«Mio zio, un modello da seguire» (Laprovinciapavese 05.06.18)
«Zio Wart era una persona straordinaria», così ha esordito la nipote Antonia Arslan, 80enne padovana, scrittrice e saggista di origini armene, vincitrice del premio Stresa di narrativa nel 2004 con “La masseria delle allodole”, ieri al convegno che l’università ha dedicato al 50esimo anniversario della morte di Wart “Edoardo” Arslan, primo professore di Storia dell’arte a Pavia, dal 1942 al ’68.
«Gli volevo bene – ha proseguito Antonia Arslan – perché era onesto, si rifiutava di esprimere opinioni avventate su argomenti che non conosceva e perché amava ciò che io amavo, l’arte. Io e lo zio avevamo tanto in comune e lui era il mio modello, per questo ho deciso in seguito di laurearmi in Archeologia. Pavia era la sua università, qui si trovava bene. Spesso sono andata a trovarlo e anch’io ho imparato ad apprezzare questa piccola città lombarda, ammirando soprattutto la rete di antichi collegi universitari che la caratterizza».
La nipote Arslan ha raccontato la storia della sua famiglia, come ha vissuto la tragedia del genocidio armeno e la scoperta della propria vocazione di condividere attraverso i suoi libri e saggi ciò che è accaduto al suo popolo. «Mio nonno si chiamava Yerwant Arslanian – ha spiegato – All’età di 13 anni è giunto da Kharpert a Venezia per motivi di studio. Al momento giusto si è laureato in Medicina a Padova e specializzato a Parigi. Tornato a Venezia nel 1898, ha sposato una contessina italiana del posto, che gli ha dato due figli, mio zio Yetwart, Edoardo, e mio padre Mikail, Michele. Quando nel 1915 la sua famiglia di origine è stata ammazzata o dispersa per il mondo dai turchi, il nonno ha avuto una crisi esistenziale da cui non è mai uscito. Ha voluto cancellare ogni legame con l’Armenia: ha tagliato il suo cognome da Arslanian in Arslan, ha educato i figli all’italiana senza insegnare loro nemmeno una parola di armeno. Per tale motivo, né mio padre né mio zio hanno mai sentito il genocidio armeno assai vicino alla loro sensibilità».
La scrittrice ha aggiunto: «Le cose sono cambiate con me. Ad un certo punto della mia vita ho capito quanto è importante che le persone sappiano che cosa è stato fatto agli armeni. Mi sono documentata, ho iniziato a fare domande ai parenti, a scrivere sull’argomento. “La masseria delle allodole” è ciò che è uscito dai miei studi e dagli aneddoti dolorosi che Yerwant Arslan, ormai anziano, ha avuto il coraggio di condividere con me. Della città di Kharpert, dell’Armenia, è tutto distrutto, però almeno credo di essere riuscita a ricostruirne il ricordo con i miei testi. L’ho fatto per coloro che non
hanno visto i fatti o che li hanno ignorati, per coloro che ne erano ignari o che hanno preferito sottovalutarli. Per me, il nonno, papà e zio Wart, che hanno trovato la loro casa a Pavia, Milano, Venezia ma che sempre hanno avuto una parte di se stessi senza patria». (g.cu.)