«Non vogliamo la guerra con l’Azerbaigian» (Tempi.it 15.10.19)
L’Artsakh è una piccola repubblica assediata fra i monti del Caucaso. La abitano, la governano e la difendono i locali abitanti armeni che nel settembre 1991 dichiararono a loro volta la propria indipendenza per non essere assorbiti nell’Azerbaigian che un paio di settimane prima aveva deciso di costituire uno stato indipendente dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Il territorio coincide con lo storico Nagorno Karabakh, che nel 1921 Stalin assegnò all’Azerbaigian nonostante fosse abitato in grandissima maggioranza da armeni che avrebbero preferito far parte della vicina repubblica sovietica di Armenia. Fra il 1991 e il 1994 nell’Artsakh e negli adiacenti territori azeri si è combattuta una guerra sanguinosa che è stata sospesa da un armistizio il 5 maggio 1994. Grazie anche al sostegno delle forze armate della repubblica di Armenia (a sua volta divenuta indipendente il 21 settembre 1991), gli armeni del Nagorno Karabakh hanno cacciato le forze armate dell’Azerbaigian dal loro territorio e occupato alcune aree azere adiacenti per creare una continuità territoriale con la vicina Armenia e per proteggere da eventuali attacchi di artiglieria la capitale Stepanakert. Lungo i 150 chilometri di trincee che separano le postazioni armene da quelle azere le violazioni del cessate il fuoco sono all’ordine del giorno da venticinque anni a questa parte: uno stillicidio di vittime caratterizza le cronache dal fronte. Nell’aprile di tre anni fa l’Azerbaigian per la prima volta dalla firma dell’armistizio tentò un’operazione militare su larga scala che causò decine di morti e si concluse in uno stallo.
La repubblica di Artsakh non è riconosciuta a livello internazionale da nessuno stato, nemmeno dall’amica e confinante Armenia, ma i suoi 150 mila abitanti hanno bisogno di tutto per contrastare il parziale isolamento nel quale sono costretti a vivere da un quarto di secolo. Così nei giorni scorsi il ministro dell’Economia e dell’Infrastruttura industriale della repubblica, Levon Grygorian, si è recato in visita ufficiosa in Italia per incontrare realtà della società civile italiana interessate a una cooperazione su più piani per lo sviluppo economico e umano del suo paese. Ha avuto colloqui con esponenti di associazioni imprenditoriali del Veneto e della Lombardia e in particolare ha perfezionato il gemellaggio fra l’Istituto Alberghiero che è parte dell’Istituto scolastico don Carlo Gnocchi di Carate Brianza e una struttura che sta nascendo a Stepanakert. Il ministro è stato ospite del ristorante didattico Saporinmente, annesso all’Istituto Alberghiero, e lì ci ha concesso un’intervista prima di continuare la sua visita.
Ministro, gli occhi di tutto il mondo sono rivolti con preoccupazione a ciò che sta succedendo nel nord della Siria: la Turchia ha promosso un’operazione militare volta all’occupazione di una fascia di territorio siriano. Cosa ne pensa?
La guerra non è mai la soluzione, porta solo conseguenze negative. Noi siamo un popolo che conosce per esperienza diretta, e non per le immagini televisive, di quanta sofferenza sia causa la guerra, sappiamo che non risolve i problemi. Il governo dell’Artsakh non approva in alcun modo questo intervento militare.
Venticinque anni dopo la firma dell’armistizio che ha congelato la guerra del Nagorno Karabakh ancora non si intravede una soluzione definitiva al conflitto, e nel frattempo la Repubblica di Artsakh che si è costituita nel 1991 non è riconosciuta dai paesi membri dell’Onu. Come fate fronte a questa situazione di isolamento istituzionale?
La guerra non l’abbiamo voluta noi, non siamo stati noi a iniziarla. Al momento del collasso dell’Unione Sovietica abbiamo chiesto quello che chiedevano tutti i popoli dell’ex Urss: autodeterminarci, e nel nostro caso noi avremmo voluto unirci alla Repubblica di Armenia. Il governo azero ha rifiutato di riconoscere la nostra autodeterminazione e ha risposto con la guerra. Siamo sopravvissuti agli attacchi, abbiamo difeso e consolidato il nostro territorio, abbiamo firmato il cessate il fuoco del 1994. Da allora abbiamo operato su due fronti. Abbiamo ricostruito le città bombardate e distrutte, abbiamo organizzato le istituzioni della repubblica e abbiamo chiesto di essere riconosciuti a livello internazionale. Per il riconoscimento sappiamo che ci vorrà ancora tempo; nell’attesa continuiamo a costruire il nostro paese, e guardiamo con ottimismo al futuro: ne è una prova questa mia missione in Italia. Gli studenti che parteciperanno agli scambi con l’Italia appartengono alla generazione che non ha vissuto i giorni della guerra, e questo è un segno della nostra vitalità. Come sapete, i negoziati per la pace sono condotti dal cosiddetto gruppo di Minsk, il cui ufficio di presidenza è composto da rappresentanti di Francia, Russia e Stati Uniti. Noi non siamo presenti in questo organismo dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) e i nostri interessi sono rappresentati indirettamente dall’Armenia, che invece ne fa parte.
Quali sviluppi ci sono stati dopo la crisi dell’aprile 2016, quando sembrava che il conflitto con l’Azerbaigian dovesse ricominciare su larga scala?
Abbiamo imparato molto da quella brutta esperienza. Oggia la nostra difesa è migliorata e ancora stiamo lavorando per avere forze armate ancora più efficienti. Non abbiamo altro che il nostro esercito a difenderci. Oggi come negli anni Novanta, non siamo noi che vogliamo la guerra: il nostro conflitto con l’Azerbaigian va risolto con la diplomazia. Ma come negli anni Novanta e come nel 2016, siamo pronti a difenderci. L’offensiva di tre anni fa mirava a sfondare il centro del nostro schieramento attirando le nostre forze agli estremi della linea del fronte, ma i nostri ufficiali hanno saputo interpretare la tattica nemica e non sono caduti nella trappola.
Quali sono i paesi maggiormente amici della Repubblica dell’Artsakh?
Non facciamo preferenze, siamo aperti a tutte le relazioni, specialmente coi popoli europei. Non intendo fare nomi.
Che bilancio fa della sua visita in Italia che si sta concludendo?
Il bilancio è positivo. Siamo venuti in Italia per approfondire la conoscenza del sistema delle PMI e per prendere contatti per poterlo replicare nel Nagorno Karabakh: il Nord Italia ha una grande tradizione di piccola e media impresa, ed è un modello molto adatto alla nostra economia. Ci interessa anche collaborare in progetti per migliorare l’educazione e l’istruzione professionale nel nostro paese. Per entrambi gli obiettivi, abbiamo trovato interlocutori in Veneto e in Lombardia, specialmente in Brianza. Torniamo in patria dopo aver fatto una esperienza intensa e grande, che ci permetterà di approntare una piattaforma di collaborazione con l’Italia.
L’anno prossimo si terranno elezioni presidenziali nell’Artsakh. Che significato ha questo appuntamento politico?
Per ogni paese le elezioni sono un appuntamento di grande importanza. Non è certo la prima volta che i cittadini della repubblica sono chiamati alle urne, e in tutte le occasioni passate gli osservatori internazionali hanno potuto verificare che si è trattato di elezioni trasparenti, oneste e libere. Nel 2020 alzeremo ancora di più il livello di trasparenza democratica di tutto il processo elettorale.