Nagorno Karabakh: storia e fine dell’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh (Osservatoriodiritti 15.11.23)
Ogni Stato ha un giorno che ne celebra l’indipendenza. C’è però un popolo che, invece, conserva il ricordo del giorno della scomparsa della sua nazione, della fine della sua esistenza: il popolo armeno della Repubblica dell’Artsakh, nome con il quale era stato battezzato lo Stato mai riconosciuto da alcun Paese al mondo del Nagorno Karabakh, che ha cessato di esistere il 19 settembre, dopo che le truppe dell’Azerbaijan hanno sferrato un violento attacco con aviazione, artiglieria e droni che ha provocato centinaia di vittime.
A seguito dell’aggressione di Baku e della resa totale da parte dell’amministrazione della Repubblica del Nagorno Karabakh, oltre centomila cittadini armeni hanno abbandonato per sempre la loro terra e per giorni macchine, autobus, trattori e carri colmi di valige, macerie di esistenze e lacrime senza soluzione di continuità hanno attraversato il ponte di Hakari verso la vicina Armenia, trasportando un intero popolo divenuto orfano di una terra.
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Nagorno Karabakh: la storia
Per capire come si è arrivati all’esodo della popolazione armena dalla sua terra d’origine occorre ripercorrere gli eventi più recenti della storia del territorio conteso del Caucaso meridionale. Il Nagorno Karabakh, terra storicamente armena e popolata per il 95% da cittadini armeni, nel 1921 venne ceduta da Stalin all’Azerbaijan. Una manovra, quella del dittatore georgiano, fatta per compiacere la Turchia di Ataturk e rafforzare il neonato stato azero, ricco di giacimenti di idrocarburi.
Alla fine degli anni ’80, con le prime avvisaglie dell’imminente collasso dell’impero sovietico, i cittadini armeni dell’Oblast Autonomo del Nagorno Karabakh avanzarono richieste di indipendenza dall’Azerbaijan e annessione con la madrepatria. Le rivendicazioni della maggioranza armena vennero però respinte e la convivenza tra le due comunità si fece sempre più difficile, tanto che incominciarono a registrarsi scontri e massacri da ambo le parti che portarono alla guerra, che dal ’92 al ’94 causò la morte di oltre 30 mila persone.
Solo un flebile cessate il fuoco fermò la guerra, che si concluse con la vittoria finale degli armeni, che presero controllo dell’intera regione e proclamarono la nascita della Repubblica dell’Artsakh.
Formalmente, però, in base agli accordi e alle risoluzioni internazionali, il Nagorno Karabakh è rimasto parte dell’Azerbaijan ed è per questo motivo che Baku ne ha sempre rivendicato l’appartenenza.
L’Artsakh, invece, negli anni ha invocato il riconoscimento internazionale appellandosi al diritto dell’autodeterminazione dei popoli ed è stato questo impasse giuridico a impedire la fine delle ostilità.
Il 27 settembre del 2020 l’Azerbaijan infatti ha attaccato nuovamente il territorio armeno arrivando, dopo 44 giorni di scontri, a occupare gran parte della regione.
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La guerra in Nagorno Karabakh: il blocco del corridoio di Lachin
Dal 12 dicembre 2022 il governo azero, in contrasto con gli accordi di cessate il fuoco del 9 novembre del 2020, che prevedevano che i peacekeepers russi monitorassero il corridoio di Lachin, ha bloccato la sola arteria che metteva in comunicazione l’Armenia con l’autoproclamata Repubblica dell’Artsakh e che, prima del blocco stradale, vedeva il transito quotidiano di 400 tonnellate di beni di prima necessità destinati agli armeni del territorio dell’Artsakh.
Per oltre 9 mesi più di 120.000 persone, uomini, donne e bambini armeni hanno vissuto completamente accerchiati e in ostaggio delle forze di Baku e, a partire dal 15 giugno, è stato negato l’accesso al territorio conteso anche agli aiuti umanitari e ai mezzi della Croce rossa internazionale, accusati di trasportare merci di contrabbando.
Da allora le condizioni dei civili del Nagorno Karabakh sono precipitate, aggravando una crisi umanitaria che non si è arrestata durante tutti i mesi di isolamento, nonostante gli appelli dell’Europa, degli Stati Uniti, di Amnesty International, di Human Rights Watch e anche del Tribunale dell’Aja, che hanno chiesto la riapertura della strada.
I racconti degli esuli armeni
«Quando il blocco del corridoio di Lachin è incominciato con un presidio di sedicenti eco-attivisti non avevamo la percezione di ciò che stesse accadendo. Pensavamo che si trattasse di una manovra di pressione politica e che sarebbe terminata presto, anche perché era compito del contingente di peacekeeping russo permettere la libera circolazione di uomini e mezzi dall’Armenia al Karabakh. Quando però le merci hanno iniziato a scarseggiare, il cibo ha iniziato ad essere razionato, i soldati russi non intervenivano e gli azeri hanno sostituito la manifestazione degli attivisti con un check-point permanente, in quel momento abbiamo capito che la situazione stava degenerando e stava divenendo drammatica».
Pochi giorni prima dell’ultima aggressione condotta dall’Azerbaijan contro il territorio armeno del Nagorno Karabakh, Jasmine, una studentessa di 18 anni, trasferitasi da poco in Armenia per motivi di studio, raccontava in questi termini il periodo trascorso isolata dal resto del mondo.
«Mi ricordo le sveglie all’alba di mia mamma che si metteva in fila dalle prime luci del giorno per ricevere un pezzo di pane, mi ricordo l’attesa di vivere senza sapere cosa sarebbe stato di noi all’indomani e lo sconforto nel non vedere alcuna reazione da parte del resto del mondo. E poi mi ricordo il giorno che me ne sono andata di casa».
Durante la chiusura della sola strada che univa l’Armenia all’Artsakh, l’uscita dalla regione contesa era concessa ai cittadini armeni solo per motivi di salute o di studio. «Io, per poter aver un futuro, mi sono trovata a scegliere tra la mia famiglia e lo studio. E quando ho deciso di venire a Yerevan a studiare e ho salutato la mia famiglia, solo in quel momento, mi sono resa conto che forse non l’avrei vista mai più».
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L’attacco al Nagorno Karabakh e l’esodo umanitario
Il 19 settembre, adducendo a casus belli la morte di alcuni cittadini azeri a causa di alcune mine collocate nel territorio del Karabakh, il governo di Baku ha avviato un attacco su vasta scala bombardando per quasi un’intera giornata la ex capitale dell’Artsakh, Stepanakert.
I bombardamenti hanno provocato decine di morti anche tra la popolazione civile, bambini compresi. Inoltre si sono registrate violazioni di diritti umani in tutto il territorio aggredito.
A poche ore dall’inizio dell’azione militare, il governo autonomo della Repubblica dell’Artsakh, che non ha ricevuto alcun supporto militare dall’esecutivo armeno di Pashinyan, ha accettato le condizioni di resa e da quel momento la storia è nota: gli oltre 120 mila armeni del Nagorno Karabakh, tra il panico e la disperazione, hanno caricato coperte, vestiti e i pochi ricordi che sono riusciti a salvare su vecchi furgoni Uaz e su Lada Niva e Lada Zhiguli e hanno abbandonato per sempre una terra che, per la prima volta nella storia, è orfana della presenza di cittadini armeni.
Una fuga, quella della popolazione armena del Nagorno Karabakh, a seguito di un attacco militare, che è stata definita da una risoluzione del Parlamento europeo un’operazione di pulizia etnica da parte dell’Azerbaijan ai danni della comunità armena del Nagorno Karabakh.
E mentre i cittadini armeni lasciavano il “Giardino Nero” del Caucaso meridionale, i principali leader politici dell’Artsakh – tra i quali Ruben Vardanyan, ex ministro di Stato, David Babayan, ex ministro degli esteri dell’Artsakh, Bako Sahakyan, ex presidente della Repubblica dell’Artsakh e l’ex primo ministro Arayik Harutyunyan – sono stati arrestati e trasferiti nelle carceri di Baku.
Nagorno Karabakh oggi: il destino dei cittadini armeni
Dopo tre decadi la storia della Repubblica dell’Artsakh è terminata e il 1° gennaio 2024 cesserà formalmente di esistere ogni istituzione che richiami, o ricordi, lo Stato mai riconosciuto del Nagorno Karabakh. I suoi abitanti, i suoi uomini, le sue donne e i suoi bambini vivono ora in alloggi di fortuna, in palestre adibite a centri di accoglienza e in case sfitte messe a disposizione dai cittadini armeni, all’interno del territorio dell’Armenia.
Sono uomini e donne senza più un lavoro né un’esistenza e che, oltre al dramma di aver perso tutto, oggi devono fronteggiare le difficoltà di ricominciare a vivere e trovare un’occupazione in un Paese di poco più di 2 milioni di abitanti, con una situazione economica aggravatasi dopo lo scoppio della pandemia e della guerra tra Russia e Ucraina, e che ora fatica ad aiutare e inserire nella società degli oltre 120.000 sfollati dell’Artsakh.
«Quello che vede davanti a me è tutto ciò che mi rimane della mia vita» , racconta a Osservatorio Diritti Nvard, 53 anni, originaria di Stepanakert, che ora trascorre le sue giornate in una piccola stanza d’albergo di Goris, l’ultima città armena prima di quello che era l’ingresso nel territorio dell’Artsakh.
Davanti a lei alcune foto in bianco e nero sparigliate sul tavolo e intanto, sul display del cellulare, scorrono alcuni video dei compleanni dei nipoti festeggiati solo pochi anni prima in Artsakh. La donna non smette di guardare le foto e i video, nonostante lacrime silenziose, di cui non si cura.
«Non esiste più nulla di tutto questo. Solo ricordi che con il tempo diventeranno opachi anche loro, come queste foto in bianco e nero. Tutta la mia vita non esiste più. Non c’è più nulla, nemmeno la misericordia di poter portare un fiore sulla tomba di mia madre. Niente. Ho solo quest’anonima stanza di albergo in cui dormire e un dolore, che non auguro a nessuno, a riempire il vuoto che ho dentro. Io, per tutta la mia vita, ho avuto un sogno: venire in Italia e vedere Venezia. Oggi, invece, ho un altro sogno: rivedere ancora, almeno per una volta nella mia vita, la mia terra. Ma so che è solo una chimera e che morirò un giorno senza aver più avuto modo di tornare, anche solo per un istante, nel mio Artsakh».