Passaggio in Armenia. Racconti di rifugiati dall’Artsakh (Nagorno Karabakh) (Mentinfuga 17.03.24)
Sono passate due settimane da quando sono tornato. Ho ancora i soldi armeni nel portafoglio. Riaffiorano istanti quotidianamente e la portata di quello che ho vissuto non è ancora perfettamente elaborata. Tutto è ancora avvolto in una nuvola di pensieri.
Cerco di far luce dall’inizio. Non ho nessuna pretesa di spiegare un paese, solo di raccontarvi quello che ho vissuto in questo mio primo soggiorno a Yerevan.
Andare in Armenia è un viaggio nel viaggio. Per alcuni aspetti è quasi commovente. Si ha quasi la sensazione di un viaggio antropologico, in pochi chilometri sembra poter attraversare epoche differenti. Si passa dall’Armenia sovietica a quella post sovietica, da quella che guarda all’occidente con quartieri eleganti, dove i ricchi e i nuovi ricchi bevono espressi italiani a due tre euro a tazza a quella dei poveri.
A poche centinaia di metri si scorgono le periferie, oscure come in ogni parte del mondo e le case col tetto di lamiera, oppure le grandi chiese piene di devoti. Hai la sensazione che l’aspetto religioso sia predominante nel paese, e che sembra esserci un velo di magico quando giovani e anziani recitano le preghiere. Vedi la vicinanza delle persone e quel un senso di appartenenza che non riconosco, per l’ho mai sentito ma non l’ho mai visto in altre parti del mondo in cui sono stato. Credo che questo possa derivare dalla profondità della loro storia, fatta di martiri, eroi, diaspore, genocidi e anche di traditori.
Attraverso queste epoche poi se cerchi trovi chi scappa dalla guerra.
La sensazione di essere in un paese sull’orlo di una guerra a volte si avverte girando per la città.
L’ho sentita e l’ho vista spesso negli sguardi diffidenti delle persone che osservavano infastidite il mio girare con la macchina fotografica. Ho visto le reazioni rabbiose al mio fotografare e li calmava solo il fatto di essere italiano.
Mi spiega Archimandrita Tovma Khachatryan, monsignore, durante una chiacchierata nel centro per i giovani della chiesa armena, che c’è in atto una campagna di fake news dai paesi confinanti che minano la stabilità del paese e questo conferma l’altra faccia della guerra e come questa arrivi a profondità sconosciute.
Il centro accoglie i giovani di origine armena di tutto il mondo, che in visita nel paese partecipano a seminari e congressi. Gli armeni sono circa dodici milioni di cui solo tre milioni abitano nel paese.
Quindi questo lavoro di raccordo fra le comunità di tutto il mondo richiede impegno e costanza.
Monsignore Tovma è un caro amico di Shake la mia amica cuoca armena, che ho conosciuto al Laboratorio antropologico del cibo (LAC) e che con i suoi racconti attorno ad un tavolo mi ha affascinato. Questo è stato uno dei tanti motivi che mi hanno spinto ad andare in Armenia.
Sapevo di non voler fare il turista ma quello che sembrava complicato era trovare una chiave di lettura. Anche qui è intervenuta Shake attiva nella comunità armena che mi ha messo in contatto di Teresa Mekhitarian.
Teresa, armena anch’essa, vive nella Svizzera Italiana e dopo una carriera di alto livello nella finanza ha lasciato tutto per fondare l’onlus Il Germoglio per occuparsi di aiuti umanitari nel paese. Grazie a queste due persone ho avuto la possibilità di cominciare a mettere le basi per questo racconto. Grazie a loro sono entrato in contatto con rifugiati del Nagorno Karabakh o dell’Artsakh, come chiamano gli armeni il paese.
Durante la visita a Echmiadzin, in pratica il Vaticano armeno, ho potuto visitare un centro di accoglienza della chiesa dove vivono una quindicina di famiglie sfollate dall’Artsakh durante la guerra lampo di settembre 2024 con cui l’Azerbaijan ha conquistato, nell’indifferenza generale, quelle terre.
Mi accoglie il Diacono Samvel contattato precedentemente grazie Monsignore Tovma.
Appare preoccupato, probabilmente non capita molto spesso che qualcuno si presenti per vedere di persona cosa succede. Fuori, tutto in torno la vita appare normale, case basse, piccoli ristoranti, persone nei bar, chiese e matrimoni raccontano un’altra Armenia. Anche le persone ospiti della casa ci guardano incuriosite, e abbiamo un bel da fare a rassicurare il diacono che con questo materiale ci scriverò inizialmente un articolo e che il resto diventerà parte di un racconto per immagini. Mi salva il fatto che scrivo per Mentinfuga, quindi da questo momento in poi, io e mio figlio Gabriele che mi ha accompagnato in questo viaggio, diventiamo ufficialmente i «giornalisti» italiani.
Samvel ci accompagna in un rapido giro della struttura, precedentemente usata per gli studi dei futuri preti. Ora come detto accoglie queste famiglie, e con molta discrezione ci accompagnano all’interno di uno di questi appartamenti fatto da una stanza dove si vive e da un bagno.
La stanza una buona metà è occupata da un letto matrimoniale, poi una cucina e una finestra che da su un cortile interno.
Ci abita una famiglia di tre persone, marito moglie e un figlio. David, Alyona e Hayk.
Abitavano a Shushi e conducevano una vita serena prima della grande fuga. Lui lavorava per la chiesa locale, e adesso che sono senza un reddito, sperano di poter trovare un lavoro che permetta di poter finalmente avere una casa. Non sarà facile in un paese dove nel 2021, secondo la Banca mondiale, circa il 27% degli armeni vivono in povertà. Ma David è da qui che dovrà cominciare a pensare ad una nuova vita. Il dolore negli occhi e lo sguardo che appare lontano, danno una compostezza alle poche frasi tradotte da Samvel. Non è facile immaginare come possa essere la vita ora dopo che in un breve lasso e straziante periodo di tempo passi dalla serenità al non possedere più nulla e dover abbandonare i luoghi dove sei nato e dove le famiglie hanno vissuto intere generazioni.
Diventare un profugo. Questa stanza ha tutto il necessario, ma manca di quel calore che fanno della casa un ambiente che ti appartiene e dove torni per sentirti per trovare le tue sicurezze.
Lasciamo la stanza, per andare nella zona comune, li dove le persone cucinano e mangiano assieme. Nel salone troviamo una grande libreria e un pianoforte, un signore guarda la televisione ma sembra un pretesto e appare lontano. Entrando nella cucina due signore sono ai fornelli: c’è della pasta in una padella e, se capisco bene, dall’altra della borsch, una zuppa. L’atto di cucinare è quasi curativo, le persone dialogano e tutto ha una dimensione che pare serena. Senza il diacono è impossibile dialogare ci scappano solo sorrisi e un segno di sorpresa da parte loro. Ma non sembrano infastidite anzi intuisco curiosità.
Tornando nella grande sala ci aspetta Samvel con una signora appoggiata al pianoforte a cui si aggiunge il signore che guardava la televisione. Sono Arthur e sua moglie Anahit, in questo momento vivono qui assieme al loro unico figlio rimasto vivo, Maxim. Hanno perso gli altri due figli nello scoppio di un deposito di carburante nella capitale dell’Artsakh, Step’anakert da dove vengono. A Step’anakert dagli azeri i è stato cambiato il nome n Khankendi. Gestivano un piccolo bar ristorante e ora sperano, per poter continuare di poter lavorare di nuovo nella ristorazione.
Continua ad esser difficile avviare conversazioni, la lingua ci ostacola, e a questo sii aggiunge la nostra sensazione di essere di troppo. Trovare parole adeguate sembra un’impresa, più facile frapporre il mezzo fotografico. La macchina fotografica che un tempo mi sembrava un ostacolo quando si interponeva fra me e le persone qui mi sembra un’utile alleata.
L’arrivo dei bambini crea un clima disteso, più sereno. Come spesso accade sembrano essere generatori di una nuova linfa vitale laddove questa sembrerebbe essere sparita. Quegli sguardi, quella furbizia, quella curiosità che solo i bambini sono in grado di esprimere hanno alleggerito la nostra posizione togliendo quella sensazione di essere di troppo. Prima di uscire assistiamo a frammenti di vita con un anziano seduto vicino alla porta che dialoga con tutti, alcuni signori intenti a sistemare lampadine e poi una famiglia con un bimbo piccolo che si fa scattare una foto.
Lasciamo la struttura con Samvel che ci accompagna alla cattedrale dove ci salutiamo.
Io e Gabriele usciamo emozionati, e solo la nostra condizione di turisti ci fa allevia per quello che abbiamo visto.
Tornando a Yerevan resto stupito, la vita sembra scorrere normale, nel centro i ristoranti sono pieni di gente allegra, sembra quasi che centoventimila profughi dell’Artsakh siano qualcosa di inesistente. Forse questa allegria a volte potrebbe essere un rimedio forzato per dimenticare il possibile pericolo di una guerra alle porte
Per qualche giorno cercheremo di fare esclusivamente i turisti, anche perché Teresa essendo impegnata nelle spedizioni di aiuti umanitari non ci ha ancora contattati. Osserviamo sorpresi quello che resta della vita sovietica, l’Armenia era parte dell’URSS fino al 21 settembre 1991 quando dichiarò la sua indipendenza. Affascinati da architetture scarne e dure che non lasciano nulla alla bellezza, ma che erano un prototipo di funzionalità estrema. Mercati, resti di statue di Lenin, vecchie fabbriche scorrono via come particolari visti solo nei film.
Quando avevo perso le speranze di poter collaborare con Teresa, a un paio di giorni della partenza, tutto diventa frenetico. Teresa mi organizza due incontri con famiglie sfollate da Step’anakert, ci accompagnerà una sua amica, una professoressa universitaria che insegna italiano.
Una signora incantevole, Araksya che ci farà oltre che da traduttrice anche da guida e da supporto.
Su un taxi dopo un po’ di chiacchere sulle rispettive vite arriviamo in una zona periferica di Yerevan.
Ci accoglie Bella, e entrando in questa casa scarna, la prima cosa che si nota sono tre grandi foto di militari sopra un buffet. Intorno fiori e candele. Un’atmosfera difficile da sostenere. I militari sono i suoi due fratelli, David 36 anni e Sasuntsi 32. Il terzo è il loro cugino. David è stato ucciso dallo scoppio del deposito di carburante il 19 settembre, mentre Sasuntsi e il cugino sono morti pochi giorni dopo per le ferite riportate nello scoppio.
Bella in Artsakh era un’infermiera del reparto di rianimazione e si tormenta perché il fratello e il cugino sono passati nel suo reparto e lei non li ha riconosciuti. Nella stanza arrivano i genitori e l’atmosfera diventa ancora più cupa.
L’aria è immobile, tutto è immobile noi nel mezzo di tutto questo.
Questa casa non ha niente di personale – a parte le foto – indicandone la loro condizione. Sento l’impulso di fuggire dal dolore che aleggia. Il dolore è dovunque: sulle pareti, nei respiri e nei sospiri, negli sguardi e dalla mancanza di luce negli occhi. Ecco gli occhi sembrano vuoti, non sembra esserci speranza.
Mi riscuoto come da un sonno profondo. Di colpo penso solo alle fotografie, con la mente esco dal loop che ha avvolto la stanza, più avanti avrei avuto modo di riordinare i pensieri e realizzare a fondo ciò a cui avevo assistito.
Ho imparato negli ultimi anni come non farmi travolgere dalle emozioni, ma è sempre difficile come in questo caso
Isolandomi mentalmente riesco a ottenere qualche scatto e fare qualche domanda.
Bella che ha trovato lavoro come infermiera si divide fra la casa dove aiuta i genitori anziani e la figlia ma non ha modo di poter distrarre la mente con una figlia da crescere e un lavoro in ospedale.
Ci confessa che non potrebbe più lavorare in terapia intensiva e che quindi lavora solo come infermiera generica
Il papà di Bella non ha detto una parola, la mamma Mariana piange continuamente e ripete che avrebbe dovuto essere lei a morire.
Non riusciamo a stare più dentro e salutando usciamo in silenzio.
Quello che mi colpisce ripensandoci sono le cose che non trovo in quegli spazi, il calore, gli oggetti, la personalizzazione degli spazi, la mancanza di profumi e odori. Solo pacchi e valige pieni di tutto quello che era la loro vita, sulle pareti un’immagine di una madonna, niente di più.
Gli oggetti nelle case raccontano le vite. Scappando hanno preso solo il necessario, lasciando pezzi della loro vita indietro. Hanno lasciato le case immediatamente per affrontare un viaggio lunghissimo.
Le guerre non generano solo morti, lasciano tragedie vive, dolori difficili da dimenticare e poi rabbia, rancori.
La scrittrice georgiana, Nino Haratischwili nel suo libro La luce che manca racconta la guerra civile nel suo paese e dice: «nel corso del tempo, questa logora valigia marrone, piena e nascosta sotto il letto, è diventata il simbolo degli eventi colossali, vulcanici che possono irrompere nella nostra vita da un giorno all’altro, devastando quello che abbiamo costruito in anni di duro lavoro».
Forse è quello che è successo alla famiglia di Bella.
Forse le famiglie in Artsakh avevano già pronte le valige, dato che il loro paese era ormai isolato dal dicembre 2022.
Una cena a casa di amici serve a lenire stati d’animo pesanti, sentire altri racconti serve a farci avere un’altra immagine della millenaria storia Armena.
Sentiamo storie sulla moschea blu, l’unica rimasta attiva a Yerevan, su luoghi che non conosciamo e che dovremmo, sulle differenze fra il cibo italiano e il cibo armeno. Una serata che ci riconcilia, Onik e la sua famiglia sono ospiti impeccabili e ci restituiscono un sorriso. L’indomani avremo un altro incontro.
Dopo una giornata turistica verso sera ci incontriamo di nuovo con Araksya.
Trovare un taxi all’ora di punta in un traffico infernale è un’impresa, quindi saliamo su un autobus, questo dovrebbe portarci nel quartiere dove abita la famiglia con cui Araksya sta tenendo i contatti.
Ci aspettano per le sette e mezza ma dopo un’ora di bus non abbiamo fatto neanche un centinaio di metri.
Sull’autobus io e Gabriele ci sentiamo quasi come marziani, non deve succedere spesso di vedere turisti su una linea che va in periferia. La fortuna ci viene in aiuto ancora una volta, una giovane ragazza salendo sul bus riconosce Araksya che era la sua insegnante di italiano e grazie a lei riusciamo a prenotare un taxi poche fermate più avanti.
Arriviamo a casa della famiglia che sono passate le otto e mezza.
Ci accolgono due signore, sembrano sorelle. Invece alle presentazioni scopriamo che Zara è la mamma di Victoria.
Per casa ci sono due bambini, Ashot figlio di Zara e Menora figlia di Vicoria.
Anche questo appartamento è spartano e poco è lasciato alla bellezza. È un rifugio temporaneo e forse nessuno ci metterebbe il cuore. Alle pareti attaccate delle bambole. Non capisco il loro scopo ma onestamente le trovo inquietanti.
Anche loro vengono da Step’anakert dove con tutti i risparmi Zara aveva comprato una casa grande che accoglieva le due famiglie. Ora sono entrambe vedove, i loro mariti sono morti allo scoppio del deposito di carburante, e sono sepolti in città. Il figlio di Zara che ha circa sei anni e frequenta la prima elementare, non voleva venire via perché il papa è rimasto laggiù. Menora invece che ha due anni gira gioiosa per casa, è contenta della nostra presenza osserva divertita le fotografie che gli ho scattato per lei è quasi una festa.
In qualche maniera è una piccola festa, anche se arrivati tardi imbandiscono la tavola con biscotti, brioche, caffè e the.
L’atmosfera per quando dolorosa appare differente rispetto a casa di Bella, diverse sono le tragedie e poi i bambini costringono le due donne a reagire sempre a prescindere dai loro stati d’animo.
Menora è un polo di attrazione salta dovunque, mentre Ashot non vuole essere fotografato e appare triste.
Attualmente solo Zara sta lavorando, Menora è piccolina e quindi Victoria deve rimanere a casa a curarla. Lo stipendio di Zara ci dice equivale a circa duecentocinquanta euro al mese, e non basta neanche a pagare l’affitto che costa quattrocento euro circa al cambio attuale. Se non li aiutasse Teresa con l’associazione non potrebbero farcela. Da quando è scoppiata la guerra in Ucraina molti russi sono scappati in Armenia e i prezzi – ci dicono – sono triplicati se non di più.
Prima – racconta Araksya – con uno stipendio medio si pagava l’affitto e si riusciva a risparmiare qualcosa, adesso tutto è cambiato. In questa periferia dove le case non sono diverse dalle altre periferie del mondo gli affitti costano cari.
Chissà quanti dei centoventimila fuggiti dall’Artsakh sono rimasti fuori dei radar, senza aiuti e supporti.
Zara ci dice che la loro casa sembra essere stata occupata e a loro non rimane nulla, lei ci aveva investito tutti i risparmi perché quello era il sogno della sua vita. Zara ha altri due figli che adesso sono lontani da Yerevan.
Penso a Victoria, praticamente una ragazzina, in Italia sarebbe nel pieno della sua vita, studi, amici, amori e aperitivi e invece si ritrova vedova senza un lavoro e con una figlia piccola da crescere.
Con i nostri pensieri, con le nostre domande senza risposta lasciamo le due signore, possiamo augurarci che la vita le riservi qualche rivincita, sono due belle persone. Hanno un carico di sofferenza che probabilmente noi occidentali potremmo non provare per diverse vite, e mi viene in mente spesso il pensiero che la fortuna inizia o scompare a seconda di dove nasci.
Siamo alla partenza, lasciamo Yerevan con un carico di sensazioni ancora non completamente svelate.
Mentre andiamo in aeroporto Teresa ci messaggia dicendoci che le due signore sono state felici della nostra visita, che abbiamo portato loro un portato un pizzico di spensieratezza. Questo in parte risponde ad alcuni dubbi che mi assillavano.
Il nostro viaggio e quindi le nostre visite servivano realmente oppure era solo voyerismo da parte mia?
Credo, dopo avere avuto molti ringraziamenti per l’interessamento, che la mia volontà di farci un lavoro finalizzato a raccontare quello che succede ai profughi sia importante.
Lo vorrei portare avanti.
Questo lavoro mi ha fatto sentire bene, raccontare mi apre il cuore.
È stato come ricevere uno schiaffo. Ascoltare i racconti di guerra dalle persone non è come leggerle sui giornali o sentirle nei telegiornali.
Quando il dolore è di fronte a te cambia tutto.
Io so fare fotografia e penso che ognuno debba fare qualcosa dove riesce meglio, ecco io vorrei fare questo e se ci saranno le condizioni cercherò di continuare a raccontare.
Mi rendo conto che guardando gli scatti realizzati non c’è nulla che permetta allo spettatore di distogliere lo sguardo dall’essenza delle storie che le persone hanno condiviso.
È come se per questi racconti il mio sguardo di fotografo avesse dimenticato la ricerca di tutti quegli elementi che hanno caratterizzato il mio modo di ritrarre il mondo.
Tutto è stato essenziale, non c’è stato spazio per l’estetica fine a se stessa.
In questi giorni ho scambiato dei saluti con Araksya, e lei mi scrive che questi incontri non potrà dimenticarli e che cercherà di mantenere i contatti con queste famiglie.
Sono d’accordo con lei e credo che sia importante creare reti e connessioni.
A distanza di quindici giorni ho ancora i brividi nel raccontare questo.
Quello che resta impresso nella mia mente è quella luce che manca nei loro occhi, solo Menora mi sembra possederla ancora.
Soprattutto spero, che le Menora dell’Armenia siano la futura speranza.
Francesco Lorusso