Nel Nagorno Karabakh per alcuni c’è l’esilio per altri il ritorno a casa (Internazionale 04.12.20)
Settimane di bombardamenti non sono bastati a far uscire i genitori di Irina Safaryan dal loro bunker nella città di Hadrut, nella parte sud del Nagorno Karabakh. Solo quando i soldati dell’Azerbaigian hanno raggiunto la periferia di quest’insediamento le famiglie armene hanno deciso di fuggire.
“Pensavamo di tornare nelle nostre case in tre o quattro giorni, al massimo in una settimana”, racconta Safaryan. Hanno lasciato a casa le foto di famiglia.
I combattimenti per il controllo di questo territorio separatista del Caucaso meridionale sono finiti questo mese, con Hadrut che è finita sotto controllo azero. “Nessuno si aspettava di lasciare il suo territorio e la sua casa, per sempre”, dice Safaryan.
L’esodo degli armeni è lo specchio di un altro di trent’anni fa, quando seicentomila azeri fuggirono dalla prima guerra tra le due repubbliche post-sovietiche per il controllo del Nagorno Karabakh. Tra loro c’era anche Hagigat Hajiyeva. Anche lei aveva creduto di doversi allontanare solo momentaneamente dalla sua casa di Shusha, a meno di cento chilometri da Hadrut, quando era fuggita, nel 1992.
“Quando abbandonammo Shusha pensavamo che le cose si sarebbero calmate e che saremmo tornati”, dice Hajiveva. “Anche dopo l’occupazione armena della città, quando la mia famiglia si trasferì a Baku, la capitale dell’Azerbaigian, continuavamo a pensare che saremmo tornati presto. Ma non è mai successo”.
La vittoria dell’Azerbaigian sull’Armenia nella guerra di sei settimane per il Nagorno Karabakh ha trasformato in profughi decine di migliaia di abitanti armeni. Per i reduci della vecchia ondata di esuli azeri del Nagorno Karabakh, la conquista di questo territorio segna la fine della lunga attesa di un ritorno a casa.
Safaryan, 28 anni, spiega di far parte di una “generazione di guerra”: sia lei sia sua sorella sono nate nel bunker sotterraneo dove la loro madre ha trascorso buona parte del conflitto in questo territorio montuoso, tra 1988 e 1994. Alla fine della guerra la maggior parte della popolazione azera aveva dovuto lasciare il Nagorno Karabakh. La conquista, da parte degli armeni, del territorio che loro chiamano Artsakh, entrò a far parte delle storie che venivano loro raccontate da bambini.
“Guardavo sempre film e documentari, o leggevo libri, sulla guerra e la liberazione dell’Artsakh”, dice.
L’Azerbaigian aveva giurato che un giorno avrebbe riconquistato il Nagorno Karabakh, ma Safaryan era cresciuta sentendosi protetta dalle montagne e dai racconti sul coraggio degli armeni. “Geograficamente Hadrut è molto ben protetta ed era quasi impossibile da espugnare”, dice. “Il senso di protezione non mi ha mai abbandonata. Anche durante l’ultima guerra ero sicura al cento per cento che i nostri soldati avrebbero fatto qualsiasi cosa per vincere”.
La guerra degli anni novanta per il Nagorno Karabakh fu un’escalation di sentimenti nazionalisti che erano stati tenuti sotto controllo per decenni dal potere sovietico. “Armeni e azeri avevano vissuto insieme, ma non c’era fiducia reciproca”, spiega Safarayan. “Avevamo dei vicini, magari anche degli amici, ma la coesistenza non si fondava sulla fiducia”.
Pian piano, da un mese all’altro, le persone hanno cominciato a usare pistole e, dopo alcuni mesi, a lanciare razzi
Dalla sua casa di Baku, la settantaduenne azera Hajiyeva si ricorda di quando, ai tempi in cui l’Unione Sovietica cominciava a vacillare, gli armeni cominciarono a organizzare proteste nella regione. “Chiesi alla mia vicina armena per cosa stessero protestando, e lei mi disse che volevano più teatri e cinema”, ricorda. “Più tardi scoprimmo che volevano l’unificazione con l’Armenia”.
Alla fine degli anni ottanta ci fu un’escalation di violenze, e alla popolazione armena di Shusha fu ordinato di andarsene. “Abbiamo detto addio ai nostri vicini armeni senza rancori”, dice Hajieva. “Abbiamo persino guidato al loro fianco, scortandoli mentre uscivano dalla città”.
La donna pensava che le tensioni si sarebbero calmate, come solitamente accadeva in epoca sovietica. “Pian piano, da un mese all’altro, le persone hanno cominciato a usare pistole e, dopo alcuni mesi, a lanciare razzi”, dice.
“Un giorno gli armeni hanno persino lanciato una granata contro il cinema vicino a casa nostra, distruggendolo”, ricorda Hajiyeva. “Dopo quell’episodio abbiamo deciso di andarcene. Era troppo pericoloso vivere lì”.
La mattina del 27 settembre di quest’anno, Safaryan è stata svegliata dal suono delle esplosioni, vicino alla sua casa di Stepanakert, dove lavorava per il governo regionale. “Ho aperto le mie finestre e ho visto che tutta la città veniva bombardata”, dice.
I primi attacchi contro Hadrut avevano come obiettivo siti militari vicino alla casa della sua famiglia. “I miei parenti si sono svegliati e si sono resi conti che era iniziata la guerra”. I suoi genitori hanno trascorso le settimane successive nello stesso bunker dov’erano nate le ragazze. “Alcuni giorni non potevano neppure uscire a vedere il sole o a respirare un po’ di aria fresca”, dice Safaryan. “Sono stati giorni terribili, durissimi”.
La famiglia è stata trasferita da Hadrut a metà ottobre, due giorni prima che la città venisse conquistata dai soldati azeri. Un aumento delle spese militari, alimentate dai proventi petroliferi, in particolare per l’acquisto di droni turchi e israeliani, ha contribuito a far volgere in maniera decisiva il conflitto a favore dell’Azerbaigian.
“Tutta la strada dove siamo cresciuti e dove giocavamo è stata rasa al suolo dagli azeri”, dice. “Non hanno lasciato niente della mia infanzia. Alcune persone venute da lì ci hanno detto che hanno bruciato tutto”.
Tra i 1.170 soldati che, a quanto dice il governo armeno del Nagorno Karabakh, sono stati uccisi, c’erano vari ragazzi con cui è cresciuta.
I genitori di Safaryan adesso vivono con i nonni della ragazza, a Yerevan. “Per il momento sopravvivono, e nulla più”, dice. “Stiamo cercando di capire cosa fare”.
Sotto accusa
Dopo il 1994 il triste destino degli azeri sfollati dal Nagorno Karabakh nella prima guerra divenne una causa nazionale in Azerbaigian. Ma il senso di trovarsi alla deriva non è mai sparito, dice Hajiyeva. “Alcune persone ci chiedevano perché avevamo lasciato la nostra città”, ricorda. “Era come se ci accusassero di qualcosa. Ci sentivamo insultati, umiliati, diffidenti, perché eravamo stati costretti a lasciare la nostra città”.
Suo nipote Suleyman, di 25 anni, è nato dopo la fuga della famiglia, ma è cresciuto ascoltando le storie della vita della nonna a Shusha. Ha ripercorso il destino della casa di famiglia usando mappe satellitari e filmati della città presenti su internet. “La casa è sopravvissuta all’occupazione”, dice. “Ho sempre seguito alcuni abitanti armeni di Shusha sui social network per vedere cosa accadeva nella mia città”.
In realtà trasferirsi davvero in quella città potrebbe essere più difficile di quanto immagini. “I miei amici, il mio lavoro, tutta la mia vita è a Baku”, dice. “Ma ma mi sono preparato da sempre all’idea che, una volta a Shusha, ricomincerò la mia vita da zero”.
Hajiyeva dice che, dopo così tanti anni, non credeva più che sarebbe mai potuta tornare. “Ho pianto per ore quando ho sentito che Shusha era stata liberata”, dice. “È impossibile spiegare la sensazione a parola. Baceremo il terreno quando torneremo”.
Oltre confine, in Armenia, profughi come Safaryan hanno cominciato la loro lunga attesa di tornare a casa. “Mi sento come se non fossi più nessuno”, dice Safaryan.
“Era tutto quello per cui vivevo e lottavo: fare grandi progetti per Hadrut e ogni singola città o villaggio dell’Artsakh. E ora non c’è più nulla. Niente per cui lottare. E niente per cui vivere”.