Mosca minimizza ma Erevan rischia di essere un’altra Kiev (Il Manifesto 26.04.18)
Tornano ad addensarsi pesanti nuvole nere nel cielo di Erevan. La speranza che le dimissioni del premier Sargsyan potessero portare a una transizione ordinata, dopo dieci anni di regime clientelare e corrotto, sembrano tramontare.
LE COSE NON SI ERANO MESSE sui binari giusti sin dalla mattinata di martedì. Il primo ministro ad interim Karen Karapetyan e il leader dell’opposizione Nikol Pashinyan si sono incrociati senza parlarsi alle commemorazioni per ricordare il genocidio ottomano del 1915 che condusse alla morte di un milione e mezzo di armeni. Nel pomeriggio Pashinyan è tornato a chiedere la poltrona di primo ministro e l’immediato scioglimento del parlamento. Proposta respinta dal Partito Repubblicano.
LA RINNOVATA RESISTENZA del Partito Repubblicano ai diktat dell’opposizione è giunta dopo la verifica della tenuta del suo gruppo parlamentare: nessuno dei suoi 58 deputati, che gli garantiscono ancora la maggioranza assoluta in parlamento, si è detto pronto a cambiare casacca: una compattezza su cui solo 24 ore prima non avrebbe scommesso nessuno.
Pashinyan si è quindi appellato ancora alla popolazione, proclamando una nuova mobilitazione generale per il giorno dopo. «Hanno sacrificato il presidente Sargsyan pur di non cambiare nulla. La lotta non è ancora finita», ha dichiarato. E ieri cortei e blocchi sono ripresi con maggior intensità. Assedio del parlamento ma non solo: bloccate dai dimostranti anche l’autostrada per la Georgia e quella che porta all’aeroporto.
IL NUOVO BRACCIO DI FERRO non riguarda però solo gli equilibri interni al paese ma soprattutto la sua collocazione internazionale. Pashinyan non ha mai nascosto la volontà di allineare il paese all’Occidente e ieri ha incontrato gli emissari dell’Ue e ha ha ricevuto parole di incoraggiamento dal Dipartimento di Stato americano.
Al termine della riunione, Pashanyan dopo alcune frasi di circostanza ha definito la sua agenda di politica estera. «Con la Russia abbiamo dei problemi – ha esordito Pashanyan con il piglio di chi si sente già premier – e non solo perché continua a vendere armi all’Azerbaigian».
IL LEADER DELL’OPPOSIZIONE ha affermato di non avere problemi con le basi militari russe presenti in Armenia (secondo gli accordi siglati nel 2010 l’esercito russo potrà restare nel paese fino al 2044) ma Mosca dovrà chiarire quali rapporti intende mantenere con la Turchia. Un approccio difficile da digerire al Cremlino, visti gli ottimi rapporti diplomatici e commerciali con Ankara degli ultimi tempi.
Mosca per ora mantiene la posizione prudente tenuta sin dall’inizio della crisi a Erevan. Peskov, portavoce ufficiale di Putin, ha detto di augurarsi che «il paese rimarrà nell’ordine e nella stabilità e che in un futuro molto prossimo, potremo comprendere quale sarà la nuova configurazione politica del paese». Peskov ha anche dichiarato di non vedere alcun parallelo tra la situazione armena attuale e quella ucraina di quattro anni. Tuttavia a Mosca qualcuno comincia a scalpitare. Ieri un deputato alla Duma si è dichiarato convinto dell’inaffidabilità di Pashanyan: «fa il doppio gioco: per il momento vuole continuare ad ricevere il nostro petrolio per poi passare con l’Occidente».
UN TIMORE non certo frutto di inguaribile diffidenza. In conferenza stampa Pashanyan ha affermato infatti di voler uscire dall’Unione Euroasiatica a guida russa, anche se ha precisato che la decisione «dovrà essere sottoposta a referendum popolare».
Sullo sfondo la ferita ancora aperta del Nagorno-Karabakh. La regione, contesa tra Azerbagian e Armenia, fu al centro di un conflitto i tra due paesi che si prolungò per due anni dal 1992 al 1994. Oggi la regione esiste come Repubblica de facto ma i negoziati per risolvere il conflitto non sono mai iniziati. Lunedì il ministero degli esteri azero ha intimato all’Armenia di «non cercare di sfruttare la contingenza politica per annettersi la regione» e ha rigettato l’accusa di Erevan di aver fatto ammassare alcuni reggimenti del proprio esercito al confine.