Nagorno Karabakh: conflitto congelato o vaso di Pandora? (Analisidifesa.it 02.03.16)
Dall’estate del 2014 a questa parte, un’escalation senza precedenti ha investito il piccolo stato conteso del Nagorno Karabakh, repubblica del Caucaso meridionale che si è proclamata indipendente dall’Azerbaijan all’inizio degli anni Novanta.
Il riaccendersi della conflittualità nell’ultimo anno e mezzo ha rischiato di far precipitare Armenia e Azerbaijan in una nuova guerra, mettendo in serio pericolo il già precario equilibrio del cessate il fuoco siglato nel maggio 1994.
Ricordiamo che tra il 1992 e il 1994 Armenia e Azerbaijan combatterono una guerra in cui rimasero uccise circa 30mila persone e che fece inoltre milioni di profughi. La guerra terminò con una tregua piuttosto precaria, che lasciò ampio spazio di influenza alla Russia, allora formalmente (oggi informalmente) alleata dell’Armenia.
Un conflitto congelato
Tuttavia, il conflitto, che aveva visto di fatto prevalere le forze armene, non può essere ritenuto concluso con il Protocollo di Bishek.
Il riesplodere delle ostilità negli ultimi due anni rende difficile la definizione di questo conflitto come «congelato». Come nota Anna Hess Sargysan in un recente articolo accademico su Politorbis, appare più corretto affermare che non è tanto il conflitto ad essere congelato, quanto piuttosto il processo di negoziato diplomatico cosiddetto “track 1”. Se il conflitto è stato parzialmente congelato nel 1994, esso si è progressivamente “scongelato” in concomitanza della recente guerra dell’Ucraina orientale.
Durante gli ultimi vent’anni, gli sforzi per mediare il conflitto del Nagorno Karabakh sono stati guidati dal Gruppo di Minsk dell’OSCE, tuttavia con scarsissimi risultati. Le due parti hanno continuato e continuano a implementare le loro capacità militari.
Le tabelle di militarizzazione dell’Azerbaijan mostrano, dal 2012 a questa parte, un aumento del 493% le spese militari, a fronte del 115% dell’Armenia, il che equivale ad una corsa agli armamenti asimmetrica che mette a repentaglio l’intera sicurezza regionale.
Più che come un conflitto congelato, post-sovietico o irredentista, quello del Nagorno Karabakh appare oggi come una “enduring rivalry”, ossia come una rivalità intrattabile le cui origini sono da tracciare in un complesso intricato di rivalità intrastatali e fattori esterni.
La definizione appare credibile alla luce degli avvenimenti che si sono succeduti nel corso dell’ultimo anno e mezzo e in particolare alla luce delle recenti avvisaglie di mutamento negli equilibri regionali. Gli scontri nel Nagorno Karabakh sono ripresi in un’escalation senza precedenti nell’agosto 2014 sulla linea del cessate il fuoco, con attività belliche che vanno oltre le consuete azioni di cecchinaggio e che lasciano presagire a molti osservatori l’inizio di un’ attività bellica su più larga scala.
Verso la ripresa delle otilità?
Un’ulteriore crisi si è aggiunta a novembre dello stesso anno, quando un elicottero armeno è stato abbattuto sul confine. Dopo una breve pausa, l’uccisione di tre donne nella provincia del Tavush, ha generato un’ulteriore escalation tra l’estate e l’autunno 2015.
Non a torto, l’anno scorso è stato considerato l’anno peggiore in assoluto dalla firma del cessate il fuoco.
Il perdurare e l’intensità delle ostilità non sembrano d’altronde dar segnali positivi in quanto ad una soluzione della questione nel breve periodo. Gli ultimi scontri riguardano ormai sempre più spesso la frontiera fra Azerbaijan e Armenia, e non più solo quella con il Karabakh, come nel passato, raggiungendo il confine con l’exclave azerbaijana del Nakhichevan, incuneata fra Armenia, Turchia e Iran. Segno del fatto che il conflitto sta entrando in una nuova fase e si appresta ad uscire dal suo perimetro originario.
Gli ultimi scontri con vittime civili si sono avuti a dicembre 2015 ed ancora alla metà di febbraio scorso, complici anche ai fucili di precisione di produzione azera Istiglal IST 14.5, che ha una portata letale fra 2500 e 3000 metri e ai razzi TR-107 di fabbricazione turca.
Alla ripresa degli scontri nel 2014, diversi analisti avevano criticato molto le mancate reazioni degli Stati Uniti e dell’Unione Europea rispetto al presunto intervento russo in Nagorno-Karabakh e la paralisi dell’Occidente di fronte a questo ennesimo conflitto dello spazio post sovietico: lo “staterello” con capitale Stepanakert, non riconosciuto peraltro da alcuno stato della comunità internazionale, rischierebbe di diventare il nuovo fronte del tentativo russo di ricostruire il suo impero dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Se la NATO avvertiva nel 2014 che la Moldova potrebbe essere il prossimo obiettivo di Mosca ed esperti occidentali temevano che la prossima “Crimea” avrebbe potuto essere la regione separatista della Transnistria, le vicende del Nagorno Karabakh – per quanto circoscritte e legate dal file rouge della “longa manus russa” in maniera molto più indiretta – sono passate quasi inosservate.
Sebbene alcuni analisti abbiano paragonato le intromissioni costanti del governo russo all’azione russa in Crimea e nei territori orientali dell’Ucraina, poco spazio è stato dato a questo conflitto nella stampa internazionale. In realtà esso appare oggi un nodo indistricabile a cause dei molteplici interessi delle parti coinvolte in maniera più o meno diretta.
Gli scontri armati a bassa intensità intorno al piccolo territorio sollevano questioni geopolitiche di portata globale di estrema attualità, come il ruolo e le intenzioni della Russia nel Caucaso, e più in generale sulla scena internazionale, la rilevanza delle risorse energetiche nell’area, l’inefficacia o il disinteresse delle potenze mondiali, in primis Stati Uniti e UE, nonché gli interessi della Turchia.
Nonostante tutti gli attori coinvolti siano ufficialmente interessati ad una risoluzione pacifica del conflitto, finora non si è riusciti, né a livello bilaterale né multilaterale, a raggiungere l’impegno politico necessario a mitigare il conflitto.
Secondo il Prof. Celikpala, Professore in Relazioni Internazionali all’Università Kadir Has di Istanbul, intervenuto in un recente convegno sul conflitto del Nagorno Karabakh presso l’Università di Berna, ciò è in parte dovuto alle sfide in cui si trova inserita la regione: ambiente ostile, progetti regionali divergenti, attori regionali con aspettative e obiettivi politici opposti.
Gli interessi in gioco
Vediamo quindi quali siano questi interessi e in che modo la conflittualità nella regione sia suscettibile di minacciare la sicurezza dell’intera area del Caucaso del sud. Il conflitto – congelato o meno – del Nagorno Karabakh costituisce una situazione particolarmente pericolosa che potrebbe evolvere in una guerra vera e propria, attirando allora (forse) sì l’interesse della comunità internazionale.
L’Azerbaigian da parte sua considera l’indipendenza de facto della repubblica separatista alla stregua di una vera e propria occupazione e non nasconde, con preoccupante ed esponenziale retorica bellicista, la volontà di porre apertamente fine al conflitto, ovviamente con metodi tutt’altro che negoziali.
L’Azerbaijan definisce il conflitto come irredentista. Dalla prospettiva armena, l’indipendenza del Nagorno Karabakh per volontà popolare ha semplicemente rettificato l’ingiustizia delle decisioni prese dal totalitarismo sovietico degli anni ’20.
La sicurezza nella regione del Caucaso meridionale ha evidentemente una portata particolare in primis per la Russia, la quale, dopo aver perso la sua influenza in Georgia, e dopo l’azione in Crimea, è fortemente interessata a mantenere la presenza sia in Armenia che in Azerbaijan. Ricordiamo che la Russia, insieme alla Francia e agli Stati Uniti, è uno dei tre mediatori del Gruppo di Minsk, del quale Mosca è uno dei vicepresidenti.
Se la politica estera russa verso la regione caucasica è divenuta sempre più marcatamente revisionista dopo il 2003, nel momento in cui l’Occidente inviò chiari segnali del fatto che lo spazio di influenza russa ufficiosamente riconosciuto era diventato ormai spazio di interesse competitivo, e soprattutto dopo la guerra con la Georgia per il controllo dell’Ossezia del sud nel 2008, riguardo alla questione del Nagorno Karabakh essa si qualifica in maniera nettamente distinta, per quanto legata dal comune interesse sottostante di preservare una zona di influenza nei territori caucasici.
Nel Nagorno Karabakh, la Russia non si oppone all’Occidente come nel caso di Ossezia e Abkhazia del sud. Nei documenti ufficiali essa riconosce che il Nagorno Karabakh è parte dell’Azerbaijan. Esso non costituisce quindi un’arena di competizione tra Occidente e Russia, dal punto di vista russo. Ciò significa che la soluzione prediletta dalla Russia per la regione è quella dello status quo, in parte anche per non generare problemi nei suoi progetti di integrazione macroregionale, in particolare con Kazakhistan e Tagikistan.
La Russia non è interessata ad avere problemi con gli “alleati” e per questo motivo – per il momento – preferisce tenere una posizione di relativo distacco nella questione.
Nella consapevolezza dell’impossibilità di calmare gli spiriti azeri e armeni, e nell’interesse primario di favorire la balance of power, la Russia riconosce l’integrità territoriale dell’Azerbaijan.
Il non riconoscimento del Nagorno Karabakh da parte della Russia deriva dal timore, o semplicemente dal non interesse, a trasformare l’Azerbaijan in una seconda Georgia. Uno dei motivi è che l’Azerbaijan è secondo paese dopo la Georgia che nello spazio post-sovietico si trova a far fronte a molteplici sfide islamiche, specialmente nel sud del paese con gruppi islamici legati sia all’Iran che al Daghestan.
Se per gli Stati Uniti lo status quo non è generalmente un’opzione di politica estera tollerabile, essi non hanno dimostrato di avere alternative credibili in merito alla risoluzione del conflitto. Il silenzio udibile dell’Unione europea in merito alla vicenda appare ancora più rumoroso: nel suo insieme, essa non ha dimostrato alcun reale interesse a essere coinvolta nella risoluzione della questione del Nagorno Karabakh.
Il ruolo dei Ankara
Per la Turchia il conflitto del Nagorno Karabakh costituisce la seconda minaccia della regione dopo quella curda. Per questo motivo, il Nagorno Karabakh è sempre stato sull’agenda politica delle autorità di Ankara.
Nonostante ciò, la Turchia non ha mai mostrato la volontà di conquistare un ruolo chiave in quest’area di vulnerabilità strategica.
Tuttavia, diversi elementi fanno propendere per l’ipotesi di un ruolo sempre più attivo che essa si starebbe ritagliando unilateralmente. Nel corso degli ultimi due anni, la Turchia ha cercato di assumere un ruolo da mediatrice nel suo “vicinato” attraverso l’adozione di diversi approcci, anche di soft diplomacy, tra cui l’impegno in crisi emergenti prima della loro evoluzione in conflitti e una diplomazia proattiva preventiva basata sul principio della “sicurezza per tutti”.
Attraverso la cooperazione politica e la cooperazione economica allo sviluppo, essa ha inteso promuovere la creazione di una vasta area di sicurezza ai suoi confini basata sullo slogan “zero problems in the region”.
Recentemente, il ministro degli Esteri ha annunciato che la Turchia sarebbe pronta a svolgere un ruolo di primo piano nel processo di risoluzione del conflitto, aggiungendo che Ankara non intende normalizzare i rapporti con Yerevan finché l’esercito armeno non avrà abbandonato i territori occupati dell’Azerbaigian.
Secondo la posizione ufficiale, la Turchia riconosce il Nagorno Karabakh come una regione della Repubblica dell’Azerbaijan che è stata sotto occupazione dell’Armenia per più di due decenni. Nei recenti documenti ufficiali si sottolineano inoltre – forse anche come monito verso la mai risolta minaccia curda – i principi cardine del diritto internazionale pubblico, quali l’integrità territoriale, il principio della sovranità dello stato e quello del divieto di uso della forza.
Fin qui nessuna sorpresa. Tuttavia, la Turchia propone ufficialmente un proprio ruolo specifico nella gestione della crisi, quale promotrice di “creative initiatives”. Ora, il recente messaggio del ministro degli esteri turco si pone in questa linea. Come osserva giustamente Emanuele Cassano, il monito è diretto anche in parte alla Russia, paese che è ovviamente il più coinvolto nelle dinamiche conflittuali del Caucaso del sud.
Ricordiamo che le relazioni russo-turche hanno recentemente conosciuto uno dei suoi minimi storici degli ultimi anni a seguito dell’abbattimento del Sukhoi -24 russo accusato di aver violato lo spazio aereo turco durante un raid nei cieli della Siria nord-occidentale. E’ quindi la luce dei toni da guerra fredda intercorsi tra Mosca e Ankara che il conflitto del Nagorno Karabakh assume una veste particolare.
Se la Russia ha sempre, per ovvie ragioni, considerato il Caucaso come propria sfera di influenza esclusiva, per quanto riguarda la questione specifica del Nagorno Karabakh non sembrano esserci apparenti motivi d’attrito tra Russia e Turchia.
Nessuna delle due riconosce il Nagorno Karabakh come stato indipendente, e sia i documenti ufficiali russi che turchi parlano del Nagorno Karabakh come di una regione della Repubblica dell’Azerbaijan. Inoltre, è ipotizzabile che entrambe le parti non ambiscano ad essere né attori né spettatori di ulteriori scontri armati nella regione.
Status quo o nuova guerra?
Ma nonostante questo interesse di fondo non da poco, una lettura più mirata suggerisce di tenere in considerazione ulteriori elementi. A causa dell’importanza strategica che viene attribuita alla regione da parte di Mosca, un’intromissione della Turchia, soprattutto dopo il gelo nei rapporti alla fine dell’anno scorso, verrebbe percepita come un’indebita manovra atta a scardinare gli equilibri impliciti creatisi nella regione.
Inoltre, da entrambe le parti la normalizzazione completa del conflitto viene probabilmente ritenuta un obiettivo troppo ambizioso e forse non politicamente degno di un impegno politico troppo gravoso. E se l’interesse comune è in qualche modo il mantenimento dello status quo per entrambe le parti, questo acquista un significato diverso per ciascuna.
Se per la Russia, come abbiamo visto, status quo ha il significato di tenere chiuso il vaso di Pandora dello spazio post sovietico per non generare problemi con gli alleati, per la Turchia esso vuol dire stabilizzare i problemi confinari con l’Armenia, e più in generale mettere in sicurezza le proprie frontiere.
Un altro elemento da tenere in considerazione è il diverso grado di flessibilità di Russia e Turchia nei confronti delle due parti in causa, ossia Armenia e Azerbaijan. Il limite principale del ruolo della Turchia nella risoluzione – o meglio nella gestione – del conflitto risiede nei suoi rapporti diplomatici con l’Armenia, mai risolti.
Ufficialmente, si afferma che non verrà firmato alcun trattato di pace con l’Armenia finchè quest’ultima non firmerà un accordo con l’Azerbaijan riguardo al Nagorno Karabakh.
Il Nagorno Karabakh sembra quindi essere una sorta di ostaggio della politica turca. Per questo motivo non è semplice interpretare il ruolo di Ankara come potenzialmente decisivo nella questione del Caucaso del sud.
La posizione russa è invece più composita. Nonostante essa riconosca il Nagorno Karabakh come parte dell’Azerbaijan, essa ha sostenuto le istanze armene, le quali proprio grazie al pesante apporto di Mosca hanno conosciuto il loro parziale successo nel 1994. Mosca è sempre stata il burattinaio dietro le quinte del conflitto, tanto che anche l’attacco armeno dell’estate del 2014, il quale ha riacceso le ostilità, è stato compiuto molto probabilmente in accordo con la Russia, come una specie di avvertimento ai leader dell’Azerbaijan, come osservano alcuni analisti.
E’ importante anche sottolineare che Mosca ha pur sempre fatto il bello ed il cattivo gioco, armando e finanziando- durante gli anni ’90 – prima l’una e poi l’altra parte.
Il suo margine di flessibilità nei confronti delle due parti sarebbe quindi diverso, e cioè maggiore rispetto a quello della Turchia.
Se il motto “one nation, two states” è stato utilizzato dalle autorità turche per riferirsi all’Azerbaijan, ricordando le parole di Atatürk “la felicità dell’Azerbaijan è la nostra felicità”, gli stessi toni enfatici sono vengono utilizzati dalla Russia per supportare l’”alleato” cristiano (l’Armenia). Ma anche la Turchia resta divisa tra la sua fedeltà incondizionata verso l’Azerbaijan e i timidi tentativi di riavvicinamento con l’Armenia.
In sostanza, non siamo (ancora) di fronte alla presenza di un asse russo – armeno e di uno turco –azero. Ciò di per sé costituisce un fatto positivo per la questione del Nagorno Karabakh, nel senso che contribuisce al congelamento del conflitto, ma sicuramente non alla sua risoluzione.
Sta di fatto la situazione potrebbe ben presto polarizzarsi. L’Armenia è pesantemente condizionata dalla Russia: l’esercito russo controlla in pratica le difese aeree armene, oltre che alcune delle infrastrutture chiave del paese.
Ciò, assieme al crescente attivismo turco nel Caucaso del sud – ovviamente a difesa dell’Azerbaijan – che indispettisce Mosca, potrebbe far evolvere gli equilibri verso lo scenario del duplice asse. Due giorni dopo l’abbattimento del sukhoi russo, il primo ministro turco ha dichiarato che “la Turchia farà tutto il possibile per liberare i territori dell’Azerbaijan”. Allo stesso tempo, in Russia veniva proposta una multa salata ai cittadini che avessero negato il genocidio degli armeni del 1915.
L’Azerbaijan è uno stato autoritario post-sovietico che potrebbe essere molto più vicino a Mosca, ma l’abbattimento dell’aereo russo da parte di Ankara sembra aver allontanato questa possibilità. Anche il fallimento degli sforzi della politica energetica dell’Unione europea per promuovere una cooperazione multilaterale tra i due blocchi rivali Azerbaijan, Georgia, Turchia e Russia, Armenia, Iran fa pensare ad una possibile crescente polarizzazione.
Se la Russia è intenzionata a mantenere lo status quo della regione, anche a seguito dei fallimenti del gruppo di Minsk, e quindi a porsi come tutrice e mediatrice degli equilibri caucasici tout court, la Turchia è interessata primariamente a estendere le proprie relazioni in una triangolatura che racchiude Azerbaijan, Georgia e Iran.
Se, come nota Fazila Mat, la recente revoca delle sanzioni all’Iran da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea segnala l’affermarsi di nuovi equilibri nella regione mediorientale da un punto di vista sia commerciale che politico, la Turchia anche avvantaggiandosi di nuove relazioni economiche con l’Iran potrebbe porsi come chiave di volta di questo equilibrio, dopo che la costruzione della mezzaluna sciita patrocinata dalla Russia di Putin ha fatto perdere terreno al gruppo sunnita.
Quest’influenza turca potrebbe estendersi alla scena caucasica: la triangolatura con Azerbaijan, Georgia e Iran non si esclude possa diventare una quadratura, con l’inclusione dell’Armenia: l’interesse sottostante qui è ancora una volta quello di legare l’intera regione all’economia occidentale.
Come sottolinea Sergey Markedonov, professore presso la Russian State University for the Humanities di Mosca (nella foto a sinistra), in un recente intervento sul ruolo della Russia nei conflitti post-sovietici, paradossalmente la militarizzazione del Caucaso del Sud potrebbe avere garantito una certa stabilizzazione della situazione in cui, in uno scenario da guerra fredda, ciascuna delle parti (e chi dietro di loro) avrebbe avuto paura di attaccare l’altra (in questo caso ovviamente con armi convenzionali e non nucleari).
Ciò avrebbe permesso ovviamente non la normalizzazione del conflitto ma la riduzione di questo a scontri sporadici di bassa intensità. Se quello del Nagorno Karabakh rimane fondamentalmente un conflitto etnopolitico in quella che è ormai la zona più militarizzata d’Europa, molto degli equilibri del Caucaso dipende ora dagli equilibri attorno all’Armenia, oltre che ovviamente da quelli tra Turchia e Russia.
Mentre dentro e fuori la Turchia si intensifica la campagna a favore del confine turco-armeno, le querelle diplomatiche che hanno avuto luogo tra i due paesi nel 2015 non lasciano ben sperare.
La decisione dell’Armenia del 2013 di essere integrata nelle iniziative euroasiatiche a guida russa piuttosto che in quelle europee, che può essere spiegata dall’esistenza di forti influenze e garanzie russe in Armenia per quanto riguarda la sicurezza, ha sicuramente contributo a rimettere l’asse della bilancia del conflitto del Nagorno Karabakh nelle mani della Russia. In queste circostanze l’Occidente è chiaramente ancora meno interessato a e meno capace di spingere l’Armenia verso una risoluzione con l’Azerbaijan, come nota Zaur Shiriyev.
Nonostante ciò le relazioni Armenia- Russia sono tutt’altro che appianate: la Russia ha rifiutato che l’Armenia entrasse nell’Unione commerciale eurasiatica con il territorio non riconosciuto del Nagorno Karabakh.
Dopo l’annessione illegale della Crimea da parte della Russia, è verosimile che il malcontento dell’Armenia sia cresciuto, oltre al fatto che il vice primo ministro russo Rogozin avrebbe ammesso ufficialmente nel luglio 2014 che la Russia stava intrattenendo negoziati con l’Azerbaijan per la vendita di armi. Forse anche questi sono i motivi che avrebbero spinto l’Armenia a riaccendere il conflitto.
Mentre la credibilità del ruolo della Russia come facilitatrice e mediatrice del conflitto è compromessa, e il ruolo di “creative initiator” della Turchia è quantomeno ambiguo, il conflitto del Nagorno Karabakh rimane una miccia capace di far esplodere l’intera regione in conflitti vecchi e nuovi.