Le conseguenze della guerra 40mila profughi allo sbando (Ilfattoquotidiano 01.03.21)
“Ci hanno staccato la corrente e le altre utenze per costringerci ad abbandonare il villaggio, ma noi non lo faremo”, raccontava a dicembre Harout Genejian, un ragazzo di Aghavno che si è unito alle truppe volontarie filo-armene dopo lo scoppio della guerra tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh. “Questo luogo per noi […]
Armenia-Azerbaijan. Il confine rovente Le conseguenze della guerra 40mila profughi allo sbando
“Ci hanno staccato la corrente e le altre utenze per costringerci ad abbandonare il villaggio, ma noi non lo faremo”, raccontava a dicembre Harout Genejian, un ragazzo di Aghavno che si è unito alle truppe volontarie filo-armene dopo lo scoppio della guerra tra Armenia e Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabakh. “Questo luogo per noi è sacro”, spiegava con un Kalashnikov in mano e una sigaretta nell’altra, mentre le donne intorno a lui parlavano degli orrori dei bombardamenti dei droni.
Oggi queste persone si trovano in Armenia e hanno dovuto lasciare le loro case. Quelle stesse donne che parlavano con apprensione dei mariti o dei figli al fronte hanno già incorniciato la foto di chi non tornerà più sopra la bandiera a lutto. È una terra martoriata, il Nagorno-Karabakh. Una storia di assegnazioni arbitrarie e ripensamenti che risale agli anni Venti dello scorso secolo ma che esplode nel 1991, quando sette province si auto-dichiarano indipendenti dall’Azerbaijan e assumono l’antico nome armeno di Repubblica dell’Artsakh.
L’Azerbaijan non riconosce il nuovo stato e l’Armenia interviene in sua difesa; ne scaturisce una guerra sanguinosa che dura fino al 1994 e si conclude con la vittoria armena e l’autonomia di fatto dell’Artsakh. Fino all’autunno del 2020, quando una poderosa offensiva delle truppe azere con il supporto turco riconquista due terzi della regione lasciando solo Stepanakert (che ne era anche la capitale) e pochi territori limitrofi sotto il controllo stabile del governo filo armeno.
Per settimane gli abitanti dei villaggi che ora si trovano lungo i nuovi confini hanno atteso di capire dove passasse il nuovo confine e se fossero o no obbligati a emigrare. Migliaia di agricoltori hanno perso i propri campi e sono stati costretti ad abbandonare beni e macchinari. Altri, come gli abitanti del piccolo paese di Pirdjamal, a nord di Stepanakert, hanno dovuto dividere le terre con i nuovi padroni accettando di credere a una pace nata già precaria.
Il villaggio di Aghavno è l’esempio perfetto di questo limbo. Qualche casa visibile dalla strada e un silenzio da cimitero lungo i vicoli sterrati che separano le vecchie abitazioni in rovina dai prefabbricati che in molti avevano accolto come il simbolo di una nuova stabilità, come a dire che in alcuni casi le convinzioni umane sono fondamenta più resistenti del cemento. Per questo, mentre nel resto dell’Artsakh migliaia di famiglie abbandonavano le province incalzate dall’avanzata azera, qui gli abitanti avevano scelto di rimanere e organizzarsi in piccoli gruppi armati per difendere le proprie case, anche dopo la resa di novembre.
“Di notte vedevamo le auto che correvano verso Goris (la prima cittadina oltre il confine, ndr) e ogni tanto sentivamo delle forti esplosioni, allora il cielo si illuminava per un po’ e noi scappavamo verso quelle case di pietra laggiù”, raccontava Mane, una ragazza di quindici anni che aspettava con la madre e i due fratelli di avere notizie del padre, contadino richiamato dall’esercito e inviato al fronte nella provincia di Hadrut.
Sopra Aghavno, infatti, passa il cosiddetto “Corridoio di Lachin”: una lingua di terra di 5 chilometri disseminata di scheletri di auto carbonizzate e ponti bombardati, che prende il nome della città di confine attraverso cui si snoda l’unica via percorribile tra Stepanakert e il territorio armeno. A presidiarla ci sono i soldati del contingente di pace russo inviati a garantire il “cessate il fuoco”. Duemila per cinque anni, stando agli accordi ufficiali, ma di recente il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan ha chiesto a Mosca di aumentare gli effettivi. Più avanti, poco prima della capitale, c’è Shushi, città simbolo dell’Artsakh per la storia secolare,le chiese antiche e, soprattutto, per la posizione strategica. “Chi controlla Shushi, controlla il NagornoKarabakh”, dice un adagio locale. Perciò gli azeri hanno impiegato le forze speciali e tutti i mezzi disponibili per conquistarla, inuna sanguinosa battaglia, combattuta casa per casa tra il 4 e il 7 novembre. Oggi dalla rocca di Shushi domina una gigantesca bandiera azera, visibile dall’altro lato della vallata. In quel punto i militari dei diversi contingenti sono a distanza di poche decine di metri e passando il check-point,fino a qualche settimana fa, si poteva vedere una bandiera turca di fianco a quella azera.
Moltissimi profughi provenienti da Shushi sono a Stepanakert nell’attesa di capire come si evolverà la situazione. In una mensa per rifugiati chiediamo a Meline, seduta a un tavolo con i suoi tre figli, se pensa che riuscirà a recuperare i suoi averi: “Ho visto in un video su Facebook che la mia casa è stata bombardata, ora sono qui solo per aspettare mio marito, poi ce ne andremo non so dove”. Il marito di Meline è prigioniero di guerra, insieme alla sua unità è stato catturato a fine ottobre e da quel momento la donna non ne ha più notizie. Come lei in molti attendono comunicazioni da parte del governo, ma non è ancora chiaro quanti siano i soldati catturati e dove siano. Le loro vite sono al centro dei trattati post-bellici e sono usate come moneta di scambio in uno scontro che intreccia diversi tipi di interessi. Ora il governo armeno affronta una situazione interna drammatica: l’economia è in ginocchio e il malcontento per la disfatta militare è montato fino a scatenare massicce proteste nelle piazze di Yerevan. I militari accusano il governo, il primo ministro denuncia un tentativo di colpo di stato e chiama i suoi fedelissimi a raccolta. Intanto Meline aspetta notizie, il padre di Mane è ancora disperso, migliaia di famiglie aspettano di sapere che fine hanno fatto i corpi dei propri cari e gli abitanti di Aghavno sono stati costretti a trasferirsi altrove dagli stessi russi che in molti avevano accolto come liberatori.
Ora Harout vive nel nord dell’Armenia e ha smesso l’uniforme: la sua è la vita di quasi 40 mila profughi dell’Artsakh che cercano di ricominciare da zero e che, quotidianamente, affrontano i fantasmi di una guerra che lascerà per molto tempo strascichi e cicatrici.