Ottantunesimo giorno del #ArtsakhBlockade. Un giorno la giustizia prevarrà e arriverà la verità storica, oltre le menzogne azere (Korazym 02.03.23)
[Korazym.org/Blog dell’Editore, 02.03.2023 – Vik van Brantegem] – Oggi siamo nel 81° giorno del blocco è iniziato il 12 dicembre 2022, quando un gruppo di Azeri che si definiscono “attivisti ambientalisti indipendenti” ma sostenuti dal governo dell’Azerbajgian si è accampato sull’autostrada interstatale Goris-Berdzor (Lachin)-Stepanakert, vicino a Shushi. In questo modo è stato di fatto chiuso il Corridoio di Berdzor (Lachin), la via della vita dell’Artsakh verso l’Armenia e il mondo esterno, causando gravi carenze e difficoltà nell’ottenere beni di prima necessità. Adesso arrivano solo rifornimenti limitati, esclusivamente con i veicoli del Comitato Internazionale della Croce Rossa e delle forze di mantenimento della pace russe di stanza in Artsakh. La gente del posto subisce anche frequenti interruzioni di gas ed elettricità e fa fatica a riscaldarsi in inverno. Il 22 febbraio scorso la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite ha ordinato all’Azerbajgian di garantire il movimento senza ostacoli attraverso il corridoio in ambedue le direzioni. Ma l’ordine probabilmente non avrà alcun effetto in quanto non esiste alcun meccanismo per imporre all’Azerbaigian di obbedire all’ordine legalmente vincolante di aprire il corridoio. Mentre il governo dell’Azerbajgian continua a negare che la strada sia del tutto bloccata, la protesta che ha portato al blocco procede secondo le sue condizioni, mira a raggiungere i suoi obiettivi e, cosa sempre più preoccupante, rispetta il suo agenda.
L’Azerbajgian fuori dalle terre storiche armene.
Il Nagorno-Karabakh è Artsakh, non Azerbajgian.
Lilit Shahverdyan, giornalista di Stepanakert, ha scritto in un articolo La vita in Karabakh sotto il blocco alcuni giorni fa su Eurasianet [QUI]: «È opinione diffusa che il licenziamento di Vardanyan sia stato una concessione a Baku, che da tempo chiedeva la rimozione dell’”uomo di Mosca” dalla scena, sostenendo che stesse interrompendo i colloqui di pace seguiti alla vittoria dell’Azerbajgian nella seconda guerra del Karabakh del 2020» e domanda se questo «scossone nella leadership del Nagorno-Karabakh influenzerà il blocco di Baku del territorio». Fatto è, che appena rimosso Verdanyan, sono iniziati le riunioni formali tra rappresentanti dell’Azerbajgian e dell’Artsakh. Anche se l’Azerbajgian – secondo il copione della propria narrazione fake – presenta gli incontri come “un dialogo con i propri cittadini”, la realtà è ovviamente ben diversa, come si evince dai commenti del Ministeri degli Esteri della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh.
Secondo una foto riportata pubblicata sui social media azeri, l’incontro di ieri 1° marzo 2023 sembra aver avuto luogo presso il quartier generale del comando del contingente di mantenimento della pace russo di stanza in Artsakh, nello scalo aeroportuale della Repubblica di Artsakh ad Ivanyan (Khojaly in azero), 10 km a nord-est dalla capitale Stepanakert.
L’Azerbajgian riferisce all’Aeroporto di Stepanakert come “Aeroporto di Khojaly in Azerbaigian”. L’aeroporto è sotto il controllo della Repubblica di Artsakh/Nagorno-Karabakh dal 1992. I voli cessarono con l’escalation della prima guerra del Nagorno-Karabakh nel 1990. Nel 2009 le autorità armene hanno avviato la ricostruzione delle strutture. Nel maggio 2012, il direttore dell’amministrazione dell’aviazione civile dell’Artsakh, Tigran Gabrielyan, ha annunciato che l’aeroporto sarebbe entrato in funzione a metà del 2012. Tuttavia l’aeroporto rimane chiuso per motivi di sicurezza, poiché l’Azerbajgian ha continuamente minacciato di abbattere gli eventuali voli.
Entro la fine del 1980 l’aeroporto serviva voli passeggeri regolari tra Yerevan e Stepanakert. Con l’escalation del conflitto del Karabakh, le autorità dell’SSR azero hanno bloccato l’SSR armeno e l’aeroporto dell’Oblast Autonomi di Nagorno-Karabakh era l’unica via di comunicazione con il mondo esterno del Karabakh. L’aeroporto è sotto il controllo della Repubblica del Nagorno-Karabakh dall’accordo di cessate il fuoco della prima guerra del Nagorno-Karabakh nel 1994.
Riportiamo il commento del Ministero degli Esteri della Repubblica di Artsakh sul secondo incontro dei rappresentanti dell’Artsakh e dell’Azerbajgian di ieri: «Il 1° marzo si è tenuto un altro incontro tra i rappresentanti della Repubblica di Artsakh e della Repubblica di Azerbajgian con la mediazione del Comandante del Contingente di mantenimento della pace russo dislocato in Artsakh. Durante l’incontro, le parti hanno discusso questioni umanitarie nel contesto della necessità dell’immediato sblocco del Corridoio di Lachin da parte dell’Azerbajgian. Tali incontri tra i rappresentanti dell’Artsakh e dell’Azerbajgian, mediati dal contingente russo di mantenimento della pace, si sono svolti ripetutamente a diversi livelli per discutere varie questioni tecniche, umanitarie e infrastrutturali. I partecipanti all’incontro non hanno discusso questioni relative allo status politico della Repubblica di Artsakh. I commenti fatti dalla parte azera sui risultati dell’incontro non corrispondono alla realtà. La Repubblica di Artsakh rimane impegnata nella scelta del suo popolo, che ha intrapreso il cammino dell’auto-determinazione e dell’indipendenza, sancito da un referendum nel 1991. Tali discussioni volte a risolvere questioni urgenti, in particolare lo sblocco dell’Artsakh, non possono sostituire i negoziati di pace a tutti gli effetti, necessari per raggiungere una soluzione globale del conflitto tra l’Azerbajgian e il Karabakh. Partiamo dalla necessità di ripristinare lo schema della mediazione internazionale come importante garanzia dell’irreversibilità del processo di pace. Ribadiamo inoltre che è invariata la posizione della Repubblica di Artsakh secondo cui i risultati dell’uso illegale o della minaccia della forza da parte dell’Azerbajgian non possono servire come punto di partenza sulla via della pace, della stabilità e della sicurezza».
Turx è corrispondente senior di Ami Magazine (rivista ebraica di New York) alla Casa Bianca e di Newsmax. Collabora con BBC, CNN, Fox News, New York Times, National Public Radio, ecc
«Le false testimonianze e rozze, pagate dalla dittatura azera, dimostrano solo la volontà del tiranno Aliyev di sradicare gli Armeni. Solo l’interposizione di una forza internazionale di mantenimento della pace proteggerà le popolazioni civili armene» (Avv. François Devedjian).
Altri giornalisti stranieri in un “viaggio stampa” interamente finanziato/supervisionato dal governo azero che negano l’esistenza del blocco del Nagorno-Karabakh. Turx ha detto che era deluso, avendo viaggiato così lontano per vederlo, perché ha “visto niente”. Studiando la storia dei genocidi dovrebbe sapere meglio.
Poi, per raggiungere il luogo del blocco stradale, Turx ha dovuto attraversare le aree del Nagorno-Karabakh controllate dall’Azerbajgian, qualcosa che può essere fatto solo con il permesso ufficiale delle autorità azere, certamente non senza preavviso e non senza essere visto. Coloro che sono e non sono autorizzati a visitare il sito della “eco-protesta” rendono anche evidente che la protesta si svolge esattamente come vorrebbe Baku. Mentre i giornalisti dei media filogovernativi sono stati immancabilmente presenti alla protesta, agli attivisti e ai giornalisti indipendenti è stato impedito di partecipare. I media filogovernativi hanno affermato che ai giornalisti stranieri è stato permesso di visitare il luogo della protesta, ma ciò viene fatto solo sotto stretta supervisione dei servizi speciale dell’Azerbajgian.
Complimenti per Jimenez, che sottolinea che creare un’emergenza umanitaria per 120.000 persone, tra cui 30.000 bambini è «un’ottima iniziativa», aggiungendo che questa azione (la conduzione di una guerra e della pulizia etnica con altri mezzi), «è pacifica».
Non siamo sicuri di chi abbia bisogno di sentire questa roba, ma la presenza di veicoli della Croce Rossa che passano da un’area all’altra di continuo, generalmente significa che c’è una crisi umanitaria in atto e un disperato bisogno di aiuto.
«Pensavo che avrebbe potuto essere abbastanza intelligente da aver capito l’osservazione che stavo facendo, ma forse è davvero così inconsapevole, il che spiega l’ignoranza verso l’essere usato come strumento di propaganda» (@arshach).
Perché gli Armeni dovrebbero lasciare la loro Patria? Vuoi dire che se qualcuno ha qualche problema nel suo Paese dovrebbe andarsene invece di risolverlo? Un atteggiamento senza alcuna logica. Un esempio di un soggetto del giornalista al caviale che dimostra che lo scopo del #ArtsakhBlockade è far morire di fame gli Armeni dell’Artsakh.
Riportiamo l’articolo di Daniele Bellocchio apparso sul numero 7 di Famiglia Cristiana cartaceo del 12 febbraio 2023 (pagine 30-33), che aggiorna sulla situazione tesa nel Nagorno-Karabakh a seguito della chiusura del Corridoio di Lachin, che unisce la Repubblica di Artsakh con l’Armenia). Segue la risposta stizzita dell’Ambasciatore dell’Azerbajgian presso la Santa Sede e la risposta del Direttore di Famiglia Cristiana.
Un altro diplomatico che ha venduto la sua anima al diavolo per soldi sporchi ed avere salva la testa attaccata al collo. Diplomazia immorale con zero credibilità. Vergogna per aver raccontato bugie come megafono del regime dittatoriale di Ilham Aliyev.
Nagorno-Karabakh, senza cibo e gas: l’Artsakh dimenticato
La regione ora è isolata e i beni essenziali non arrivano più
L’appello all’Occidente: “Sollevatevi per noi come per l’Ucraina”
di Daniele Bellocchio
Famiglia Cristiana, 1° marzo 2023
Julietta ha 70 anni, è armena e vive a Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, il territorio conteso del Caucaso meridionale storicamente abitato da genti armene ma formalmente parte dell’Azerbajgian. La sua vita è la rappresentazione della pervicace volontà di vivere di un popolo la cui esistenza nella storia è stata marchiata da persecuzioni e conflitti. Julietta ha vissuto la guerra degli anni ’90 quando, a seguito del collasso dell’Unione Sovietica, sui monti del Karabakh dilagò la violenza tra le forze armene che chiedevano l’annessione con Yerevan e quelle azerbajgiane che invece rivendicavano l’appartenenza della regione a Baku.
Il conflitto provocò la morte di oltre 30 mila persone e alla fine vide la vittoria degli Armeni che proclamarono la nascita della Repubblica di Artsakh, a oggi non riconosciuta da alcuno Stato al mondo. La donna ha sofferto la guerra dei 4 giorni nel 2016 e poi quella dei 44 giorni nel 2020, causata dall’aggressione da parte delle forze dell’Azerbajgian e che ha comportato 7 mila morti e 100 mila civili sfollati. Ora Julietta sta affrontando quello che verrà ricordato come il periodo dell’isolamento, perché dal 12 dicembre centinaia di attivisti azeri hanno bloccato il Corridoio di Lachin, l’unica arteria che mette in comunicazione il Nagorno-Karabakh con l’Armenia. Oltre 120 mila cittadini armeni che vivono nella regione del Caucaso meridionale – che prima dell’interruzione della strada importava quotidianamente 400 tonnellate di beni di prima necessità da Yerevan sono isolati dal resto del mondo: i mercati e i negozi sono vuoti, le merci mancano, le scuole sono chiuse, gli ospedali funzionano con difficoltà, i medicinali faticano ad arrivare e pure il trasferimento degli ammalati in terapia intensiva in Armenia è stato impedito: già si annovera la prima vittima a causa del blocco stradale.
«Noi Armeni dell’Artsakh abbiamo un’immunità genetica ai soprusi sviluppata nei secoli». Raggiunta telefonicamente, Julietta inizia l’intervista con ironica acutezza e prosegue raccontando: «In queste ore siamo più uniti che mai, anche se la situazione è molto difficile». La donna spiega come manchino i prodotti di prima necessità, che l’arrivo dei beni alimentari dipende soltanto dalla Croce Rossa Internazionale e dai peacekeeper (soldati delle forze di pace) russi e che la popolazione si è dimenticata ormai del gusto del caffè, dei vegetali, della frutta e che anche i farmaci iniziano a scarseggiare nelle corsie ospedaliere. Le sue parole trovano conferma nelle immagini che inondano la Rete e che mostrano centinaia di persone in fila ad attendere la propria razione di cibo, bambini impossibilitati ad andare a scuola e famiglie che si fanno forza tra loro unendosi la sera intorno a vecchie stufe a legna a causa delle continue interruzioni di gas.
Tatevik Agajanyan, ragazza di 31 anni, descrive come è mutata la sua vita dopo il 12 dicembre: «Tutto è cambiato. Dobbiamo fare la fila per ore per ricevere il cibo, molte persone non possono più lavorare, pianifichiamo le nostre attività quotidiane in base ai blackout perché abbiamo solo sei ore di elettricità al giorno. Ma questi disagi quotidiani, seppur problematici, si affrontano. Ciò che mi impensierisce è il futuro della mia terra, perché questa situazione non sembra trovare una soluzione ed è una nuova fase dell’aggressione contro gli armeni». Secondo stampa e Governo azero i cittadini azerbajgiani starebbero manifestando a difesa dell’ambiente e contro le attività estrattive nella regione, ma i difensori dei diritti umani dell’Armenia e dell’Artsakh rivelano invece che tra i manifestanti ci sono uomini delle forze di sicurezza di Baku e «attivisti appartenenti a organizzazioni finanziate dal Governo azero».
Human Rights Watch, Ong che si occupa della difesa dei diritti umani, invece si interroga sul perché una protesta di ambientalisti debba negare ai cittadini armeni il loro diritto alla libera circolazione e l’accesso ai servizi essenziali e ai beni primari. «Il mondo non deve dimenticarci», tuona Karen Ohanjanyan, cittadino di Stepanakert e fondatore della Ong Helsinki ’92. «L’Artsakh è divenuto un carcere a cielo aperto per gli armeni, le forze di interposizione russe non stanno facendo nulla per riaprire la strada e non sappiamo quanto potremo resistere in queste condizioni».
La Russia, a causa delle recenti tensioni con il Governo di Yerevan, ed essendo il principale fornitore di armi di Baku oltreché di gas che poi viene triangolato in Europa, aggirando così le sanzioni, mantiene un atteggiamento estraneo e traccheggiante. Il Parlamento Europeo invece ha lanciato appelli per scongiurare l’imminente crisi, il Segretario di Stato statunitense Antony Blinken ha chiesto al Presidente azero Ilham Aliyev l’immediata riapertura del Corridoio di Lachin e Papa Francesco ha ripetutamente espresso preoccupazione per quanto sta accadendo ai cristiani del Nagorno-Karabakh. Il Governo azero però non ha mostrato alcuna volontà di porre fine all’assedio ed eloquenti sono state le parole del leader, che il 10 gennaio, in conferenza stampa, ha definito i dimostranti «il nostro orgoglio» e ha dichiarato che gli Armeni del Nagorno-Karabakh che non vogliono vivere sotto il Governo dell’Azerbajgian (che occupa il 154° posto nel World press freedom index) sono liberi di andarsene.
«Durante la guerra degli anni ’90 ho vissuto con i miei tre figli in un rifugio sottoterra per un anno, la tomba di mia madre a Shushi è stata profanata due volte e ora, dopo che Shushi è stata occupata dagli Azeri, non so più nemmeno se esiste. Niente mi farà andare via dalla mia terra», è stata la risposta di Julietta alle parole di Aliyev. Poi la donna ha concluso dicendo: «Per il popolo dell’Artsakh i Paesi occidentali sono sempre stati simbolo di giustizia e democrazia. Abbiamo sempre cercato di costruire la nostra società ed educare i nostri figli con i valori di pace e libertà dell’Occidente. Vorrei però che oggi l’Occidente si alzasse in piedi per il Nagorno-Karabakh così come sta facendo per l’Ucraina, perché anche noi armeni siamo vittime di un’aggressione».
La replica di Ilgar Mukhtarov, il nuovo Ambasciatore dell’Azerbaigian presso la Santa Sede, al reportage di Daniele Bellocchio
Famiglia Cristiana, 1° marzo 2023
Spett.le Direttore Don Stefano Stimamiglio,
vorrei innanzi tutto cogliere questa occasione per presentarmi. Solo poche settimane fa ho avuto l’onore di consegnare al Santo Padre Francesco le Lettere con cui sono stato accreditato come nuovo ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian presso la Santa Sede. Ciò, con l’apertura di un’ambasciata residente presso la Santa Sede, apre un nuovo capitolo e un avanzamento nelle nostre relazioni bilaterali. L’Azerbaigian è noto per essere un paese multiculturale, in cui rappresentanti di tutte le religioni convivono pacificamente e in armonia. I rapporti tra la Città del Vaticano e Baku hanno festeggiato nel 2022 i loro 30 anni dall’instaurazione, e sono stati caratterizzati sempre da grande dialogo, collaborazione e comunanza di intenti. Sono stati molti i progetti che in questi anni ci hanno visto collaborare, e spero che presto avremo l’occasione per conoscerci e parlarne più diffusamente.
Sarebbe per me un gran piacere. In questa sede vorrei offrire una breve replica al lungo reportage di Daniele Bellocchio pubblicato nella settimana in corso sulla vostra stimata rivista e relativo al Karabakh, chiedendo gentile pubblicazione di questa mia riflessione. L’articolo purtroppo riporta una versione parziale di quanto stia avvenendo in questi giorni sulla strada di Lachin e parte da una considerazione errata: non esiste più la cosiddetta unità territoriale “Nagorno Karabakh” in Azerbaigian, ma esiste la regione economica del Karabakh dell’Azerbaigian. Il Karabakh è una terra storica dell’Azerbaigian ed è riconosciuto a livello internazionale da tutti i paesi del mondo come parte integrante del mio paese. Vorrei ricordare in questa occasione che l’Armenia ha tenuto sotto occupazione militare il 20% del territorio internazionalmente riconosciuto dell’Azerbaigian per quasi trenta anni, causando distruzioni, rovine e morti, e che ha raggiunto il suo apice nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 1992, quando le forze armate dell’Armenia sono state autrici di un atroce genocidio nella città di Khojaly dell’Azerbaigian, che ha causato la morte di 613 persone, tra cui 106 donne e 63 bambini. Un atto crudele che è stato riportato da media internazionali e condannato come atto di crimine contro l’umanità già da circa venti paesi nel mondo. Solo nel 2020 l’Azerbaigian è riuscito a ripristinare la sua integrità territoriale. Da allora il mio Paese è promotore di pace e di convivenza. L’Azerbaigian ha evidenziato in molte occasioni il mancato rispetto da parte dell’Armenia di quanto previsto dalla Dichiarazione firmata dai Leader di Azerbaigian, Armenia e Russia il 10 novembre 2020, in particolare il mancato ritiro delle forze armate armene dal territorio dell’Azerbaigian in violazione del paragrafo 4, l’abuso della strada di Lachin per provocazioni militari, nonché per attività economiche illegali, in violazione del comma 6, e l’ostacolo all’apertura di tutte le comunicazioni di trasporto nella regione, in violazione del comma 9. Si sottolinea che la strada di Lachin è utilizzata continuamente dall’Armenia per il trasporto di mine antiuomo, il cui posizionamento, proseguito anche all’indomani della fine della guerra, costituisce uno dei principali ostacoli alla normalizzazione della regione. Dall’agosto 2022, più di 2700 mine antiuomo prodotte in Armenia nel 2021 sono state rilevate in alcune parti dei distretti di Lachin e di Kalbajar dell’Azerbaigian. Evidentemente, tali mine sono state dispiegate nel territorio dell’Azerbaigian attraverso la strada Lachin, in palese violazione della citata Dichiarazione. Mi spiace molto che il vostro reportage non accenni a tutto questo. Per venire alle settimane in corso, come sottolineato più volte dal Ministero degli affari Esteri dell’Azerbaigian, la strada di Lachin non è stata chiusa dai manifestanti azerbaigiani: l’Azerbaigian non ha imposto alcuna restrizione al traffico, non esiste un blocco sugli armeni locali e non sussiste una cosiddetta catastrofe umanitaria. I manifestanti sono ragazzi tra i 18 e i 20 anni, giovani che protestano contro lo sfruttamento illegale delle risorse minerarie dell’Azerbaigian. Aiuti umanitari, così come mezzi della Croce Rossa internazionale, transitano regolarmente. Ogni giorno si registra il passaggio di più di 50 veicoli. Le forze di pace della Federazione Russa, dislocate temporaneamente nell’area, sono incaricate dell’organizzazione del movimento dei cittadini, merci e veicoli lungo la strada, mentre i rappresentanti della società civile dell’Azerbaigian, che cercano di impedire il trasporto illegale di risorse minerarie saccheggiate, avvenuto regolarmente e già più volte denunciato, non interferiscono con le questioni relative al movimento di altri veicoli per scopi civili. Il Pontefice, nell’appello del 18 dicembre, citato nell’articolo, ha fatto riferimento alla “situazione creatasi nel corridoio di Lachin, nel Caucaso Meridionale”, manifestando preoccupazione per le condizioni umanitarie e chiedendo “a tutti coloro che sono coinvolti di impegnarsi a trovare soluzioni pacifiche per il bene delle persone”, e condividiamo le Sue parole. A tal proposito vorrei ricordare che 4000 azerbaigiani sono scomparsi dopo la prima guerra del Karabakh, e il mio paese continua a chiedere informazioni sulla loro sorte, restando per ora inascoltato.
L’Azerbaigian ha più volte esternato la sua volontà a voltare pagina, creare una nuova dimensione di pace e convivenza nella regione, garantendo a tutti i suoi cittadini, senza distinzioni, uguali diritti e possibilità. L’Armenia dovrebbe fare altrettanto, e lavorare per la pace, invece di creare nuove tensioni, rivendicazioni, e ostacoli. Falsificazioni della realtà, diffuse dai media, non aiutano il già fragile processo negoziale. Certi della Vostra comprensione, colgo l’occasione per inviare i miei più cordiali saluti,
Ilgar Mukhtarov
Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian presso la Santa Sede
La risposta del Direttore di Famiglia Cristiana, Don Stefano Stimamiglio, alla lettera che l’Ambasciatore dell’Azerbajgian presso la Santa Sede, Ilgar Mukhtarov, ha scritto a proposito del reportage di Daniele Bellocchio sulla regione del Nagorno-Karabakh
Famiglia Cristiana, 1° marzo 2023
Egr. Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian presso la Santa Sede
S.E. Ilgar Mukhtarov c/o
Addetto Stampa D.ssa Barbara Cassani bbcassani@gmail.com
Egregio Sig. Ilgar Mukhtarov, Ambasciatore della Repubblica dell’Azerbaigian presso la Santa Sede, ho letto con estrema attenzione la sua lettera del 16 febbraio scorso, nella quale ci offriva la Sua replica al reportage di Daniele Bellocchio apparsa sul numero 7 di Famiglia Cristiana ed avente ad oggetto l’articolo dal titolo “L’Artsakh dimenticato”. In esso veniva rappresentata la drammatica situazione della popolazione, in maggioranza armena, residente nella regione storicamente chiamata del “Nagorno Karabakh”, che oggi è parte integrante della Repubblica dell’Azerbaigian, in seguito alla chiusura del c.d. “corridoio di Lachin”, che unisce tale regione all’Armenia. Ci preme sottolineare, in primo luogo, che tale blocco stradale, come risulta anche da numerose e documentate relazioni di Organizzazioni internazionali e Ong, sta creando grandi problemi alla popolazione ivi residente. Ci sembra, quindi, che l’articolo di Bellocchio, che ha intervistato telefonicamente alcune persone ivi residenti per raccoglierne la testimonianza diretta, documenta tale situazione oggettivamente innegabile.
In merito alla c.d. “Guerra del Nagorno Karabakh”, e alla strage di Khojaly [1] da Lei citata, essa non poteva, per la specificità dell’argomento trattato e per il carattere divulgativo e non storico-scientifico della nostra rivista (e, di conseguenza, del pezzo) essere menzionata. Comunque, per onestà intellettuale e obiettività giornalistica, nemmeno è stata negata. Del resto l’approfondimento avrebbe richiesto di parlare anche dei contestuali pogrom di armeni a Baku, Sumgait e Kirovabad per mano azera [2], dei 724 mila azeri espulsi dal territorio del “Nagorno Karabakh” e dei 500 mila armeni espulsi dal Naxçivan e da altri territori dell’Azerbaigian, soprattutto dalla capitale Baku. Lo stesso conflitto del settembre-ottobre del 2020, che ha fatto registrare ancora una volta dolorose perdite umane, ha prolungato nel tempo l’instabilità di questa tormentata regione. Una, per inciso, delle più minate al mondo, con gravi conseguenze per tutti.
Tornando alla chiusura del corridoio di Lachin, vitale per chi vive nella zona, pare difficile credere che ragazzi di 18-20 anni possano, anche con motivate ragioni, creare e mantenere a lungo un blocco stradale in barba alle forze militari della Repubblica dell’Azerbaigian, che ha su quel territorio una sovranità internazionalmente riconosciuta, e al corpo di peacekeepers russi.
A questo proposito, e a conferma da quanto scritto da Bellocchio, Amnesty International, in un comunicato dello scorso 10 febbraio, ha (cito letteralmente) «lanciato l’allarme per la situazione di circa 120 mila abitanti del Nagorno-Karabakh di etnia armena, le cui vite sono a rischio per l’impossibilità di reperire beni essenziali, medicinali e cure mediche fondamentali per i malati cronici». La stessa Organizzazione «ha sollecitato le autorità dell’Azerbaigian e i peacekeeper della Russia a liberare il corridoio e porre fine alla crisi umanitaria», perché «il blocco sta avendo un impatto particolarmente grave su gruppi marginalizzati e discriminati come le donne, le persone anziane e le persone con disabilità. Le frequenti interruzioni nelle forniture di energia elettrica, gas e carburante stanno rendendo estremamente difficile la vita quotidiana». Sempre Amnesty sostiene che «gli aiuti umanitari forniti dal Comitato internazionale della Croce Rossa e dai peacekeeper russi non bastano: rispetto ai 1200 camion al giorno prima del blocco, ora ne passano da cinque a sei». Speriamo vivamente che da allora la situazione sia decisamente migliorata.
Ricordo anche che il Parlamento europeo, nella Risoluzione n. 2023/2504 (RSP) del 19 gennaio scorso, ha affermato che «sostenendo il blocco del corridoio di Lachin, l’Azerbaigian viola i suoi obblighi internazionali derivanti dalla dichiarazione trilaterale di cessate il fuoco del 9 novembre 2020, in base alla quale l’Azerbaigian deve garantire la sicurezza delle persone, dei veicoli e delle merci che circolano lungo il corridoio in entrambe le direzioni» e ha deplorato «le tragiche conseguenze umanitarie provocate dal blocco del corridoio di Lachin e dal conflitto del Nagorno-Karabakh», esortando il Suo paese «a rispettare e attuare la dichiarazione trilaterale del 9 novembre 2020 e a riaprire immediatamente il corridoio di Lachin».
Confidiamo, infine, sinceramente, per il bene della popolazione civile, che la recente misura provvisoria (“Provisional measure”) adottata dalla Corte Internazionale di Giustizia lo scorso 22 febbraio, nell’ambito del procedimento giudiziario Application of the International Convention on the Elimination of All Forms of Racial Discrimination – Armenia vs. Azerbaijan in corso tra la Repubblica di Armenia e la Repubblica dell’Azerbaigian, sia rapidamente messa in atto e possa così contribuire, come auspica anche Lei nella Sua lettera, e con il buon senso di entrambe le parti, a voltare pagina in questa dolorosa e lunga vicenda.
La guerra, come ci insegna il conflitto in corso tre Federazione russa e Ucraina, non lascia vincitori ma solo vittime da entrambe le parti. L’unica soluzione non può che essere, come sempre sottolinea il Santo Padre, la ricerca da parte di tutti di una pace giusta, nel rispetto della libertà della persona umana e delle sue tradizioni. Pubblicheremo il testo integrale del nostro carteggio sul nostro sito (www.famigliacristiana.it), facendone un rimando sul numero 11 di Famiglia Cristiana (in uscita il 9 marzo p.v.).
Grato della Sua disponibilità e per la comune ricerca del Bene comune, Le porgo i miei più cordiali saluti.
Don Stefano Stimamiglio
Direttore di Famiglia Cristiana
[1] Coloro che accusano ancora gli Armeni del massacro di Kojaly, ascoltino l’ex Presidente dell’Azerbajgian, Ayaz Mütallibov, che afferma che il principale responsabile del massacro di Kojali è il Partito del Fronte Popolare dell’Azerbajgian. “Mi hanno incastrato per rovesciarmi”, dice. Nel gennaio 1992 scoppia la guerra del Nagorno Karabakh e nel febbraio seguente avviene il massacro di Kojali, con oltre 600 vittime civili e migliaia di dispersi. Mütallibov diventa il capro espiatorio e viene accusato di poca protezione nei confronti dei cittadini di Kojali e di scarsa presa nella gestione del Paese. Poco tempo dopo presentò le sue dimissioni e dichiarò che il massacro non era mai avvenuto, anzi che si trattasse di una messa in scena orchestrata per screditarlo di fronte alla comunità internazionale. In pratica sostenne la posizione dell’esercito dell’Armenia, la quale affermava che la popolazione era stata invitata da una settimana a lasciare la cittadina e che la maggior parte dei civili cadde sotto fuoco azero giacché nel corridoio umanitario aperto per farli defluire in Azerbajgian si erano infilati molti soldati disertori.
[2] La strage dimenticata. La storia sconosciuta del pogrom di Armeni in Azerbajgian nel 1988. I massacri di Sumgait sono stati la prima campagna di pulizia etnica che gli Azeri hanno commesso come una risposta brutale alle legittime esigenze del popolo dell’Artsakh per esercitare il loro fondamentale diritto all’auto-determinazione. Il brutale pogrom di Sumgait ha alimentato l’odio sponsorizzato dallo Stato azerbajgiano nei confronti degli Armeni e ha preceduto ulteriori episodi sanguinose di pulizie etiche perpetrate dalle autorità azere a Kirovabad, Mingechaur, Baku e altrove in Azerbajgian e in Nagorno-Karabakh. Gli Armeni sopravvissuti al pogrom di Sumgait hanno raccontato i dettagli delle atrocità compiute dagli Azeri: «Ho sentito i loro slogan con le mie orecchie: ‘Uccidi gli armeni’, ‘ti massacreremo’, ‘non ti daremo il #Karabakh’, – ha detto uno dei sopravvissuti.
Indice – #ArtsakhBlockade [QUI]