Nagorno-Karabakh pronto alla ribalta internazionale (Lindro.it 26.04.16)
La regione del Nagorno-Karabakh è una scintilla pronta a diventare fuoco vivo appena le condizioni lo renderanno possibile. Non sono molte le voci che arrivano da quella parte di mondo, eppure la storia avvincente che si snoda a cavallo tra guerra fredda e modernità suscita in qualcuno ancora un grande interesse. Tra i pochi testimoni occidentali, in quella terra c’è un giovane ricercatore italiano, Francesco Trupia, che ci racconta cosa succede e cosa potrebbe succedere in futuro nel Nagorno-Karabakh (NKR). Dopo essersi laureato in Politica e Relazioni internazionale all’Università di Catania, Trupia ha lavorato nei Balcani, precisamente in Bulgaria, in progetti di cooperazione con minoranze etniche, religiose e (in senso lato) anche politiche, anche tra Serbia, Romania e Turchia. Maturando interesse per i processi di democratizzazione nello spazio post-Sovietico, ha deciso di andare a lavorare presso il Caucasus Research Resource Centre di Yerevan, e, come laureando, presso l’Università St. Klimenth Ohridiski di Sofia. Fin dal nuovo inizio del conflitto nel Nagorno-Karabakh ha seguito lo scenario per Alpha-Institute of Geopolitics and Intelligence, in cui è ricercatore. “I giorni precedenti il 2 Aprile mi trovavo vicino la zona occupata, ma in territorio armeno, per motivi legati alla mia ricerca. Per altrettanti, questa volta legati all’Istituto e all’Ambasciata italiana, che non ha giurisdizione nel Nagorno-Karabakh, non sono riuscito a oltrepassare il confine, nonostante sia controllato dalle autorità armene. Solo i pochi giornalisti accreditati hanno raggiunto Stepanakert e le varie zone del Karabakh. Ciononostante, sto mantenendo dei contatti presso gli uffici di Stepanakert, sperando di raggiungere la zona verso metà Maggio per riportare lo scenario post-conflitto“, ci racconta.
Partiamo dalle ragioni storiche della diatriba tra Armenia ed Azerbaijan?
Le ragioni della diatriba tra Armenia e Azerbaijan non sono ascrivibili solo al conflitto nel Nagorno-Karabakh dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. D’altra parte, però, è pur vero che una ricostruzione storica della diatriba è assai complicata, poiché proprio la storia è stata negli anni manipolata da entrambi i Paesi e connessa a valori etnici e identitari di due popoli, e una regione, quella del Caucaso, crocevia geografico e politico di dinastie e dominazioni cristiane e islamiche. L’idea di Armenia per il proprio popolo ha una connotazione di ‘Patria’ piuttosto che dell’attuale entità Statale, con riferimenti risalenti fino al IV secolo d.C. quando il Karabakh rappresentava una regione della prima ‘Nazione cristiana’. L’Azerbaijan, invece, definisce la regione come un enclave forzatamente ‘armenizzata’ dalla Chiesa Apostolica di Armenia lungo i secoli, ma etnicamente ‘turksoy’ (turcofona), quindi ‘giustamente’ annessa alla Repubblica Socialista di Azerbaijan dall’Urss, e mantenuta tale anche dopo la caduta del regime sovietico. L’annessione del Karabakh all’interno dell’Amministrazione azera, nonostante Mosca conoscesse la demografia della regione, trasformò la maggioranza armena in minoranza in Azerbaijan. Una strategia, quella sovietica, volta a creare un ‘clima di instabilità’ tra le due ex Repubbliche sovietiche, in cui poter giocare un ruolo di pivot e amministrare il proprio potere centrale, mantenendone il controllo. La dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse l’occupazione militare armena del territorio, con conseguente proclamazione unilaterale della de facto Repubblica del Nagorno-Karabakh nel 1991. Da allora instabilità e insicurezza hanno reso l’Armenia un ‘landlocked’, con Turchia e Azerbaijan a occidente e oriente, soli pochi chilometri di confine iraniano a sud e quelli georgiani a nord.
Una risoluzione del conflitto condurrebbe per forza la perdita del Karabakh per una delle due parti oggi contrapposte, anche qualora venisse riconosciuta la Repubblica di Stepanakert, che neanche Erevan riconosce. Per l’Armenia sarebbe una sconfitta valoriale prima che politica, dopo le rivendicazioni dei territori sottratti ‘ingiustamente’: non solo quelli dei confini occidentali, confinanti con la Turchia e delimitati dal monte Ararat, tutt’oggi chiusi, ma anche quelli dell’enclave del Nakhichevan, e appunto del Nagorno-Karabakh. Per l’Azerbaijan la dissoluzione dei propri confini nazionali, nonché una cocente sconfitta contro il nemico regionale. Ovviamente l’interesse russo non è da sottovalutare, poiché pienamente geopolitico. Durante l’Amministrazione comunista i rapporti tra i due popoli venivano moderati da Mosca, ma la dissoluzione dell’Unione Sovietica condusse la Russia a rintanarsi nelle proprie ‘faccende domestiche’ e lasciare l’inizio del conflitto nelle mani della comunità internazionale. L’ascesa della leadership di Vladimir Putin, che in quanto ex membro del KGB conosce molto bene le dinamiche nel Caucaso, anche per le guerre in Cecenia, ha ridato alla Federazione Russa una nuova dinamicità nella regione. Nonostante gli errori storici, piuttosto evidenti, oggi Mosca sembra essere uno degli attori più importanti nella difficile risoluzione del conflitto. L’ultimo ‘cessate il fuoco’, quello del 5 Aprile, è stato firmato davanti la presenza di Putin. Questo dovrebbe già far capire lo scenario e gli interessi russi sul Nagorno-Karabakh.
Il 2 aprile di quest’anno ci sono state gravi tensioni tra i due eserciti, quali sono i motivi della tensione?
I motivi degli ultimi scontri sono legati ai fattori storici citati e quindi al mero controllo del territorio, simbolo dell’identità nazionale sia per il popolo armeno che azero. Non parliamo di una regione con importanti risorse naturali o geograficamente rilevante. Eppure, come ho riportato nei report per Alpha Institute, l’escalation di violenza iniziata nelle prime ore del mattino del 2 aprile apre una nuova fase del conflitto stesso. La situazione rimane tesa nella zona occupata militarmente dagli armeni, soprattutto lungo la ‘linea di contatto’. Nonostante il ‘cessate il fuoco’, rispettato sia dalle autorità di Stepanakert, de facto capitale dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh, sia da Baku, le rispettive agenzie di stampa nazionali riportano quotidianamente violazioni dell’accordo. Durante i ‘4 giorni di fuoco’ era impossibile capire l’andamento delle operazioni militari, poiché una vera e propria guerra di numeri e propaganda (con video al limite del cinematografico) è stata costruita da entrambi le parti. Sicuramente, però, le novità all’interno del conflitto introdotte in questo tesissimo mese di aprile, coincidente col mese del ricordo del genocidio del 1915, hanno riportato uno scenario di violenza mai visto negli ultimi anni. Un mix politico-culturale che, almeno in Armenia, ha ampliato la percezione del conflitto, con manifesti a supporto delle forze militari del Nagorno-Karabakh affisse nei bar e ristoranti, con tanto di codici Iban sui quali poter effettuare un proprio contributo economico, e con pubbliche raccolte di beni di prima necessità in cui anche i bambini imballavano pacchi di vestiti, viveri e sigarette per i soldati e i veterani di guerra. Sì, proprio i veterani della guerra del 1994, che insieme a tanti volontari hanno ripreso le armi per difendere la ‘propria terra’ pur non essendo membri delle Forze Armate. Sette di essi, sono stati uccisi da un drone israeliano che ha colpito il loro veicolo militare che li trasportava verso l’Arstakh, regione più calda del conflitto.
Questa la novità più importante: gli armamenti, l’utilizzo da parte degli azeri dei potenti TOS-1 Solntsepyok (venduti da Mosca nell’estate del 2014) e dei droni, non solo nelle attività di monitoraggio ma di attacco militare, stonano con una guerra combattuta finora in trincea e che ricorda più quelle della prima metà del Novecento. Lo stesso utilizzo del drone israeliano deve far riflettere. Quale ruolo ha Israele nel conflitto? Geograficamente nessuno, ovviamente, ma gli interessi legati ai rapporti diplomatici e soprattutto energetici tra Baku e Tel Aviv potrebbero aprire un’ennesima nuova fase di un conflitto sempre meno locale. Poi si dovrebbe chiarire la ‘questione Isis’: la notizia emanata da ‘LifeNews‘ Russia appare non essere confermata del tutto, nonostante vi sia la certezza che cittadini azeri siano andati in Siria a combatte nelle fila di al-Baghdadi. Rimane un fenomeno che potrebbe scaturire all’intero del Caucaso, come avviene in Georgia ad esempio, ma ovviamente bisogna anche intendere la notizia come una strategia russa volta a fomentare il conflitto stesso in ottica anti-turca. Una tregua è possibile, e apparentemente c’è. Una definitiva conclusione del conflitto penso non sia solo difficile da attuare, ma anche da immaginare per i fattori in campo.
In quali scenari si potrebbe evolvere questa crisi?
Credo che, nonostante il ‘cessate il fuoco’, parlare di ‘frozen conflict’ sia ormai superfluo. Gli interessi intorno al conflitto, anche se lontani dalla regione teatro di guerra, avranno un risonanza sub-regionale e soprattutto internazionale, con i due outsiders principali nel Caucaso, ossia Russia e Turchia, pronti a strumentalizzare lo scontro per i propri interessi nella regione. Allo stesso modo, però, il Nagorno-Karabakh potrebbe rappresentare il loro ‘pantano politico’. La Russia gioca un ruolo di mediazione tra Erevan e Baku, in quanto conosce la regione e la sua influenza è ancora molto forte. Accusando la Turchia di affermazioni inaccettabili a sostegno dell’Azerbaijan, Mosca sta cercando di evitare nuove escalation: un suo errore potrebbe indebolire Mosca nella sua leadership nel Caucaso, già in difficoltà con la Georgia per gli scenari in Ossezia del Sud e Abkhazia. Il rischio di compromettere le attività nel Grande Medio Oriente, Siria e Iran in primis, e i già tesi rapporti con la Turchia, rimane alto. L’intera diplomazia russa è al momento in piena attività diplomatica a Erevan. Obiettivo è quello di non perdere credibilità agli occhi del popolo armeno, che per la prima volta dalla caduta dell’URSS ha protestato pesantemente davanti l’Ambasciata russa a Erevan per le politiche di Mosca legate alla vendita di armi a Baku. Ovviamente, anche l’Armenia dipende militarmente dalla Russia, ma la società civile armena sta mostrando un livello di partecipazione politica molto più alto rispetto agli anni passati. Tutto ciò avviene ad un anno delle elezioni presidenziali e a pochi mesi della riforma costituzionale.
La questione Karabakh, quindi, rimane centrale, in quanto conditio sine qua no per qualsiasi tipo di legittimazione di leadership politica in Armenia, ma anche in Azerbaijan. Gli ultimi due presidenti armeni, infatti, sono entrambi originari del Karabakh, nati proprio a Stepanakert, mentre per la famiglia Aliyev, dopo lo scandalo dei Panama Papers, una disfatta nel Karabakh potrebbe sancire un violento cambio di rotta nelle istituzioni azere. Dall’altra parte, Turchia e Israele: la prima vicina ‘etnicamente’ all’Azerbaijan, che nonostante aver espresso di voler ricostruire definitivamente i rapporti con l’Armenia ha espropriato nella zona orientale del Paese la più grande Chiesa cristiana del Medio Oriente, la Chiesa armeno-apostolica di San Ciriaco, e continua a tener chiusi i confini, anche per un’intransigenza armena sulla questione. Inoltre, sul riconoscimento del genocidio, Ankara è ferma sulla sua posizione: ‘nessun genocidio’, con il solito imbarazzante gioco sul numero delle vittime. Israele, invece, in ottica anti-Iran, potrebbe giocare un nuovo ruolo nel conflitto, ma attualmente rappresenta un incognita, o più scientificamente una di quelle ‘variabili dipendenti’ che in un conflitto sono difficili da analizzare. Ipotizzare un’analisi è difficile quindi. Potrei sintetizzare l’ennesimo stallo della situazione attraverso le parole di un soldato ventenne, che ho personalmente incontrato a Erevan di ritorno dalla notte di fuoco del 4 Aprile, che mi ha raccontato l’aneddoto dell’arrivo dei volontari al fronte. “Cosa state facendo qui? Non siete in grado di reggervi in piedi alla vostra età! Voi ci avete difesi in passato, adesso tocca a noi. Tornate a Stepanakert, o a Erevan, e fate di tutto affinché in questa terra gli armeni possano vivere in pace!”