Pashinyan e l’Armenia di domani (Osservatorio Balcani & Caucaso 25.05.18)
Nikol Pashinyan è diventato premier, la cosiddetta rivoluzione di velluto armena ha dato i suoi frutti. Ora però inizia la vera sfida, cambiare il paese. Per poterlo fare il neo-premier avrebbe bisogno quanto meno di una maggioranza parlamentare
La rivoluzione diventa brand e fa tendenza – anche nei giochi di società. “Da oggi il monopolio deve essere solo un gioco”, è stato lo slogan usato per il lancio di K’ayal ara (lett. “fa’ qualcosa”), una sorta di versione armena del Monopoli nonché l’ultimo, in ordine di tempo, degli oggetti plasmati dal marketing sulla scia dell’entusiasmo rivoluzionario che ha portato alle dimissioni del veterano leader Serzh Sargsyan e alla nomina a Primo ministro dell’attivista Nikol Pashinyan.
La rivoluzione di velluto, come definita dallo stesso neo premier, segna un cambio di marcia fondamentale nella storia politica del paese dall’indipendenza del 1991. Accantonata l’apatia post-sovietica, il 42enne ex giornalista ha promesso di svecchiare l’apparato istituzionale, di fare pulizia tra i ranghi, e di ripulire il sistema dei monopoli che ha frenato lo sviluppo dell’Armenia, condannando un terzo della popolazione a povertà ed emigrazione .
Tra volere e potere
La popolarità di “Pashinyan il Pasionario” è alle stelle, una posizione privilegiata per guidare con successo il nuovo governo, pur navigando a vista nel complesso panorama politico del paese. Le critiche non mancano, ma al momento gli osservatori si dividono tra cauti e ottimisti. Anna Ohanyan è tra questi ultimi. Secondo la docente di scienze politiche dello Stonehenge College del Massachusetts, il movimento armeno ha indicato una possibile strada da percorrere ai “regimi ibridi”, ovvero ai governi che, come l’Armenia sotto Sargsyan, sono in precario equilibrio tra democrazia e autoritarismo. Il successo armeno, aggiunge, è legato alle stesse radici del movimento.
“La storia insegna come le transizioni clamorose, imposte dall’alto o guidate da un élite non hanno esito positivo”, ha detto nel corso di una conferenza organizzata dall’Istituto di studi armeni dell’Università della California meridionale. “La protesta armena è stata strategicamente pacifica, è partita dalla base, ed è rimasta [rispettosa] delle istituzioni. Queste sono fondamenta che promettono bene. [Pashinyan] ha dato forma a un impegno civico che è partito “dal basso”, e che è vitale per prevenire una rinascita autoritaria”.
L’impegno di rinfrescare l’esecutivo è stato, in parte, mantenuto. Il nuovo governo vanta professionisti under 40 come Tigran Avinyan, che a 29 anni è il più giovane vice primo ministro della storia armena, ma include anche personalità in posizioni di potere già nel passato, come Davit Tonoyan, al ministero della Difesa, e Atom Janjughazyan, alle Finanze: entrambi avevano già ricoperto l’incarico di vice ministro nei rispettivi dicasteri.
Queste decisioni sono in linea con l’impegno dichiarato di evitare le “epurazioni”, ma riflettono anche un’abile, nonché necessaria, strategia politica basata sui numeri – quelli che non ci sono. Le risorse di Pashinyan sono ridotte ai minimi termini, o meglio, ai minimi seggi. La coalizione parlamentare Yelk (Via d’Uscita) della quale il suo partito, il Contratto civile, fa parte, detiene 9 seggi su 105 disponibili nell’Assemblea nazionale. Il Partito repubblicano fa la parte del leone con 69. Tra il voler ripulire il paese dalle pratiche dell’ancient regime e il poterlo fare, la nuova leadership ha quindi bisogno di raccattare il più ampio consenso parlamentare e sta quindi lavorando con altri partiti – soprattutto “Armenia prospera” dell’uomo d’affari Gagik Tsarukyan e la Federazione Rivoluzionaria (noto anche come Dashnaktsutyun) già partner della coalizione che sosteneva l’HHK di Sargsyan. L’idea è togliere le mele marce e corrotte, ma non buttare via la cassa.
Altre promesse non sono state mantenute. Nel discorso che ha preceduto la sua nomina in Parlamento, Pashinyan ha lodato il ruolo fondamentale delle donne nella mobilitazione dello scorso aprile, affermando che questo ruolo sarebbe stato premiato. La nomina di sole due donne alla guida di un dicastero – Lilit Makunc alla cultura e Mane Tandilyan al lavoro e affari sociali – ha fatto storcere nasi e generato non pochi rimproveri in rete.
Tra le voci caute, o per lo meno in attesa, c’è Armine Ishkanyan, docente alla London School of Economics. “Nonostante tutti i discorsi [di Pashinyan], non è ancora chiaro quale sia la sua agenda socio-economica”, ha spiegato l’esperta a Eurasianet .
La sfida immediata è il consolidamento. È necessario ridisegnare la legge elettorale, che attualmente favorisce l’HHK, per andare alle urne al più presto e, nel frattempo, riuscire a mantenere alto l’entusiasmo e il sostegno verso Pashinyan fino al giorno del voto che il premier vorrebbe per l’autunno .
La lezione delle rivoluzioni colorate, e sbiadite
Tenere vivo il fuoco della passione non è facile, anche in tempi di social network. E considerato il carattere anomalo dell’esperienza armena viene spontaneo chiedersi: fu vera rivoluzione? Per Micheal Cecire, analista presso il think tank New America di Washington, dipende da chi fa la domanda – e da chi risponde. Gli ultimi quindici anni di storia nello spazio post-sovietico insegnano come l’espressione “rivoluzione” sia diventata sinonimo di movimenti anti-russi, manovrati da organizzazioni che promuovono un modello di democrazia occidentale o agenzie di intelligence. “La retorica [del Cremlino] le ha anche definite una forma di guerra ibrida occidentale”, spiega Cecire che riconosce alle proteste armene notevole astuzia.
Pashinyan ha fatto sua la strategia di movimenti del passato, come Eletric Yerevan , e ha accuratamente dribblato i riferimenti alle varie rivoluzioni colorate e floreali, sottolineando come alla base della contestazione c’erano specifiche ragioni interne al paese. Come ha scritto Thomas de Wall, analista del Carnagie Institute di Londra, “a volte le proteste in Armenia altro non sono che proteste armene”, a dire che le letture geopolitiche non sono etichette che si possono appiccicare ovunque. Il neo premier e i suoi non solo si sono premurati di sottolineare che non c’era una chiave anti-russa – leggendo pubblicamente un comunicato del Cremlino che riconosceva e rispettava il carattere “interno” della protesta – ma il distacco misurato di Mosca, le congratulazioni affrettate a Pashinyan, e l’incontro di quest’ultimo con Vladimir Putin meno di una settimana dalla sua nomina suggerisce che la strategia ha funzionato.
Gli osservatori sperano che il cambio di regime mantenga il suo carattere anomalo, se non altro perché il fresco vento riformista soffiato dall’Ucraina al Kirghizistan passando per la Georgia tra il 2003 e il 2014 si è trasformato presto in una macchia appiccicosa. Guardando alla Rivoluzione delle rose, un successo poi impantanatosi, David Usupashvili, indica tre pericoli dai quali l’Armenia deve guardarsi. “Negli anni la rivoluzione si trasformò in una battaglia tra politici buoni e cattivi, non tra politiche buone e cattive”, ha spiegato l’ex presidente del parlamento georgiano, aggiungendo come sia una metamorfosi deleteria. “Poi, il nuovo governo deve avere una strategia d’uscita (…) perché, al di là delle politiche attuate, nessuno deve pensare che un buon governo coincida solo con una particolare squadra o individuo e il trasferimento pacifico del potere è la chiave dello sviluppo democratico”.
Ma è nel rapporto con i cittadini che alberga la prova più dura – e che ogni rivoluzione post-sovietica ha fallito, in varia misura.
“Alla caduta dell’URSS il concetto di ‘persona’ per i nuovi governi è passato da ‘compagni sovietici’ a ‘elettori democratici’. Abbiamo saltato a piè pari la visione dei ‘cittadini’. I politici guardano alla popolazione in termini di voti, quelli che sono loro necessari per rimanere al potere. Fare di ogni armeno un cittadino è il grande lavoro che attende la nuova leadership”.
Il nodo del Nagorno Karabakh
La gestione della bomba a orologeria che è il Nagorno Karabakh rimane l’altro nodo chiave a livello di politica internazionale, anche se strettamente legato alle dinamiche interne. Il conflitto con l’Azerbaijan per il controllo della regione ufficialmente in territorio azero, ma di fatto indipendente, rimane una spada di Damocle e la necessità di (ri)svegliare i negoziati che si trascinano senza risultati dal cessate il fuoco firmato nel maggio del 1994 è reale. In un discorso in Piazza della Repubblica lo scorso 2 maggio Pashinyan ha ribadito che “la Repubblica del Nagorno Karabakh è una parte inseparabile della Repubblica di Armenia”.
Se l’unificazione con l’Armenia era il fine del movimento del Karabakh, sorto nel 1988, l’indipendenza è oggi l’obiettivo principale della regione abitata oggi da circa 150.000 armeni per i quali il legame con Yerevan rimane comunque imprescindibile.
Il giorno successivo alla sua nomina, Pashinyan è volato a Stepanakert per partecipare alla parata del 9 maggio che commemora la vittoria sul nazismo nonché la conquista della città di Shushi/Shusha nel 1992 (la prima significativa vittoria armena nel conflitto). In quell’occasione il neo premier ha ha insistito affinché gli armeni del Karabakh “prendessero direttamente parte ai negoziati per la risoluzione del conflitto, sedendosi al tavolo delle trattative”. Un’affermazione importante visto che la mediazione, attraverso il Gruppo di Minsk presieduto dall’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), oggi coinvolge solo Baku e Yerevan.
Secondo l’analista Thomas De Waal il pericolo è che se Pashinyan dovesse avventurarsi “ad affermare apertamente la sovranità sul Nagorno Karabakh e che le [sette] regioni azerbaijane attorno a esso, occupate dalle forze armene nel 1993-1994, non possono essere restituite, nulla rimane da negoziare con Baku, si tornerebbe alla guerra. La guerra dei quattro giorni dell’aprile 2016, che ha causato circa 200 morti, è un recente triste ricordo di quanto alto sia il costo. Il cessate il fuoco viene costantemente rotto, con un soldato azerbaijano ucciso lo scorso 20 maggio”.