Nagorno – Karabakh: A quando la fine di questa guerra infinita? (Gariwo 16.07.20)
Oggi, per il quarto giorno consecutivo, proseguono gli scontri al confine fra Armenia e Azerbaijan. Si parla di 16 morti da entrambe le parti, per uno scontro che ha investito, questa volta, la zona frontaliera fra i due Paesi e non il Nagorno-Karabakh, regione contesa in un conflitto ormai quasi trentennale. Potrei scrivere, come ho fatto decine di volte, una descrizione il più possibile accurata di quanto sta avvenendo, esaminando cause e possibili scenari. Basterebbe, a ben vedere, anche un semplice copia e incolla di un pezzo qualsiasi già scritto, con minime varianti. Non lo farò.
Rabbia, frustrazione e orrore. Questi i sentimenti che affiorano in me, ancora una volta, per la nuova escalation in corso. Una delle tante (troppe) che ho seguito da quando, nel 2014 – vivevo in Armenia, all’epoca –, ho scritto il mio primo pezzo su questo conflitto. Il primo di tanti, troppi articoli, su questa guerra cosiddetta congelata (frozen conflict, in inglese), in cui di ghiaccio, a ben vedere, è rimasta solo la nostra coscienza. Perché le centinaia di morti degli ultimi anni – inutile nascondersi dietro un dito – sono anche responsabilità nostra, della pavidità e ignavia dei nostri governi, della nostra complice indifferenza.
Sì, orrore, dicevo. Non certo per gli attori di questa guerra infinita: i capi di Stato, i militari e i tanti speculatori vicini e lontani che con questa piccola guerra hanno fatto e continuano a fare affari d’oro. Niente di nuovo sotto il sole, recita il Qohelet. La guerra non è certo cosa estranea alla natura dell’uomo, ieri come oggi, per quanto a molti di noi non sia capitato in sorte di toccarla con mano. L’orrore che provo è ben più mirato e prossimo: è per un’Europa che si è lavata le mani di questo conflitto per decenni, salvo poi approfittare della corsa agli armamenti e delle laute prebende elargite a destra e a manca dal dittatore azero Aliyev. Ma è un orrore anche per me stesso che questa guerra la seguo, da lontano o sul campo, da tanti anni. Senza riuscire a incidere, limitandomi perlopiù al mio lavoro, stendendo computi di morti e feriti, come un burocrate della morte.
A breve questa guerra compirà trent’anni di vita. Se non fosse una tragedia che ha segnato la vita di milioni di persone, si rischierebbe di definirla un pezzo di teatro dell’assurdo, fra Ionesco e Beckett. L’Europa e i nostri governi non possono continuare a ignorare le società civili armena e azera, le tante vite spezzate e i traumi che, anche se la guerra finisse domani, segneranno ancora un paio di generazioni. Un’amica, proprio oggi, mi ha inviato i commenti di giovani armeni e azeri parte di un gruppo di progetti Erasmus. Accuse reciproche, incomunicabilità e odio. Noi europei sappiamo bene quali siano state le conseguenze del nazionalismo che si è protratto dopo la fine della grande guerra: una crisi della democrazia che, a partire proprio dai giovani, ha prodotto i regimi più feroci e spietati degli ultimi secoli.
Ora, l’Armenia con la rivoluzione di velluto del 2018, pacifica e senza spargimenti di sangue, ha dato prova di una vitalità e di un’apertura al mondo che ha sorpreso molti. La sua società civile, e i giovani in particolare, sono riusciti a mettere in difficoltà gli oligarchi che da decenni soffocavano la democrazia armena a suon di monopoli e soprusi. Eppure, poco o nulla è cambiato nell’atteggiamento dell’Europa nei confronti della regione e di questo conflitto. I soldi della dinastia Aliyev, al potere in Azerbaijan dal 1969 (no, non è un refuso), restano più appetibili per i nostri governi della voglia di libertà dei giovani armeni, ma anche di quelli azeri, che tante volte hanno dimostrato il loro coraggio sfidando un regime corrotto e feroce.
Il Nagorno-Karabakh non è una guerra, ma una terra bellissima che merita di ritrovare prosperità e pace, dopo il nero velluto della notte sovietica, come scriveva un poeta, e soprattutto dopo decenni di guerra. Sfollati e profughi di entrambe le parti meritano di ritornare nei loro luoghi di origine, e i giovani di entrambi i Paesi meritano una vita diversa, libera e lontana dalle caserme e dalle tante violenze che vi si consumano.
Ma nonostante tutto, i governanti europei continuano a volersi ammantare di una falsa neutralità che è solo disinteresse e cecità politica, quando non una vera e propria complicità nei confronti di una dittatura. I giornalisti continuano a fare le loro visite alle trincee e i loro pezzi, imboccati dall’una o dall’altra parte del conflitto, e gli attivisti le loro belle carriere evitando il più possibile di esporsi e condannandosi all’irrilevanza. Quanto dovrà passare prima che ci si impegni davvero in un piano di pace e nella sua attuazione? Quante altre escalation e morti dovremmo contare, compiacendoci della nostra neutralità e perizia?
L’Europa, che durante la pandemia ha dimostrato ancora una volta tutte le sue carenze in politica estera, ha una grande occasione: partire da un conflitto in parte limitato, come quello del Karabakh, per dimostrare a se stessa e al mondo che esiste e che è ancora in grado di fare la differenza. Perché il rischio, lo abbiamo visto anche di recente, altro non è che il crollo della casa comune europea, soffocata da risorgenti nazionalismi e antiche fratture, ma anche dalla sua irrilevanza politica.
Non si tratta di scegliere una bandiera, in questo conflitto, ma di dare un colpo decisivo a un nazionalismo tossico che, nel Caucaso, ha prodotto guerre infinite e genocidi. Non si tratta di glorificare i confini, semmai di demilitarizzarli e di abbatterli, permettendo alle persone di viaggiare e alle economie di fiorire, senza despoti, oligarchi e militari che ne tirino le fila.
Non si può essere una grande potenza economica senza avere una visione politica e la forza di metterla in atto. Il conflitto del Karabakh è un monito: una guerra che sembra antica, con le sue trincee scavate nella polvere e le sue alture presidiate dall’artiglieria. Ma è solo un’illusione, un abbaglio. La guerra in Ucraina ha avvicinato pericolosamente questo scenario fino al cuore del nostro continente senza, ancora una volta, una volontà univoca e precisa di porre ad esso fine. Gli attriti e le frontiere chiuse di questi mesi, all’interno dell’Unione stessa, dovrebbero farci pensare.
Non dimentichiamo il Nagorno-Karabakh e la frontiera insanguinata fra Azerbaijan e Armenia. Questa piccola regione potrebbe diventare, senza sforzi eccessivi, un laboratorio della pace capace, in prospettiva, di disinnescare e risolvere conflitti più difficili e complessi, segnando il rilancio dell’Europa. Mi illudo, diranno alcuni. È probabile, ma preferisco illudermi che rassegnarmi all’orrore infinito della guerra e al tramonto definitivo di un’Europa nata per superare i nazionalismi e i confini, e che oggi rischia di implodere per la sua mancanza di visione.