Nagorno Karabakh: generazioni in guerra, euronews tra i due fronti del conflitto (Euronews 16.09.16)
Soldati che non hanno nemmeno vent’anni. Alcuni si sono trovati a combattere per la prima volta questa primavera.
In quell’occasione gli scontri fra l’esercito della repubblica autoproclamata del Nagorno Karabakh e quello dell’Azerbaijan hanno rilanciato un conflitto congelato per quasi trent’anni.
“Difendiamo la nostra patria, la nostra famiglia e tutti coloro che vivono su questa terra”, dice Aram Yegoryan.
Annessa all’Azerbaijan in epoca sovietica, questa regione del Caucaso meridionale, popolata prevalentemente da armeni, nel 1991 proclamò l’indipendenza.
La guerra che seguì fece più di 25 mila morti e un milione di sfollati. Nel ’94, dopo la vittoria militare armena, fu raggiunto un cessate il fuoco. Da allora gli incidenti sono frequenti.
Gli scontri sono scoppiati lo scorso aprile a nord della cosiddetta linea di contatto. La calma ritrovata da allora resta fragile.
“Non siamo autorizzati ad andare al di là di queste trincee – spiega il soldato – Dall’altro lato, le forze azere sono solo a un centinaio di metri. Allora, nonostante il cessate il fuoco, i soldati stanno di guardia giorno e notte”.
Sostenuto ad aprile da numerosi volontari giunti dall’Armenia, l’esercito del Nagorno Karabakh si dice pronto in ogni momento a un’offensiva da parte delle forze azere.
“Dal 1994 il nemico ha sempre violato il cessate il fuoco. Sono loro che hanno cominciato lo scorso aprile – sostiene l’ufficiale di artiglieria, Sevak Sardaryan – Non c‘è ragione per cui non ricomincino. Adesso siamo più preparati, e se questo dovesse succedere, la nostra resistenza sarà vigorosa”.
A poca distanza dal fronte troviamo il villaggio armeno di Talish, già trovatosi al centro del conflitto negli anni Novanta.
La scorsa primavera è stato di nuovo interamente distrutto. Tutte le abitazioni sono state evacuate.
Tre civili che si rifiutavano di abbandonare il villaggio sono rimasti uccisi nell’offensiva, ci viene detto.
Garik torna con noi sul posto, per mostrarci ciò che resta della sua casa.
“Ecco, questa è la mia casa – indica Garik Ohanyan – Ho sofferto vent’anni per costruirla. Vent’anni! Vivevamo in nove qui, nove persone!”
“Guardate – aggiunge Garik – non c‘è più niente, è tutto distrutto. Non so più che cosa fare”.
Garik ha trovato rifugio in un villaggio vicino, dai suoceri, con sua madre, sua moglie e i loro cinque figli.
Le condizioni di vita sono difficili, ma hanno paura di tornare a Talish.
“L’altro mio figlio è caduto in battaglia, ricevo una pensione per questo – racconta Amalya Ohanyan, la madre di Garik – Mi resta solo un figlio maschio, che ha cinque figli. Che cosa faremo adesso? Non abbiamo più casa, né lavoro, siamo costretti a rimanere qui!”
“Da quando siamo fuggiti dal villaggio la prima volta nel ’92, e fino a oggi, ci si aspettava che la guerra ricominciasse – ricorda Garik Ohanyan – Ci sono sempre stati degli spari. Adesso tutto quel che vogliamo è che si trovi una soluzione pacifica”.
Vogliamo passare dall’altro lato del fronte, in Azerbaijan, ma è impossibile farlo direttamente. Le strade che collegano il Nagorno Karabakh all’Azerbaijan sono chiuse.
In linea d’aria, una quindicina di chilometri separano il villaggio di Talish dalla regione di Terter, dove abbiamo appuntamento con i militari azeri.
Siamo costretti ad andare in auto fino a Yerevan, la capitale armena, poi passare in Georgia, unico modo di raggiungere Baku, capitale dell’Azerbaijan.
E una volta a Baku ci attende di nuovo un lungo viaggio per poter arrivare sull’altro lato del fronte, quello azero.
Anche qui i soldati sono in allerta costante.
Le truppe armene si trovano, più o meno, a un centinaio di metri da qui.
“Avete trenta secondi per filmare, dare un’occhiata e uscire”, intima un soldato azero.
Da una delle alture riconquistate in primavera si vede chiaramente il villaggio di Talish.
Anche l’esercito azero accusa quello avversario di aver dato avvio alle ostilità nell’ultimo conflitto.
“Sono loro ad aver causato gli scontri in aprile! Ci hanno provocato. Di conseguenza il nostro esercito ha risposto al fuoco e respinto il nemico – afferma Valen Rajabov, colonnello dell’esercito azero – Il nostro esercito è professionale, competente e potente. Come dice sempre il nostro comandante, non cederemo mai nemmeno un centimetro del nostro territorio al nemico”.
Ci spostiamo nel villaggio azero più vicino.
Gli scontri di aprile non hanno fatto vittime civili, ma molti danni.
Gli abitanti sono potuti tornare rapidamente. Qui lo Stato finanzia la ricostruzione.
“Questa è una delle case rimaste distrutte ad aprile – aggiunge l’ufficiale – Più di duecento sono state danneggiate, ma tre mesi dopo quasi tutto è già stato riparato. Questa casa è stata distrutta da due razzi Grad, mi dicono”.
In epoca sovietica, gli scambi erano frequenti fra gli abitanti azeri di questo villaggio e i loro vicini armeni di Talish.
Le fondamenta di questa casa sono state costruite da armeni quarant’anni fa.
Ma oggi regna l’ostilità fra le due comunità.
“La fonte dove ci procuriamo l’acqua si trova dall’altro lato delle posizioni armene – spiega Nasraddin Mustafayev, residente nel villaggio di Tapqaraqoyunlu – Ci andiamo di notte per non farci vedere. Capita spesso che chi va a prendere l’acqua rimanga ucciso”.
Anche qui, come a Talish, si teme una ripresa dei combattimenti.
“L’unica soluzione al problema del Nagorno Karabakh è la guerra – sostiene faig Mustafayev, un altro residente di Tapqaraqoyunlu – Fintanto che gli armeni non saranno pronti al compromesso. Dobbiamo liberare la nostra terra attraverso la guerra, per me non c‘è altro modo”.
L’ultima guerra aveva rilanciato i colloqui sotto l’egida del gruppo di Minsk, guidato da Russia, Stati Uniti e Francia, in seno all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Senza raggiungere risultati convincenti.
La comunità internazionale non riconosce né l’indipendenza dell’autoproclamata repubblica, né le sue istituzioni, che hanno sede nella città di Stepanakert.
“Pensiamo che si debba far tornare il Nagorno Karabakh al tavolo dei negoziati – dice il ministro dell’autoproclamata repubblica – Il popolo del Nagorno Karabakh ha votato due volte, nel 1991 e nel 2006, per l’indipendenza di questa Repubblica. La decisione del popolo del Nagorno Karabakh, il risultato del doppio voto, deve essere preso in considerazione, ed essere la pietra miliare di qualunque accordo futuro”.
Priva di riconoscimento internazionale, la piccola enclave fatica a sviluppare la propria economia, ad attirare investitori, e si appoggia sul sostegno finanziario di Yerevan e della diaspora armena. L’agricoltura rimane la risorsa principale di questa fertile regione.
Abbiamo appuntamento nella principale impresa di trasformazione alimentare del Nagorno Karabakh. L’85% della produzione è destinata all’esportazione. Per aggirare gli ostacoli politici, le imprese locali accedono ai mercati stranieri attraverso la creazione di joint venture con società armene.
“Poiché il Nagorno Karabakh non è riconosciuto ufficialmente, non possiamo esportare i nostri prodotti direttamente sul mercato internazionale – spiega Armen Tsaturyan, direttore dell’azienda Artsah Fruit – Questo ci costringe a trovare dei partner, grazie ai quali riusciamo a esportare”.
Ma quando gli chiediamo chi siano i paesi destinatari dei prodotti:
“No, preferisco non dirvelo”, ribatte Armen.
“Perché no, per via della politica?”, chiede la giornalista di euronews
“Sì, e anche a causa dei miei partner commerciali”, conclude l’imprenditore.
I paesi importatori non riconoscono ufficialmente la repubblica.
L’indirizzo indicato sugli imballaggi si trova in Armenia. Ma il nome della compagnia tradisce chiaramente l’origine dei prodotti: Artsakh vuol dire Nagorno Karabakh.
Anche Karen e la sua famiglia aspirano al riconoscimento ufficiale di quello che per loro è uno Stato. Karen è andato a vivere a Stepanakert dopo essere sfuggito con la moglie e il loro bambino al pogrom di cui furono vittime gli armeni dell’Azerbaijan nel 1988 nella città di Sumgait.
“È stato davvero orribile. Bruciavano le persone vive, violentavano le donne, e perfino alcuni bambini – ricorda Karen Matevosyan – Non auguro nemmeno al mio peggior nemico quel che abbiamo dovuto sopportare in quei tre giorni a Sumgait”.
Karen e sua moglie non pensano più di andarsene dal Nagorno Karabakh, terra dei loro antenati e ora terra loro. La guerra di aprile ha risvegliato dolori del passato, quando hanno visto il loro figlio partire per il fronte.
“L’unica buona decisione da prendere sarebbe se l’Azerbaijan riconoscesse la nostra indipendenza – aggiunge Karen – Dovrebbero dire: ‘vivete come volete’, e noi faremmo lo stesso. In quel caso potremmo riavvicinarci, ma come due Stati indipendenti. Senza riconoscimento, la situazione attuale potrebbe durare ancora molto tempo, cento, duecento anni, e continueremo a vivere sotto pressione e nell’incomprensione reciproca”.
Riconoscere l’indipendenza del Nagorno Karabakh, una prospettiva inconcepibile a Baku. Al massimo il governo di Ilham Alyev sarebbe disposto a concedere all’enclave un’ampia autonomia.
E in cambio chiede il ritorno dei profughi azeri dalla regione. In ogni caso la soluzione deve essere pacifica, insiste un deputato azero: “È nell’interesse dell’Azerbaijan recuperare i suoi territori occupati attraverso i negoziati di pace – dichiara Rovshan Rzayev – Ma il 20% del territorio dell’Azerbaijan è sotto occupazione. Naturalmente, l’Azerbaijan indipendente non accetterà mai quest’occupazione. Queste terre devono essere restituite”.
Ci spostiamo ora a Quzanli, nella regione di Agdam, uno dei territori confinanti con il Nagorno Kharabak posti sotto controllo armeno dopo il conflitto degli anni Novanta, per limitare i rischi di un’offensiva da parte degli azeri.
Meno di un quarto della regione di Agdam è rimasta sotto il controllo dell’Azerbaijan.
Qui vivono circa 50 mila azeri fuggiti dal Nagorno Karabakh, più della metà della popolazione locale.
Un peso per una regione dall’economia a pezzi.
Qui la disoccupazione è diffusa, soprattutto fra i profughi, che dipendono dall’aiuto dello Stato.
“Non abbiamo fabbriche qui – dice Aga Zeynalov, vice presidente della Regione di Agdam – Non abbiamo industrie locali, perché è una zona a rischio. Nessun’impresa vuole venire a investire qui!”
Scappati dal loro villaggio nel ’93, Eldar e sua moglie Mazali hanno cresciuto i loro figli in questa casa.
Vivono qui come in sospeso. Il loro sogno è poter tornare nella loro terra natia.
Sono inconsolabili da quando il loro primogenito, militare, è morto in combattimento due anni fa: “Se le nostre terre saranno liberate, allora la morte dei soldati avrà un senso – sostiene Eldar Ahmedov – Il nostro terreno trabocca del sangue dei martiri. Se i territori saranno liberati, questo darà sollievo alle loro anime, non saranno morti per niente”.
“Voglio solo che i miei figli restino vivi, siano al sicuro”, aggiunge sua moglie Mazali.
Torniamo a Stepanakert, al centro Tumo, nato con l’obiettivo di aprire una finestra sul mondo per gli adolescenti del Nagorno Karabakh.
Workshop e strumenti avanzati permettono loro di imparare gratuitamente, dopo la scuola, tutte le tecnologie creative.
Samvel ha perso suo zio nel conflitto. Una ferita che ha ispirato il suo primo progetto: una mostra fotografica dedicata alla vita quotidiana dei soldati armeni al fronte.
“Volevo che il pubblico vedesse la nostra forza, il nostro spirito guardando queste foto. E che vedesse che questi uomini sono sempre pronti – spiega Samvel Sargsyan, studente presso il Centro TUMO – Volevo mostrare gli aspetti positivi, non volevo mostrare gli aspetti negativi. Ho visto il lato negativo delle cose, ma ho scelto di mostrare quello positivo”.
Sui due lati del fronte lo spettro della guerra è radicato nello spirito dei ragazzi del conflitto del Nagorno Karabakh.
Nella regione di Agdam, in Azerbaijan, si tiene una partita di calcio dedicata a un comandante morto in combattimento.
I soldati azeri giocano contro i civili provenienti dai campi degli sfollati.
Una convivenza naturale per Shunasib e i suoi compagni.
“Abbiamo sempre bisogno di soldati. Senza di loro non potremmo vivere tranquillamente qui – dice Shunasib Edilli, un giovane di Quzanli – Sono sicuro che i nostri territori saranno liberati, e i soldati ci proteggeranno sempre. Saranno sempre accanto a noi. Sono il nostro orgoglio. Ci difenderanno sempre”.