Le mosse ardite dell’armeno Pashinyan, verso la pace e contro la Russia (Haffingtonpost 13.06.24)
Non manca certo il coraggio politico a Nikol Pashinyan, che sta imponendo un profondo cambio di rotta all’Armenia. Con vista sull’Occidente, attraverso un progressivo allontamento dall’area di influenza della Russia. Con vista su una pace che manca da oltre 30 anni in Nagorno-Karabakh, attraverso decisioni difficili e impopolari, considerate necessarie per concludere la lunga guerra con l’Azerbaigian. Se stavolta qualcuno crede davvero a una pace nella regione contesa del Caucaso meridionale è soprattutto per il lavoro che negli ultimi mesi sta facendo il primo ministro armeno.
L’ultimo picco della tensione fra Armenia e Azerbaigian risale a settembre 2023, quando gli azeri avevano condotto con successo un blitz militare, costringendo 100mila armeni a lasciare il Nagorno Karabakh. Successivamente l’Armenia aveva chiesto alla Corte internazionale di Giustizia di imporre all’Azerbaigian di ritirare le truppe e consentire il rientro dei residenti armeni, e a novembre la corte dell’Aja aveva ordinato a Baku di garantire un rientro sicuro per chi volesse rientrare. Ad avviare un percorso di pace è stato poi l’accordo siglato a fine aprile fra Yerevan e Baku sulla delimitazione dei confini: in particolare la decisione di Pashinyan di restituire 4 villaggi occupati da forze armene nel 1990 – Askipara, Baghanis Ayrum, Gizilhajili e Kheirimly – che all’epoca dell’Urss appartenevano all’Azerbaigian. Una mossa “inevitabile”, secondo Pashinyan, per scongiurare una guerra da cui l’Armenia sarebbe uscita malissimo, ma anche necessaria per il percorso verso le firme sulla pace che ora spera di raggiungere “prima di novembre”.
La reazione interna in Armenia è stata veemente, con proteste particolarmente accese per quello che è stato giudicato un tradimento di Pashynian: il fronte contrario è guidato dall’arcivescovo Bagrat Galstanyan, che ha proclamato altri quattro giorni di proteste – il primo domenica 10 giugno, con una grande folla scesa pacificamente in piazza nella capitale armena Yerevan per chiedere le dimissioni del primo ministro, mentre nella giornata di mercoledì il bilancio include feriti e arresti, dopo l’intervento duro della polizia (anche con granate stordenti) contro i manifestanti che provavano a forzare il blocco davanti al Parlamento. L’arcivescovo Galstanyan ha detto alla piazza di aver chiesto un incontro a Pashinyan per discutere “i termini della sua uscita pacifica”; il religioso chiede la nomina di un governo di transizione per “attuare la riconciliazione”, gestire le relazioni estere e convocare elezioni anticipate. L’assenza di una reale alternativa politica, finora, non ha consentito il salto di qualità. Lo stesso arcivescovo, pur essendosi dimesso dai suoi incarichi religiosi, non può ricoprire cariche politiche secondo la legge armena perché ha passaporto canadese. Anche l’idea di portare in Parlamento una mozione di impeachment si scontra contro i numeri dell’assemblea, favorevoli al primo ministro. In definitiva Pashinyan, ex giornalista salito al potere in scia alle proteste di piazza del 2018, sta resistendo alle pressioni.
Parallelamente, Pashinyan sta imponendo all’Armenia un altro cambio di rotta, di profilo storico. Il governo di Yerevan ha criticato pubblicamente i russi per aver abbandonato l’Armenia a sé stessa contro Azerbaigian (e Turchia) – e Mosca, che ha una base militare in Armenia, ha sostenuto che le truppe russe non avevano il mandato per intervenire. Proprio oggi i caschi blu russi hanno completato il loro ritiro dal Nagorno Karabakh, dopo che l’Azerbaigian lo scorso settembre ha ripreso il controllo della regione: il mandato durava fino al 2025, ma la Russia ha accelerato il ritiro (iniziato lo scorso aprile, concordato da Putin e l’azero Aliyev) probabilmente per riposizionare i soldati sul fronte ucraino. Così Pashinyan ha iniziato a volgere lo sguardo verso Occidente, puntando di più sull’Europa e sugli Stati Uniti. Un gesto di sfida era stato, a fine gennaio scorso, l’adesione dell’Armenia alla Corte penale internazionale, quella che ha incriminato Vladimir Putin per crimini di guerra legati al conflitto in Ucraina. Ieri è arrivato un annuncio: l’Armenia intende ritirarsi dall’alleanza militare Csto (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) dominata dalla Federazione Russa e composta anche da Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Tagikistan. “Lasceremo la Csto, decideremo quando. E non torneremo”, ha detto il premier Pashinyan in Parlamento, dopo che già di recente aveva congelato la partecipazione al formato, cancellato la partecipazione alle esercitazioni militari e snobbato i summit. Poco dopo il ministro degli Esteri armeno Ararat Mirzoyan aveva parato il colpo, dicendo che non c’è una decisione presa sul ritiro. Ma le parole di Pashinyan sono pesanti: “Si è scoperto che i membri della Csto non hanno rispettato i loro obblighi ai sensi del trattato e hanno pianificato la guerra contro di noi insieme all’Azerbaigian”, ha detto, senza entrare nel merito. Oggi poi ha puntato il dito sulla Bielorussia: Pashinyan ha ritirato l’ambasciatore, ha detto che nessun funzionario armeno visiterà la Bielorussia finché il suo leader Alexander Lukashenko resterà al potere e ha aggiunto che prenderà in considerazione di modificare la sua decisione sulla Csto solo in caso di scuse del governo di Minsk o di un suo ritiro dall’alleanza.
Nella scelta di nemici come Putin e Lukashenko in una fase di altissima tensione interna c’è la cifra del coraggio politico – o dell’incoscienza, sarà il tempo a dirlo – di Nikol Pashinyan, il quale insiste che il trattato di pace è alla portata, malgrado restino alcuni importanti nodi da sciogliere. Uno su tutti, la richiesta del presidente dell’Azerbaigian Ilham Aliyev all’Armenia di modificare la propria Costituzione per rimuovere un riferimento indiretto all’indipendenza del Karabakh prima di siglare un accordo di pace. Di nuovo ieri Pashinyan si è detto contrario ad accogliere la richiesta di modifica costituzionale, sostenendo che l’insistenza sugli emendamenti rappresenta un tentativo di “silurare” il processo di pace. A conferma che, per firmare un trattato di pace sul Nagorno-Karabakh, servirà ancora buona volontà e molto lavoro.