Nagorno Karabakh: il conflitto è vivo, le persone vegetano (Osservatorio Balcani e Caucaso 15.04.16)
Mentre i politici ponderano le sorti della “zona di contatto”, le persone aspettano una sola cosa: la fine di una lunga guerra. Reportage
(Originariamente pubblicato da Новая газета, 7 aprile 2016. Titolo originale:Конфликт — живой. А люди — нет)
Il recente inasprimento del conflitto nel Nagorno Karabakh e nelle aree circostanti è il più grave degli ultimi anni. Secondo i dati ufficiali azeri, in Azerbaijan si sono contate 31 vittime militari e 6 civili, centinaia di feriti e decine di case distrutte. La tregua annunciata ufficialmente non porta sollievo agli abitanti del luogo. E mentre a Baku si svolgono comizi a sostegno delle azioni militari nei territori occupati, gli abitanti della “zona di contatto” vogliono una cosa sola: la pace.
Da Baku al fronte sono circa cinque ore di strada. Lungo il percorso il paesaggio cambia radicalmente. Il terreno giallastro e frastagliato lungo la linea del Mar Caspio, disegnata dalle sagome delle piattaforme petrolifere, si trasforma gradualmente in un sottile tappeto d’erba. La linea del Caspio prosegue più a sud, mentre la strada corre lungo le acque scure del fiume Arax, sulle cui rive si erge un alto recinto di filo spinato: il confine con l’Iran. Con l’approssimarsi del fronte, l’ambiente circostante si fa sempre più variopinto e sempre più costellato di veicoli militari, camion Kamaz con personale, mezzi blindati, carri armati, artiglieria, ambulanze e polizia militare. Checkpoint. Le colline sono scavate da rifugi, trincee, postazioni di tiro.
“Fino al primo di aprile là c’era la nostra postazione”, dice un ufficiale, indicando delle rovine carbonizzate su una collina. “Le truppe armene hanno occupato quella collina e nella notte del 2 aprile hanno cominciato a sparare su di noi. Noi abbiamo risposto e abbiamo preso Leletepe”.
L’altura di Leletepe (“Collina dei papaveri”) è fra quelle più strategiche della zona. Controllarla significa anche controllare parte dei distretti di Dzhabrail’ e Fizuli, difendere la città di Goradiz (decine di migliaia di abitanti) e anche diversi insediamenti azeri sparpagliati nei pressi della zona di contatto.
Leletepe, su cui ora sventola la bandiera azera, si affaccia su una pianura. A sinistra si vedono i villaggi iraniani, di fronte la “zona cuscinetto” di Dzhabrail’. Un po’ più a destra, in lontananza, il Karabakh.
Prima dell’inizio del conflitto nel 1991, il Karabakh era un importante distretto meridionale della Repubblica, a popolazione prevalentemente armena (40-45.000 azeri a fronte di circa 145.000 armeni). La popolazione azera viveva prevalentemente nelle pianure circostanti.
Il conflitto fu “congelato” nel 1994, con la firma di un “cessate il fuoco” temporaneo a Bishkek. Allora si prevedeva di trovare, con l’ausilio di mediatori internazionali (principalmente la Russia), una via di uscita dal conflitto in tempi brevi (si parlava di tre mesi).
Fu tracciato pertanto un confine temporaneo, là dove allora si trovavano le postazioni delle parti in guerra. Il risultato fu che sette distretti a popolazione azera furono in tutto o in parte tagliati fuori dall’Azerbaijan. Ebbe inizio un esodo di massa, con oltre mezzo milione di persone costrette a lasciare le proprie case. Queste terre furono chiamate “zone cuscinetto”. Nel linguaggio diplomatico, il confine di una zona cuscinetto si chiama “zona di contatto”. Una particolare tensione si verificò nei distretti di Fizuli e Agdam, zone fertili e densamente popolate.
Secondo le statistiche ufficiali del ministero della Difesa azero, dopo l’inizio dell’ultimo scontro nella notte fra il primo e il 2 aprile, i bombardamenti nel distretto di Agdam hanno colpito 16 villaggi, 42 edifici e 30 linee elettriche.
In un cortile del piccolo villaggio di Ahmedagaly è comparsa una tenda bianca. All’interno, lunghi tavoli con panche di legno, destinati alle persone che verranno a fare le condoglianze. La presenza di queste tende in un cortile significa che qualcuno è morto in quella casa.
Hadizhat Dadasheva, un foulard nero in testa, dispone sui tavoli tazze di vetro per il tè e barattoli di confetti. Il 5 aprile è morto suo marito, Karash Dadashev, pastore. Una sera, non lontano dalla moschea del villaggio, mentre tornava a casa con il gregge, è stato colpito da una granata. Hadizhat non ha perso solo il marito, ma anche la fonte di sostentamento per la sua numerosa famiglia: anche tutto il gregge è infatti rimasto ucciso.
“Il nostro villaggio è vicinissimo alla linea del fronte, dietro cui ora si trova la nostra Agdam (prima della guerra, Agdam era un’importante città commerciale, il fulcro del distretto, ndr)”, dice serenamente. “Quando vi fu tracciato il confine, praticamente tutti si rifiutarono di andarsene. Quella terra è nostra, la mia famiglia numerosa vive grazie ad essa. In tutti questi anni ci sono stati bombardamenti periodici, ma mai così violenti come negli ultimi giorni”, continua abbracciando la nipotina.
Gli abitanti del luogo affrontano con filosofia le interruzioni di corrente elettrica (i bombardamenti hanno messo fuori uso molte cabine), le cannonate in lontananza e i droni che volano sopra le loro teste.
“Non vi stupite della tranquillità di Hadizhat”, mi dice un suo parente. “Siamo talmente abituati a vivere in un limbo che non ci facciamo più caso. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per chiunque, come dappertutto. Qui non leggiamo i giornali e non guardiamo la televisione. So solo una cosa: gli armeni del Karabakh non sono nostri nemici. Prima del conflitto vivevamo fianco a fianco e così sarà di nuovo quando la guerra sarà finita. Che si sbrigassero a mettersi d’accordo ai piani alti.
Il distretto di Terter è l’unico rimasto interamente in territorio azero dopo il 1994. Qui morirono soprattutto abitanti del luogo: tre persone, fra cui la sedicenne Turana Gasanli, che non fece in tempo ad uscire in strada quando iniziarono i bombardamenti. Turana morì un’ora prima dell’annuncio ufficiale del “cessate il fuoco”.
Decine di case sono state distrutte dai proiettili. Gli abitanti del luogo non si affrettano a rimetterle in piedi. Si adattano a vivere con i vicini in attesa della fine della guerra.
“Ho mandato mia mamma in ospedale”, raccona Gjul’nara Kerimova, in piedi nel suo salotto mezzo distrutto al secondo piano. È caduta una bomba, grazie ad Allah eravamo in un’altra parte della casa. Ma per la mamma è dura sopportare lo shock. Meglio che stia un po’ in ospedale, mentre io sono dai parenti, tanto qui non si può stare: non c’è gas né elettricità”.
La “zona di contatto” fra le truppe armene e azere si estende su oltre 150 chilometri, da sud a nord. Lungo il fronte si trovano villaggi densamente popolati, i cui abitanti vivono in prima linea.
“A volte mancano le forze per sopportare questo limbo”, si lascia andare un altro abitante del villaggio di Gjul’nara Avaz. “Né guerra, né pace, solo terrore e incertezza. Dicono che il conflitto è ‘congelato’, invece è ben vivo, ci sono continui bombardamenti e sparatorie, e ogni anno muore qualcuno”.
Nei primi anni novanta il deputato azero Rasim Musabekov è stato consigliere dell’allora presidente Heydar Aliyev e si è occupato del tema della risoluzione del conflitto. Proprio lui ha rappresentato la Repubblica nei negoziati con i mediatori nel 1993-1994. Novaja Gazeta gli ha fatto alcune domande sulla natura dell’ultimo conflitto.
“Quando le truppe si trovano a tiro di granata, succede. Un soldato la notte sente un rumore, spara in risposta. Quando si comincia a sparare, bisogna rispondere, altrimenti il nemico penserà che tutto è permesso. Ultimamente questi casi e l’intensità degli scontri sono aumentati. Non potevamo non reagire. Il motivo principale è che i negoziati partiti nel 1994 con la partecipazione dei mediatori internazionali sono in un autentico vicolo cieco. L’Armenia si pone come chi ha vinto la guerra e può imporre condizioni all’Azerbaijan. Il Gruppo di Minsk non riesce da solo ad affrontare il problema: il livello dei suoi rappresentanti è quello parlamentare. Invece qui è indispensabile avere rappresentanti di alto rango, come Vladimir Putin o il ministro degli Esteri Sergej Lavrov. Noi speriamo che tale partecipazione possa aiutare a sbloccare i negoziati. La situazione può esplodere in qualsiasi momento. Niente si è ancora calmato”.
Da sapere
Il conflitto ebbe inizio nel 1988 con rivendicazioni irredentiste nella regione autonoma del Nagorno Karabakh, situata nella repubblica sovietica dell’Azerbaijan, ma la cui popolazione era costituita per 3/4 da armeni. A partire dal 1991 il conflitto iniziò a prendere sempre più la forma di una guerra aperta tra Azerbaijan e Armenia, nel frattempo divenute repubbliche indipendenti con la dissoluzione dell’URSS.
La guerra si concluse con gli accordi per il cessate il fuoco firmati a Bishkek (Kirghizistan) nel 1994. Da quel momento, la quasi totalità del Nagorno Karabakh e buona parte di sette distretti circostanti (precedentemente prevalentemente abitati da azeri costretti ad abbandonare le proprie case in seguito al conflitto) sono sotto il controllo di forze armene. Nell’ambito del Gruppo di Minsk dell’OSCE (con tre co-presidenti: USA, Francia e Russia), non si sono mai raggiunti progressi concreti verso la risoluzione del conflitto.
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