Mongolia e Armenia, quelle vite di donne narrate al femminile (L’Arena 28.08.20)
«Che importa se le capre muoiono» della franco-marocchina Sofia Alaoui è per ammissione della stessa giovanissima regista un approccio al dogma, «non solo religioso, ma a tutti i dogmi che regolano la vita civile», sostiene nell’intervista che viene mandata sullo schermo a fine proiezione. Il film è bello, con una fotografia invidiabile ma criptico: non si capisce cosa succeda dal momento in cui il giovane Abdellah lascia il padre e il suo allevamento di capre sulla catena dell’Atlante per andare a cercare del grano, che integri nell’alimentazione il magro pascolo ai margini del deserto. Da quel momento è tutto un mistero di persone non trovate, di risposte non date, di eventi celesti non visti, ma che spaventano (un tuono, un uragano, un meteorite?). Finisce senza che se ne sappia di più. Nata a Mosca nel 1978, Nataliya Kharlamova si propone in «Accampamento sulla via del ritorno», suo progetto di diploma per la scuola di cinema, di raccontare la vita di un anziano capo di una accampamento nomade nella steppa ai confini con la Mongolia e con il quale ha avuto l’opportunità di coltivare l’amicizia negli anni. Solo che al momento di girare il film il soggetto principale muore, ma la regista non rinuncia al suo progetto, registrando invece quello che succede nell’accampamento a capo assente, dalla cerimonia funebre al rito sciamanico che gli succederà. Protagonista del film diventa così la figlia Belekmaa, che si assume in maniera inattesa la direzione dell’azienda e pare l’unica con la testa sulle spalle in un posto popolato di maschi inetti e alcolizzati. Brava lei a interpretare se stessa e brava la regista a restare indenne in un ambiente simile. Ci sono altre protagoniste femminili in «Villaggio di donne» della regista e sceneggiatrice armena Tamara Stepanyan, che ha scelto di registrare un intero anno di vita di un paese abitato solo da donne, vecchi e bambini. I mariti e i giovani sono a lavorare in Russia dalla primavera all’autunno, in quello che tutti definiscono “esilio”, mentre madri e mogli assicurano la continuità di vita per i figli, gli animali e la campagna. Fanno tutto quello che farebbero le donne di casa e in più i lavori dei maschi. Una condizione difficilissima ritratta dal vero, in un documentario che mette a nudo ansie, problemi, contraddizioni di chi resta e di chi torna. L’intima complicità della macchina da presa è stata possibile perché la regista ha fatto tutto da sola, entrando da ospite prima e da amica poi nelle case delle donne che hanno accettato di raccontarsi e mostrare come sopportano l’attesa, restando avvinghiate alla loro terra che per il popolo armeno ha un significato forte quanto quello degli affetti familiari. I momenti di contatto sono telefonate spesso interrotte dalla copertura assente o anche da discorsi vacui che non hanno più argomenti, come capita fra una donna sposata 17enne e lasciata dal marito ventenne dopo pochi mesi per il lavoro in Russia, condizione che va avanti da oltre vent’anni. «Per me quando tornava era sempre un estraneo e ho faticato anni ad accettarne la presenza in casa», ammette. Neanche sull’altra sponda è facile: gli uomini vivono insieme in cameroni di una decina di persone per risparmiare sui costi dell’alloggio; lavorano da mattina a sera sfruttati al massimo per i mesi in cui è possibile lavorare in agricoltura o nell’edilizia, poi scaricati alle loro famiglie e al loro Paese: «Mi sento come un mulo che lascia l’erba fresca di casa per andare a mangiare quella secca fuori casa», confessa un marito. • © RIPRODUZIONE RISERVATA