Nel nome di Aurora eroina degli armeni. L’altro «Nobel» del capo di Moderna (Corriere della Sera 15.10.22)
Sul mercato degli schiavi dell’Anatolia Aurora Mardiganian fu venduta per una somma pari a 85 centesimi di dollaro. Cosa poteva valere quella ragazzina armena di una quindicina d’anni già spezzata dentro dalla morte dei genitori e di un fratello uccisi dai turchi, da una marcia interminabile fino ad Aleppo, dalla fame, dagli stupri, dalle scene spaventose alle quali aveva dovuto assistere?
Eppure, un secolo dopo, quella ragazzina annientata dal genocidio armeno ha avuto in qualche modo un «risarcimento» con la celebrazione a Venezia dell’«Aurora Prize for Awakening Humanity» (premio Aurora per il Risveglio dell’Umanità) che dona annualmente un milione di dollari, esattamente la cifra assegnata ai premi Nobel, a donne e uomini che si sono distinti per avere salvato vite umane in giro per il mondo.
Quello di quest’anno (dopo le vittorie nel 2016 di una Tutsi che da anni si prende cura di orfani Hutu, nel 2017 di un missionario medico in Sudan che manda avanti l’unico ospedale per 750 mila abitanti, nel 2018 di un attivista birmano schierato con i Rohingya, nel 2019 di una donna che dall’Iraq portava in Germania le vittime yazidi e ha continuato a farlo in carrozzina dopo essere precipitata in elicottero, nel 2020 di un team di madre e figlia somale che cercano instancabili di aiutare donne stuprate e recuperare bambini soldato, nel 2021 di una attivista congolese impegnata lei pure nella difesa di ragazze vittime di violenze) è stato assegnato a Jamila Afghani, fondatrice di una associazione che da venticinque anni cerca di dare alle afghane l’accesso all’istruzione. Tutti i premi che hanno consentito a questi eroi della solidarietà di portare avanti i loro progetti.
Ma vale la pena di partire dall’inizio. E cioè da quando nel 2015 Noubar Afeyan, imprenditore, inventore (oltre cento brevetti) e filantropo armeno naturalizzato statunitense, fondatore di «Moderna», la società di biotecnologia che produce uno dei vaccini più diffusi al mondo, decise con due amici generosi, Vartan Gregorian e Ruben Vardanyan, loro pure d’origine armena, di inventarsi un premio per chi da anni si impegna non genericamente «per la pace» (diciamolo: alcuni Nobel del passato si sono rivelati poi imbarazzanti) ma per salvare la vita e il futuro a chi è in pericolo, come tanti «Giusti» la salvarono ai perseguitati armeni.
A chi dedicarlo, un premio così? Chiesero suggerimenti a storici ed esperti, esaminarono varie ipotesi, decisero: Aurora Mardiganian. «Pesò anche il nome», spiega Afeyan, «L’alba che annuncia il giorno dopo la notte. La rinascita dopo il buio. Quattro anni fa, in Armenia, abbiamo voluto celebrare l’evento proprio alle quattro di mattina. L’alba. Al monastero di Khor Virap, dove san Gregorio restò prigioniero 13 anni prima di convertire re Tiridate III, che avrebbe fatto dell’Armenia il primo Stato cristiano al mondo. Fu un’aurora bellissima, davanti all’Ararat, così vicino da poterlo toccare ma così lontano di là del confine turco. C’era anche una ragazza giovanissima di nome Aurora. Da allora ce n’è sempre una. Anche qui a Venezia».
Ricordata come «la Giovanna d’Arco degli armeni», terza di otto figli di un proprietario terriero e produttore di seta a Chmshkatsag dov’era nata nel 1901, studentessa giudiziosa e aspirante violinista, finì come tante altre nell’inferno raccontato da Antonia Arslan ne La masseria delle allodole. Vide uccidere il padre e un fratello, fu trascinata con la madre e le sorelle nella lunga marcia attraverso il deserto fin sotto le mura di Aleppo, in Siria.
Un calvario che Armin Wegner, un giovanissimo ufficiale tedesco della Croce Rossa, immortalò con foto agghiaccianti e racconti incancellabili: «Mai come in questi giorni ho sentito vicino a me distinto il frusciare della morte, il suo silenzio, il suo freddo sorriso, e spesso mi chiedo: posso io ancora vivere? Ho ancora il diritto di respirare, di fare progetti per anni futuri così fantasticamente irreali, quando attorno a me c’è un abisso di occhi di morti?».
Violentata, sequestrata, venduta all’asta, comprata per l’harem di un curdo particolarmente violento, fuggì e fu ripresa, fuggì di nuovo e dopo «un viaggio di 18 mesi sui monti, nascosta in grotte e boschi, vivendo di vegetazione e radici, arrivò a piedi nudi, seminuda e affamata a Erzerum» tra Trebisonda e il lago di Van, in un’area della Turchia orientale allora occupata dai russi. Salvata da un gruppo di missionari americani venne infine aiutata a raggiungere New York. Raccontò la storia ad altri profughi armeni. E questi decisero che andava raccontata a tutti. Uscito nel 1918 e passato alla storia come la prima testimonianza oculare sul genocidio, Ravished Armenia (Armenia devastata), fece il botto: novecentomila copie vendute. Tanto da spingere i primi produttori del cinema muto a trarne un film con migliaia di profughi offertisi come comparse e la partecipazione della stessa Aurora. Un successo presto stoppato dopo il debutto per le polemiche sollevate dalle autorità turche che gridarono a una macchinazione. Una vicenda tormentata, di denunce, tagli, sequestri, dibattiti incandescenti nelle sale con lei, Aurora, coinvolta al punto che una sera, a Buffalo, per la tensione svenne e decise di chiamarsi fuori. E poco a poco sparirono più o meno misteriosamente tutte le copie della pellicola. Degli ottantacinque minuti originali, una decina sarebbero stati recuperati solo nel 1994. E il resto? Boh…
Il mito di quel libro, però, restò: «Riuscii a leggerlo solo quando già eravamo emigrati in Canada», sorride Noubar Afeyan. Un colpo al cuore: la storia l’aveva già vissuta nei ricordi della zia Armenouhi. Era stata lei, «la persona più importante della mia vita» che l’aveva cresciuto bambino a Beirut dove il fondatore di Moderna è nato nel 1962, ad aiutarlo a ricostruire la storia della famiglia. Il nonno imprenditore, rappresentante in Anatolia di una grande banca tedesca, importatore di uova, fuggito con tutta la famiglia in Bulgaria grazie a un passaporto iraniano avuto per i suoi business marittimi con imprese di Teheran.
La fuga dalla Bulgaria comunista verso Beirut e ancora, con lo stesso documento iraniano, la partenza verso il Canada. Tutte cose che hanno insegnato ad Afeyan come «gli armeni sono riusciti a sopravvivere affrontando sempre nuove realtà. Anche mia zia, nata a fine ‘800 e vissuta 103 anni, aveva vissuto la tragedia del genocidio armeno. Ricordava tutto. Ho ancora i nastri registrati di ore e ore di racconti. Un giorno o l’altro ci farò un libro».
Quanto a Ravished Armenia, quel libro così importante per gli armeni e per tutte le minoranze, non è mai stato tradotto in Italia. O meglio, è ora finalmente avviato alla pubblicazione (e meno male) ma era stato tradotto quasi trent’anni fa da Pietro Kuciukian (medico, figlio di un sopravvissuto, saggista, autore di numerosi saggi) senza che alcun editore accettasse di pubblicarlo perché pareva non interessasse a nessuno. Un ritardo stupefacente. Che per un secolo ha impedito agli italiani di conoscere una storia che aiutò tanta parte dell’umanità a capire.