NAGORNO-KARABAKH: Prova di forza di Baku. Bloccato il corridoio di Lachin, 120.000 persone isolate (East Journal 21.12.22)
Fronteggiando il contingente russo di pace, sedicenti ambientalisti azeri stanno provocando da dieci giorni il blocco dell’unica strada che dal Nagorno-Karabakh conduce in Armenia. Erevan denuncia: «È in corso una crisi umanitaria».
Dalla mattina del 12 dicembre centinaia di cittadini azeri, presentatisi come militanti ecologisti in protesta contro presunte attività illegali di estrazione mineraria nel territorio del Nagorno-Karabakh, hanno reso inagibile il solo collegamento esistente tra la regione a maggioranza armena, situata all’interno dell’Azerbaigian, e l’Armenia.
Le autorità azere, con una notevole acrobazia dialettica, negano che il blocco sia esercitato dai manifestanti, ma piuttosto dai soldati di Mosca, schierati nell’area come stabilito dall’accordo di cessate il fuoco che ha messo fine alla guerra del 2020. Sta di fatto che gli attivisti hanno montato delle tende e rifiutano di andare via fino a quando i militari russi non permetteranno loro di entrare nelle terre abitate dagli armeni per poter ispezionare i giacimenti al centro della contestazione. In particolare, le miniere di oro e rame di Gyzylbulag, Drmbon per gli armeni, e Demirli/Kashen. Secondo quanto sostiene Baku, le risorse estratte in spregio alle normative ambientali in quello che è riconosciuto internazionalmente come un territorio dell’Azerbaigian sarebbero trasportate indebitamente in Armenia.
Cionondimeno, l’indipendente e autorevole sito Eurasianet, tra gli altri, ha riportato come gli slogan ecologisti abbiano presto lasciato il posto a canti nazionalisti. Alcuni «ambientalisti» sono stati ripresi mentre si esibivano nel saluto del movimento estremista turco dei Lupi grigi. Un’inchiesta del servizio armeno di Radio Free Europe (RFE/RL) ha rivelato come quasi nessun manifestante possa vantare esperienze precedenti nell’eco-attivismo, ma molti di loro abbiano pronunciate simpatie governative, avvalorando le accuse di Erevan, secondo cui si tratterebbe di una messa in scena pretestuosa. Da parte armena, c’è timore che queste «azioni provocatorie» si inseriscano in un disegno più ampio volto a indurre una ripresa delle ostilità.
I sedicenti ambientalisti domandano inoltre l’istituzione di checkpoint azeri lungo la strada che porta in Armenia. Una richiesta inaccettabile per le autorità dell’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, anche conosciuta come Artsakh.
La crisi umanitaria nel Nagorno-Karabakh
«Da otto giorni», ha scritto lunedì su Twitter il premier armeno Nikol Pashinyan «il corridoio di Lachin è stato chiuso dall’Azerbaigian, la gente del Nagorno Karabakh è bloccata per strada al freddo, famiglie si trovano su lati diversi dello sbarramento e cittadini con gravi problemi di salute sono privati dei medicinali e dell’assistenza sanitaria». Tra il 13 e il 16 dicembre è stata interrotta anche l’erogazione del gas. L’Artsakh dipende da Erevan per la fornitura di farmaci, cibo, benzina e altri beni di prima necessità, che ora stanno iniziando a scarseggiare.
La sospensione del collegamento tra Stepanakert, capitale dell’autoproclamata repubblica del Nagorno-Karabakh, e la città armena di Goris viola l’accordo di tregua firmato il 9 novembre del 2020 dai due belligeranti più Mosca, secondo cui l’Azerbaigian è tenuto a «garantire la circolazione sicura di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni del corridoio», la cui protezione è affidata alle forze di pace della Federazione russa.
La diplomazia coercitiva di Baku
Il corridoio di Lachin era stato già bloccato lo scorso 3 dicembre con analoghe motivazioni, ma era stato riaperto dopo poche ore. Incontri tra esponenti del governo azero e del contingente di mantenimento della pace si sono svolti nel comando dei peacekeeper a Khojali/Ivanyan, nelle terre popolate dagli armeni: non accadeva da decenni che membri delle istituzioni azere entrassero nelle aree controllate dall’Artsakh. Secondo l’agenzia azera APA, in quell’occasione «è stata avviata la stesura di una tabella di marcia per lo svolgimento di lavori con la partecipazione del ministero dell’Ambiente» nelle zone dove sono situati i giacimenti. Ma il 10 dicembre, quando i rappresentanti di Baku, scortati dai soldati di Mosca, hanno cercato di accedere a uno dei siti minerari, hanno trovato i civili armeni a sbarrargli la strada.
Gli abitanti del Nagorno-Karabakh avvertono con angoscia crescente la precarietà della loro condizione. Non considerano più i militari russi capaci di assicurare la sicurezza sul territorio e temono che l’Azerbaigian voglia imporre la propria sovranità sulla regione senza che Erevan sia in grado di negoziare nemmeno le più elementari garanzie di autonomia. L’avvio delle operazioni militari di Mosca in Ucraina ha convinto Baku a diventare più intraprendente e a testare continuamente le linee rosse del Cremlino. La vulnerabilità dell’Artsakh è sotto gli occhi di tutti. Sullo sfondo dei negoziati di pace, la diplomazia coercitiva dell’Azerbaigian mette l’Armenia con le spalle al muro. Baku è intenzionata a far valere la sua posizione di forza affinché Erevan sottoscriva rapidamente un accordo in cui riconosca l’integrità territoriale dell’Azerbaigian, rinunciando a qualsiasi rivendicazione. Inoltre, spinge per la realizzazione di un corridoio che, attraverso l’Armenia, colleghi il paese all’exclave del Nakhchivan.
La guerra dei 44 giorni del 2020
Se il sanguinoso conflitto degli anni Novanta era stato nettamente vinto dall’Armenia, che oltre al Nagorno-Karabakh aveva ottenuto il controllo di estese zone adiacenti, spingendo alla fuga centinaia di migliaia di azeri, la guerra del 2020 ha reso manifesto il capovolgimento degli equilibri tra i due paesi del Caucaso meridionale. L’Azerbaigian, uscito più malconcio dal crollo dell’URSS, si è trasformato in tre decenni in una potenza energetica dalla politica estera sapientemente bilanciata. E mentre i tentativi del gruppo di Minsk, guidato da Francia, Russia e Stati Uniti, di favorire una soluzione diplomatica al conflitto congelato andavano incontro al fallimento, Baku modernizzava il suo esercito.
Potendo contare sull’assistenza militare della Turchia, tradizionale alleata, all’Azerbaigian sono servite solo sei settimane per riconquistare una buona parte dei territori occupati dagli armeni (i rimanenti li ha ottenuti con la firma dell’accordo di cessate il fuoco) e pressappoco un terzo dell’Artsakh, compresa la storica Shushi/Shusha. Le drammatiche vicende avvenute nell’ultimo secolo in questa città possono essere assunte a paradigma del profondo solco che divide i due popoli.
La fragile collocazione armena nel gioco delle alleanze
L’intervento russo, in cui l’Armenia sperava come ancora di salvezza, non si è concretizzato. L’insofferenza di Mosca nei confronti dell’intransigenza dell’alleato armeno durante i decennali negoziati, che fino all’ultimo ha cercato di mantenere lo status quo (il controllo del Nagorno-Karabakh e dei sette distretti azeri) sebbene i rapporti di forza fossero sensibilmente mutati, è emersa con chiarezza. Sicuramente hanno giocato un ruolo anche le tensioni con il premier armeno, eletto nel 2018 a seguito di proteste antigovernative che agli occhi del Cremlino sono apparse come una disprezzabile rivoluzione colorata.
Nella guerra del 2020 la Federazione Russa, i cui rapporti con Baku – a cui ha venduto ingenti quantità di armi – sono più che cordiali, ha mantenuto una posizione neutrale, chiarendo che gli obblighi dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO), l’alleanza militare di sei ex repubbliche sovietiche a guida di Mosca, «non si estendono al Nagorno-Karabakh», ma sono limitati ai confini internazionalmente riconosciuti dell’Armenia. Un’argomentazione che si è rivelata poco convincente per Erevan, in particolare dopo le incursioni azere dello scorso settembre, che hanno colpito obiettivi, anche civili, all’interno del suo territorio. Pashinyan si era nuovamente rivolto alla CSTO, senza successo.
Tuttavia, al momento è impossibile per l’Armenia trovare un alleato che possa rimpiazzare la Russia. Gli USA e l’Unione europea si mostrano sempre più attivi negli sforzi di mediazione, ma la posizione di Bruxelles è a dir poco delicata: alla ricerca di partner energetici che possano sostituire Mosca, ha trovato una sponda in Baku. L’Azerbaigian si è impegnato ad aumentare le sue esportazioni di gas verso l’UE del 30 per cento quest’anno e di raddoppiarle entro il 2027. Erevan non appare avere altra scelta che quella di continuare ad affidarsi, suo malgrado, allo storico partner, diventandone ogni giorno un po’ più dipendente.