Negate, negate lo sterminio degli armeni, qualcosa resterà (Tempi.it 30.04.17)

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – In questo nuovo millennio noi consideriamo raramente le scritture in senso letterale, se per “noi” intendiamo gli occidentali e per “scritture” il Primo e il Secondo testamento. Generalmente la scrittura è ignorata. Quando viene letta, è perlopiù considerata il prodotto di brave persone che non hanno assolutamente niente da dire sulla realtà.

Nonostante questo, ogni volta che penso al negazionismo sul genocidio, non riesco a togliermi dalla testa le parole «Io sono la via, la verità e la vita»: l’intima connessione tra il riconoscimento dell’inestimabile valore della vita, la centralità della verità e la recta via. Il genocidio è l’esplosiva negazione del valore umano più fondamentale: l’esistenza o, più semplicemente, la vita. Quella negazione è costruita su una menzogna: che ci sia qualcosa come una “razza superiore” che ha il diritto di eliminare ciò che chiama lebensunwertes leben – la vita non degna di essere vissuta. Essa impone questa menzogna alle persone, tanto alle vittime quanto ai carnefici. Obbliga tutti coloro che sono complici di questa menzogna – i primi che l’hanno raccontata, quelli che l’hanno imposta al mondo attraverso il sangue delle vittime e chi desidera che questa menzogna venga imposta – a continuare a viverla anche molto dopo la fine del genocidio. Il genocidio plasma la strada delle persone: blocca le loro vie.

Il romanzo di Mark Mustian, La memoria del vento (Piemme), è un valido tentativo di tradurre questo fenomeno. Il suo protagonista, Akhmet Khan, che aveva cambiato nome, sposato una donna americana e si era trasferito negli Stati Uniti, scopre che non può condurre una “vita normale” nonostante la traumatica amnesia che lo ha portato a dimenticare che aveva partecipato nel 1915 alla strage degli armeni. Il suo passato era tornato nei suoi sogni. Lo perseguitava. Lo alienava dal suo ambiente confortevole. Minacciava la sua sanità. Lo sprofondava in un ossessivo bisogno di essere perdonato. La sua via, Akhmet capì, aveva bisogno di essere ricostruita sull’accettazione della verità e sulla redenzione per aver dissacrato il più fondamentale dei valori umani – la vita.

Quella di Mustian non è una favoletta: un pezzo a buon mercato di un romantico sogno ad occhi aperti. Gli esseri umani non possono massacrare un numero enorme di altri esseri umani, o invocare il loro assassinio, e poi continuare a vivere come se niente fosse. Non è per pietà che Himmler supplicò Hitler di trovare un’alternativa al lavoro delle Einsatzgruppen. Lui vide quanto le stragi come quella di Babi Yar devastavano le menti dei suoi squadroni della morte. Molti di loro diventavano alcolisti. Altri cominciavano a rifiutarsi di eseguire gli ordini. Pochi tra loro diventarono sadici pericolosi. Himmler aveva bisogno che meno uomini fossero coinvolti nel genocidio.

Mustian potrebbe essere accusato di nutrire un’eccessiva speranza. Non tutti gli assassini si pentono. Non tutti coloro che hanno perpetrato il genocidio abbandonano le menzogne che li hanno portati a partecipare al genocidio stesso. Alcuni combatteranno per restare nella menzogna e aggiungerne altre alle prime. Gli esseri umani hanno il libero arbitrio, che è la chiave del mistero del male. Le memorie di Halide Edib, House with Wisteria, ne sono una notevole dimostrazione.

Scacciare i fantasmi
Halide Edib era una donna singolare dei primi anni del XX secolo. Brillante, energica e bene educata, è ancora oggi un’eroina per chi si batte per i diritti delle donne. Lei si è ritrovata anche nel bel mezzo del genocidio armeno. Con gli ideologi dei Giovani turchi, Yusuf Akçura e Zika Gökalp, fondò il movimento Halka Dogru (Verso il popolo) il cui obiettivo era “nazionalizzare”, o turchizzare, le masse anatoliche. Edib aveva quello che potremmo chiamare un salotto rivoluzionario a Costantinopoli negli anni che precedettero il genocidio, dove venivano discussi grandi piani per una nuova Turchia, etnicamente e culturalmente omogenea. I suoi ospiti abituali includevano uomini come Djemal Pasha e Talaat Pasha.

Edib recitò una parte nella seconda fase del genocidio armeno: la vittoriosa battaglia dei nazionalisti turchi per assicurare che la patria turca, etnicamente e culturalmente omogenea, che aveva gettato le sue basi con il genocidio, vedesse la luce nonostante la disastrosa sconfitta del Cup nella guerra e nonostante l’insistenza dell’Intesa sul fatto che il Cup fosse il responsabile dei «crimini contro l’umanità e la civiltà». Dopo la sconfitta degli ottomani, Edib si unì alla resistenza nazionalista turca, costituita principalmente da ex membri del Cup. Diventò sergente nell’esercito nazionalista. Ebbe un ruolo anche nella terza fase del genocidio armeno, contribuendo a formulare e diffondere il negazionismo turco: la loro negazione del genocidio. È questo che rende così interessante il suo libro, House with Wisteria: Memoirs of Turkey Old and New.

Le memorie di Edib vorrebbero essere un racconto oggettivo della sua vita. Pubblicato per la prima volta in inglese appena due anni dopo il Trattato di Losanna, si tratta in realtà di un brillante tentativo di riscrivere la storia per scacciare i fantasmi del genocidio armeno che ancora vagavano nelle menti americane ed europee, e cullare le loro coscienze, disturbate dall’orrenda strage di vite innocenti, fino a chetarle. Lo scopo di Edib era persuadere il mondo anglofono che ciò che era accaduto in Anatolia e sugli altopiani armeni negli anni bui tra il 1915 e il 1923, quando circa il 95 per cento della popolazione cristiana autoctona della moderna Turchia semplicemente “svanì”, era solo una storia sui turchi: «Il racconto di una delle più grandi epopee della moderna Europa», come scrive nel suo epilogo. Un’epica, chiarisce, nella quale le aspettative del popolo turco, che «attendeva che il sipario si alzasse di nuovo e rivelasse una nuova e pacifica Turchia in cui i grandi risultati del 1908 si ergessero dritti, ripuliti e purificati dal sangue e dal sacrificio dei grandi figli della Turchia», venivano onorate negli anni che «avevano portato il paradiso e l’inferno alle terre e al popolo turco».

La principale strategia di Edib è rendere i turchi stessi – con e attraverso di lei – i protagonisti della vera storia dell’Anatolia, per rappresentarli come eroi “virili” e “cavallereschi” che avevano il vero diritto alle “terre turche” e insinuare che gli eroici turchi, senza commettere alcun errore, erano stati terribilmente fraintesi e maltrattati dall’Occidente.

«Non ha battuto ciglio»
Edib ha dovuto omettere tante cose, stravolgendone molte altre, per rendere il genocidio armeno prima di tutto una storia sul frainteso ed eroico uomo turco. Lei non racconta neanche che andò a scuola con delle ragazze armene da bambina. Si aspettava che i suoi lettori credessero che i grandi armeni, come Gomidas e Sinan, fossero turchi. Deforma gli anni che passò ad Antoura come direttrice dell’orfanotrofio in cui i bambini armeni venivano turchizzati con la violenza. «Perché permetti che i bambini armeni», scrive di aver innocentemente domandato una volta a Djemal Pasha, «vengano chiamati con nomi musulmani? Così sembra che gli armeni vengano trasformati in musulmani e la storia un giorno si vendicherà di questo con le prossime generazioni di turchi». Lei non immaginava, quando ha partorito questa storia, che uno di quei giovani, Karnig Panian, avrebbe molti anni dopo scritto che lei «non ha neanche battuto ciglio» davanti alla selvaggia punizione di due orfani armeni per aver «dissacrato la bandiera turca».

Edib non cambiò posizione fino alla fine. Hitler, come rivelarono i suoi amici, ammirò “l’epica” turca e tentò di emularla. La “nuova e pacifica Turchia” che lei aiutò a costruire ancora vomita le menzogne che lei ha aiutato a raccontare. Il problema è che la Turchia è tutto tranne che “nuova e pacifica”. È stata costruita su una menzogna.

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