Nell’Azerbaijan alle urne: il regno degli Aliyev cavalca la pace in Karabakh (Repubblica e altri 07.02.24)
BAKU — «Voterò per Ilham Aliyev, per chi se no?». Shain Hamidov, il volto coriaceo segnato dalle rughe a dispetto dei suoi 52 anni, sorride alla retorica domanda sulle presidenziali anticipate indette oggi in Azerbaijan. Dopo la sconfitta dei separatisti armeni del Karabakh nella guerra di 44 giorni del 2020 e nella fulminea offensiva di 24 ore dello scorso settembre, nessuno dubita che “Aliyev il Vittorioso” — come lo ha soprannominato la stampa locale — conquisterà un quinto mandato. «Anche mio figlio ha combattuto per liberare i territori occupati. Aliyev ci ha restituito le nostre terre. Ha riportato la pace dopo trent’anni di conflitto», continua il venditore di tappeti e souvenir mentre spazzola una papakha, il tradizionale copricapo caucasico di pelle di pecora, sull’uscio del suo negozio nella Città Vecchia fortificata.
Alle sue spalle, oltre alle antiche mura color miele, svettano le sinuose Torri di Fiamma, i tre iconici grattacieli della capitale azera affacciata sul Mar Caspio, simbolo delle ricchezze naturali valse al Paese il soprannome di Terra del fuoco. Tutta Baku è un innesto. Tra Vecchio e Nuovo Mondo. Tra Asia ed Europa. Una stratificazione di antiche vestigia persiane, facciate neoclassiche, palazzoni sovietici e architetture avveniristiche innaffiate dai petrodollari.
Nel centro cittadino non c’è vetrina dove non sia affisso un grande poster che ricorda che «il 7 febbraio è il giorno delle presidenziali». Non ci sono nomi. Non serve. Da oltre mezzo secolo c’è una sola famiglia al potere: gli Aliyev. Nel 1969 l’allora capo del Kgb locale Heydar prese il potere in quella che era ancora una Repubblica sovietica. E alla sua morte nel 2003 subentrò il figlio Ilham, oggi 62enne, rieletto l’ultima volta nel 2018 con l’86% delle preferenze (sotto al record dell’89% del 2008).
Il voto di oggi, avverte però Anar Mammadli, 45 anni, a capo del Centro di studio per il monitoraggio elettorale e la democrazia (Emds), è «il meno competitivo nella storia dell’Azerbaijan», anche perché è stato indetto con 40 mesi di anticipo. «L’opposizione reale lo boicotta perché non era realistico preparare una campagna elettorale in due mesi. I sei rivali non hanno fatto che tessere le lodi di Aliyev o persino invitare a votare per lui. Decine di giornalisti indipendenti e attivisti sono stati arrestati. Le libertà non sono garantite», spiega Mammadli, egli stesso un ex prigioniero politico insignito del Premio Václav Havel per i diritti umani.
A partire dal 2014 «lo spazio per la discussione politica si è progressivamente ridotto», conferma Zohrab Ismayil, capo e fondatore delle Ong “Open Azerbaijan” e “Associazione pubblica di assistenza alla libera economia”. «Il governo controlla tutto: la politica, la magistratura, i media, l’economia. Ma non vuole correre rischi». Da qui gli stratagemmi per promuovere l’affluenza. «Dal 24 gennaio non c’è giorno in cui non abbia ricevuto un sms della Commissione elettorale con inviti a “usare il diritto di voto”», si lamenta il 31enne Cavanshir Mammadov che però non andrà alle urne. «La politica non mi interessa. Tanto non c’è speranza che cambi qualcosa».
Finora l’unica sorpresa delle presidenziali è che siano state indette. Il voto era programmato nel 2025, ma lo scorso dicembre Aliyev ha annunciato che sarebbe stato anticipato e il 10 gennaio in un’intervista ha spiegato perché: coronare con il voto, il primo nel Karabakh, l’inizio di una «nuova era» e il «ripristino dell’integrità territoriale» del Paese e celebrare così i suoi 20 anni al potere. L’obiettivo, secondo molti analisti, è proprio capitalizzare la vittoria dello scorso autunno, spalleggiata da Turchia e Russia, che ha portato la sua popolarità al culmine, anche tra i più giovani.
Il consenso è genuino. Dai ventenni Elmir Jafarov e Tenzar Amirova al loro primo voto che gironzolano tra i vivaci café della Piazza delle Fontane alla madre trentenne Aidan Abdullaeva che spinge un passeggino sul Bulvar fronte Caspio, nessuno ha dubbi: «Voterò Aliyev. Ha portato la pace». Soltanto una cinquantenne protesta dietro anonimato: «Non c’è libertà di parola. Non conta il merito, conta avere soldi. E i governanti li tengono per sé». Il rischio, sostiene Farid Mehralizada, economista 29enne, cofondatore del think tank Agora Analitik Kollektiv, è proprio questo: che l’euforia della vittoria nel Karabakh non distragga a lungo dall’economia stagnante. «Il Pil è aumentato soltanto dell’1,1% nel 2023, sotto le previsioni statali del 2.7%», spiega. «E benché quest’anno ospiteremo la Conferenza Onu sul Clima, oltre la metà di questo Pil dipende ancora dagli idrocarburi. Ma la produzione petrolifera è diminuita del 30% in dieci anni, tendenza che continuerà».
Finora, coi petrodollari, Aliyev è riuscito a lustrare l’immagine del Paese con gli European Games 2015, gli Europei di calcio 2020, i Gran Premi di F1, ma soprattutto a tessere preziose partnership energetiche con la Ue, come il gasdotto Tap che porta all’Italia. «E ora che la Russia è sanzionata a causa del conflitto in Ucraina, punta a raddoppiare le esportazioni di petrolio verso l’Europa». Secondo Ismayil, il legame con la Ue è una garanzia per la società civile. «Non diventeremo il Turkmenistan. Ma è anche vero che l’Occidente spesso chiude gli occhi perché teme di spingere il Paese nella sfera d’influenza di Russia o Turchia. Ma se Mosca perdesse in Ucraina, forse c’è speranza che qualcosa cambi».