto a cedere spazio: Putin impone la tregua dopo quattro giorni di battaglia feroce.
Carosello infernale
È soltanto una pausa. La distensione tra Russia e Turchia convince presto il governo di Baku a rimettersi in marcia. Il 27 settembre 2020 torna all’attacco, scatenando raid tecnologici senza precedenti. Riempie il cielo di droni turchi e israeliani. Sistemi da ricognizione individuano ogni movimento avversario e lo segnalano al tiro di precisione dell’artiglieria. Bombardieri teleguidati Bayraktar lanciano missili sui tank. Esordisce persino un’arma inedita: le loitering munitions o droni kamikaze, che restano in volo finché non scoprono i bersagli e ci si gettano sopra.
Un carosello infernale di macchine hitech decima le basi armene. Putin questa volta non ha fretta: è già concentrato sulla prova di forza in Ucraina e non vuole irritare Erdogan. Interviene solo quando le colonne azere rischiano di dilagare: dopo la caduta della città chiave di Susha, convoca i due presidenti rivali e ferma i combattimenti. In 44 giorni il bilancio ufficiale conta 6.731 morti tra i soldati dei due eserciti. Baku riconquista la totalità dei territori persi vent’anni prima: a unire Armenia e Nagorno Karabakh resta una strada di montagna – il Corridoio di Lachin – presidiata da una “brigata di pace” mandata da Mosca. Per Erevan è uno choc, con ripercussioni enormi sull’intera società: scendono in piazza partiti filo-occidentali e filo-russi, la folla irrompe nel parlamento e le proteste vanno avanti per mesi. Tutti gridano al tradimento del premier Nikol Pashinyan e pure Putin prende le distanze, dichiarando pubblicamente che il capo del governo avrebbe potuto accettare il cessate il fuoco un mese prima, limitando i danni.
Due anni dopo Pashinyan è rimasto al suo posto. La bilancia delle armi pende ancora di più verso Baku. Perché la Turchia è sempre più influente mentre il Cremlino si è impantanato nell’invasione dell’Ucraina. Poche ore dopo la sconfitta russa a Izyum, l’Azerbaijan coglie l’attimo per colpire. Dal 12 settembre droni e artiglieria martellano le truppe armene, costrette a una inesorabile ritirata: le tregue negoziate da Mosca vengono ignorate. Ma adesso c’è chi è intenzionato a mettersi di mezzo tra Erdogan e Putin: la Casa Bianca. La presidente della Camera Nancy Pelosi vola a Erevan, il segretario di Stato Antony Blinken convince le diplomazie a parlarsi. Può essere l’inizio di una speranza. Oppure il segnale di quanto siano diventati pericolosi i conflitti ereditati dall’era sovietica, focolai di un’infezione bellica che oggi rischia di contagiare potenze vecchie e nuove.