NAGORNO-KARABAKH, LA GUERRA DIMENTICATA (Glistatigenerali 16.09.24)
Lo chiamavano un “conflitto congelato” e come il gelo si è dissolto, un’onda di piena della Storia che ha cancellato decenni di calma inquieta, piccole incursioni, minacce, patti fragili. È avvenuto il 19 settembre 2023. La dissoluzione della repubblica de facto del Nagorno-Karabakh è stata rapida, anche a scomparire dalle pagine dei giornali. Ma un anno dopo, che ne è stato dei profughi armeni di Artsakh?
Tragici disgeli
Le radici di questa catastrofe affondano nella storia dell’Unione Sovietica, o meglio nella fine della stessa Unione. Nel 1991, mentre il gigante dell’Est si sgretola, un fazzoletto di terra di appena 4.400 chilometri quadrati si dichiara indipendente da uno di questi ex Stati satellite del Cremlino, l’Azerbaijan. Il nome di questa piccola regione secessionista è Nagorno Karabakh, un’area a maggioranza armena. Scoppiò quindi la prima guerra tra Nagorno Karabakh e la giovane repubblica azera che portò all’indipendenza della Repubblica dell’Artsakh, altro nome del Nagorno Karabakh. Nel conflitto morirono 30mila persone, senza contare le vittime, sia azere che armene, dei pogrom che si verificarono da una parte e dall’altra nei mesi precedenti e successivi alla guerra.
Per i due decenni successivi, fino al 2020, il Nagorno Karabakh è uno Stato irreale che infatti gran parte della comunità internazionale non riconosce. L’Armenia lo finanzia da vicino, così come da lontano la diaspora armena nel mondo e i suoi mecenati mandano aiuti e sovvenzioni. Tra questi il milionario russo-armeno Levon Hajrapetjan, morto nel 2017 in una prigione per detenuti politici in Mordovia, Russia. Nelle città principali come la capitale Stepanakert (oggi ribattezzata dagli azeri Khankendi) si respira benessere. Basta però spostarsi al di fuori della capitale, verso i territori annessi ancora sotto il tiro dell’esercito azero, per capire che la situazione è tutt’altro che pacifica. Gli abitanti dell’Artsakh se ne accorgono nel 2020, quando l’enclave viene nuovamente attaccata. In 44 giorni si consuma una guerra lampo, un avvertimento da parte dell’Azerbaijan: nessuno, in Artsakh, è davvero al sicuro. Alcuni cominciano già da allora a emigrare verso l’Armenia o la Russia, altri restano. Quello che segue, dopo il cessate il fuoco promosso dalla Russia e firmato il 9 novembre 2020, è un triennio di schermaglie e incidenti di frontiera. Secondo l’organizzazione internazionale International Crisis Group dal cessate il fuoco al 16 settembre 2023 ci sono 395 morti tra i soldati armeni, mentre i feriti ammontano a 669. Sono invece 53 i civili uccisi.
Poi, è il 19 settembre 2023. L’aggressione dell’Azerbaijan cancella l’Artsakh dalle mappe geografiche. Non è un modo di dire: immagini satellitari e studi, come quello del Centro Europeo di Diritto e Giustizia, testimoniano la distruzione sistematica messa in atto dall’Azerbaijan. Che siano tombe o monumenti, i bulldozer di Baku cancellano l’ultima cosa rimasta del Nagorno-Karabakh: la memoria.
Il risveglio trent’anni dopo
Quando con l’offensiva azera il sogno del Nagorno Karabakh si conclude, per 120 mila persone inizia un incubo. Sia gli armeni di Yerevan che i nuovi profughi di Stepanarekh sono scioccati, ma in modo diverso. Tra loro serpeggia un sentimento ambivalente, una sensazione che oggi rende ancora più difficile l’integrazione. «I profughi lamentano di essere stati abbandonati, gli armeni della repubblica si chiedono “abbiamo davvero sostenuto queste persone per 33 anni, con tanti sacrifici, per nulla?”» spiega Arsen Igityan, responsabile delle comunicazioni del sindacato dei dipendenti pubblici armeni USLGPSEA, parlando dei sentimenti che dividono gli armeni dai loro “fratelli” profughi della guerra.
Quella che all’inizio sembrava loro una guerra come tante, come già c’erano state nel 1991, nel 2016 e nel 2020, si è trasformata in un incubo per migliaia di sfollati che hanno perso tutto e si trovano ora senza prospettive in uno stato, l’Armenia, già di per sé fragile. Certo, è comunque uno dei Paesi più prosperi dell’area. Con una popolazione di 2,9 milioni di persone e un prodotto interno lordo di 19,5 miliardi di dollari nel 2023, lo stato dell’economia armena è migliorato anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina, con un balzo in avanti dell’11% del PIL. Un esito non scontato considerando che la Russia è non solo storico protettore, ma anche alleato commerciale chiave dell’Armenia. Eppure in questo Stato del Caucaso meridionale la disoccupazione si è sostanzialmente stabilizzata all’8.6% e il lavoro nero dilaga. Problemi non troppo diversi da quelli italiani: «I settori più vulnerabili sono l’agricoltura e i servizi, ad esempio la ristorazione e il delivery. Qui la maggior parte dei posti di lavoro sono informali, e gli abusi sono difficili da censire e neutralizzare. Uno dei problemi più gravi – continua – è la mancanza di ispezioni. Non abbiamo un vero e proprio istituto per le ispezioni, e la legislazione attuale lega le mani agli uffici competenti che spesso si trovano a non poter far nulla nemmeno volendo, a causa di norme ingarbugliate e ostiche». In molti casi, nemmeno con la presenza di una segnalazione diretta a uno degli uffici preposti si riesce ad ottenere qualcosa. «Per legge – spiega – le associazioni si trovano costrette nella posizione di agire solo in presenza di denuncia scritta di una violazione»
Convivenza difficile
L’Armenia non è solo il rifugio degli abitanti del Nagorno Karabakh, infatti come spiega Igityan «Negli ultimi anni c’è stato anche l’esodo dei profughi della guerra in Siria, e dei russi che scappano per timore di essere coscritti nella guerra in Ucraina. I Siriani tutto sommato non hanno trovato un ambiente ostile anzi, sono accolti abbastanza bene e sono ben integrati». Nel 2022 i rifugiati siriani erano 4.855, mentre nel 2023 c’è stato un exploit di richiedenti asilo da Iraq, Iran e Ucraina. Anche i russi in fuga dalla coscrizione riparano a Yerevan: secondo le autorità armene già all’inizio della guerra, a febbraio 2022, erano almeno 40mila, più 12 mila bielorussi. Entrare in Armenia, d’altra parte, ha reso alcuni ingressi più semplici anche se non sempre legali. «Negli ultimi due anni – spiega Arsen Igityan – la liberalizzazione dei visti decisa dal governo ha portato altre nazionalità, che prima non costituivano fenomeni migratori rilevanti, a tentare di stabilirsi in Armenia in cerca di migliori opportunità. Principalmente da Stati dell’Asia, come India e Bangladesh. Vengono raggirati da passeurs che li fanno entrare con visti turistici e li lasciano nella rete dell’occupazione informale, con tutte le situazioni di abbandono e degrado sociale che ne conseguono».
E gli armeni del Nagorno Karabakh? Come sono stati accolti? «Dall’inizio della crisi a settembre ne sono arrivati almeno 120mila, ma solo 9.500 sono regolarmente assunti e lavorano: 7mila nel settore privato e 2.500 circa in quello pubblico». Questo nonostante il governo abbia immediatamente stanziato misure e sussidi “patriottici”: da sostegni mensili a “corsie preferenziali” per l’inserimento nel lavoro presso le strutture pubbliche. Il sospetto è che una percentuale maggiore sia impiegata nei settori dove il lavoro nero è più diffuso, ad esempio nei trasporti (come taxisti) o nel delivery. «Non hanno problemi di visto come altri, ma la situazione è comunque tesa. Qui trovano salari più bassi di quelli che si aspettavano, credono che il governo non abbia fatto e non faccia abbastanza per loro e si sentono poco accolti. Si sentono abbandonati anche dalla comunità internazionale, si chiedono “Perché per la Palestina c’è tanto rumore, e noi siamo stati dimenticati?”». Un’altra ragione per numeri così bassi di impiego tra i rifugiati del Nagorno Karabakh potrebbe anche essere quella più semplice: molti se ne sono già andati. «Circa 36 mila persone potrebbero già essere emigrate, so che alcuni di loro sono andati in Russia, anche se potrebbe esserci il pericolo di essere arruolati per la guerra in Ucraina. Ho chiesto a chi è tornato se non è rischioso, ma hanno risposto che lì ci sono migliori opportunità» racconta Igityan.
Alleanze e repressione
La Russia, un tempo, era considerata la grande amica degli armeni, non solo per motivi economici ma anche culturali. Dopo la disfatta dell’Artsakh, però, qualcosa sta cambiando. L’indolenza di Mosca ha fatto sentire traditi gli armeni, che vedono il quadro delle alleanze storiche cambiare. Per alcuni, è uno shock che affonda le radici nella Storia delle persecuzioni contro gli armeni. «Molti Paesi europei non hanno protestato eccessivamente per l’aggressione azera perché hanno interesse a non creare tensioni. Ad esempio perché beneficiano del gas naturale azero, soprattutto dall’inizio della guerra in Ucraina» spiega Igityan. Tra questi l’Italia e la Grecia, Stati di approdo del grande condotto TAP che porta il gnl da Baku all’Europa. «Quando spiego ad alcuni armeni che la Grecia compra il gas dall’Azerbaijan, sono scioccati. Non possono credere che i greci li “tradiscano” così».
Dall’altra parte del confine, intanto, chi protesta contro la guerra viene arrestato e torturato. Secondo diverse fonti sono almeno 20 gli attivisti brutalmente arrestati in Azerbaijan per aver criticato la guerra, con l’accusa di “attività terroristiche e sediziose”. Molti di loro hanno subito minacce e torture mentre erano in stato di fermo. Stranamente, ma non troppo, alcuni di loro sono anche figure rilevanti dei gruppi sindacali azeri, come Afiaddin Mammadov, leader del Tavolo dei Lavoratori del Congresso dei Sindacati e già in rapporti tesi con le autorità per questioni legate alla sua attività sindacale. Anche attivisti per l’ambiente, i diritti delle donne e i diritti civili sono nel mirino della repressione del presidente Ilham Aliyev, che di fatto ha instaurato un’autocrazia ereditaria (era figlio del precedente presidente Heydar). Se il sogno indipendentista dell’Artsakh è finito, l’incubo dei dissidenti azeri sembra non avere fine.